Negli ultimi anni l’uso dei social media (come Instagram, Snapchat, Twitter o Tiktok) da parte dei ragazzi è aumentato in modo significativo. Basta guardarsi intorno: la maggior parte degli adolescenti è continuamente connessa ad internet e questo potrebbe arrivare a delinearsi come una vera e propria dipendenza dal proprio smartphone e dalla dimensione dei social.
Se da una parte i social network hanno offerto per molti l’opportunità di interagire con altri (per esempio, durante il lockdown imposto dalle misure restrittive per il COVID-19), hanno aumentato il senso di comunità e di appartenenza, aiutando il singolo – attraverso il supporto tra pari e la condivisione- ad affrontare determinate situazioni di malessere, dall’altro questi strumenti possono contribuire ad un abbassamento della qualità di vita associato a sofferenza psicologica, sentimenti di solitudine, senso di esclusione e abbassamento dell’umore, e, nei casi più gravi, a comportamenti autolesivi e all’ideazione suicidaria.
Ce ne parla il dott. Pietro Ramella, Psicologo e Psicoterapeuta di PsicoCare.
Che ruolo hanno i social nel disagio giovanile?
La letteratura scientifica riconosce l’uso dei social media da parte degli adolescenti come un fattore di rischio positivo per il suicidio. Senza voler qui prendere una posizione morale ed etica contro i social network, i dati ci dicono che:
· i social network forniscono una piattaforma online favorenti le dinamiche del cosiddetto cyberbullismo, il quale può portare la persona “bersagliata”, ma non solo, ad un forte abbassamento dell’umore, fino allo stato depressivo, problemi comportamentali, abbassamento dell’autostima, abuso di sostanze, autolesività, pensieri e tentativi suicidari, sia per la vittima che per l’autore del reato;
· le pubblicità sui social media aumentano l’esposizione degli adolescenti all’uso di alcol, droga e tabacco;
· gli adolescenti sui social media sono maggiormente esposti al rischio di essere vittime di crimini sessuali poiché gli autori di reati possono utilizzare queste piattaforme per attirarli a sé;
· i social media definiscono un ideale “magro” di bellezza che non corrisponde alla realtà e che spesso può portare a sentimenti di inadeguatezza a loro volta potenzialmente collegati a comportamenti autolesivi o pensieri e ideazione di morte nel peggiore dei casi;
· le piattaforme web espongono maggiormente a sfide online, confronti sociali ed emulazioni;
· l’uso intenso dei social media può causare disturbi del sonno, con ripercussioni importanti sullo stato di salute dell’individuo durante l’arco della giornata (concentrazione, umore, disregolazione emotiva, calo delle performance giornaliere).
Chi sono i soggetti più a rischio di autolesività?
Non esiste un’unica categoria di persone ascrivibile a questo rischio. Sicuramente l’abbassamento dell’umore, la disregolazione emotiva, un contesto di vita sfavorevole, l’età, differenti disturbi psichiatrici o di personalità, eventi traumatici, sono alcuni tra gli elementi che presi singolarmente o in relazione tra loro possono aumentare il rischio che si presentino ideazione e comportamenti autolesivi.
Come si riconoscono i comportamenti autolesivi?
L’adolescente con comportamenti autolesivi tende a farsi del male: tagliandosi, bruciandosi o colpendosi; tuttavia, senza l’intenzione di morire. Questa è comunemente chiamata autolesività non suicidaria (NSSI).
Qual è il confine tra NSSI e pensiero suicida?
Spesso il comportamento autolesivo viene utilizzato come mezzo (sebbene inefficace a lungo termine/disfunzionale) di regolazione emotiva. L’atto in sé, il dolore provato e altri elementi contribuiscono ad aiutare la persona a spostare l’attenzione dall’emozione intensa provata in quel momento aiutandola, paradossalmente, a regolarla. In questo caso spesso si innesca un circolo vizioso che si autorinforza ogni qual volta un gesto autolesivo appare efficace nel regolare quel momento di crisi emotiva, senza che però vi sia come obiettivo quello di porre fine alla propria vita.
Un pensiero suicidario può delinearsi su un continuum, da meno a più strutturato, dalla fantasia suicidaria che può servire temporaneamente per pensare a una potenziale via di fuga, fino a un pensiero più strutturato dove la persona si trova a pensare mezzi, modi e tempi per raggiungere l’obiettivo di spegnere definitivamente la propria sofferenza tramite il decesso.
Cosa devo fare se ho pensieri autolesivi o suicidari?
Il primo passo è sicuramente quello di chiedere supporto psicologico. Dato che spesso e comprensibilmente non ce la si sente di parlarne con amici e familiari, lo Psicologo-Psicoterapeuta o lo Psichiatra sono le figure più competenti riguardo a questo tipo di sofferenza psicologica.
Che tipo di percorso terapeutico è indicato per l’autolesività e i pensieri/impulsi suicidari?
Dato che questo tipo di elementi può essere associato a differenti tipi di sofferenza psicologica, il primo passo è sicuramente quello di fare una prima valutazione con Psicologo/Psichiatra che valuteranno così la tipologia di presa in carico. Quest’ultima può proseguire nell’ambito psicoterapico ambulatoriale, con eventuale supporto farmacologico da parte dello psichiatra, fino ad un eventuale valutazione di un ricovero (di lunghezza variabile e in contesti differenti) nei casi di livelli di sofferenza psicologica di più elevata intensità.