Come sostenere un figlio che pratica sport?

Dopo la vittoria agli Australian Open, le prima parole del tennista italiano Jannik Sinner sono state di gratitudine verso la sua famiglia: “auguro a tutti di avere genitori come i miei, che non mi hanno mai messo sotto pressione anche quando giocavo ad altri sport, e auguro a tutti i bambini la libertà che ho avuto io grazie ai miei genitori”.

Parole importanti che sottolineano l’importanza dei genitori nello sport praticato dai propri figli. Ce ne parla la dott.ssa Elena Campanini, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

Qual è il ruolo dei genitori nello sport?

“Le parole di Sinner sono un distillato di quello che i genitori dovrebbero fare per aiutare i propri figli a vivere l’esperienza dello sport in maniera costruttiva.

Lasciare libero un figlio nella pratica di uno sport significa “lasciarlo essere” ovvero essere libero di autodeterminarsi e di farcela da solo senza troppi aiuti e intrusioni genitoriali. Si comincia  essendo dei buoni accompagnatori sia di nome che di fatto, partecipi, ma non intrusivi; è buona cosa rimanere sempre un passo indietro nel rispetto del raggio di azione del figlio, lasciandolo sulla soglia dello spogliatoio, luogo assai significativo, libero di potersi spogliare, farsi la doccia, vestirsi da solo, rapportarsi con i compagni, per poi poter andare in campo non necessariamente per vincere, ma per giocarsela tutta. Che sia in occasione di un allenamento o di una competizione non vi dovrebbe essere differenza.

Il genitore deve essere il primo tifoso del figlio, senza però scadere in fanatismi sia di glorificazione che di denigrazione e deve astenersi da valutazioni e commenti tecnici; per quello c’è l’allenatore. Il genitore deve essere un portavoce esplicito di “fair play” ovvero di correttezza a partire da come sta in tribuna, a come si rapporta con i tecnici, gli allenatori, gli altri atleti e gli altri genitori; significa inoltre insegnare e dare il buono esempio nel competere in virtù del rispetto delle regole e senza imbrogli, dei limiti propri ed altrui, nel non considerare l’avversario come un nemico, nell’accettare la sconfitta con dignità e che l’errore sia visto come uno sprone per crescere e per migliorarsi e non si traduca in un motivo per sentirsi dei falliti.

Vanno inoltre ricordati alcuni doveri fondamentali dei genitori fra cui lasciare che il figlio possa essere libero di scegliere il proprio sport in nome della propria soddisfazione e del proprio divertimento, ma soprattutto  senza che senta l’obbligo di diventare un campione; che siano inoltre dei vigili attenti a che la pratica sportiva avvenga in sicurezza e sia funzionale alla sua educazione; che lo sport sia un valore aggiunto e assai peculiare per la sua crescita psicofisica e culturale; che sport e scuola possano essere tranquillamente compatibili e addirittura di aiuto l’uno con l’altro, basta volerlo. Che ci sia un avviamento allo sport, specie se agonistico, graduale e senza una precoce specializzazione e che lo sforzo richiesto sia in linea e rispettoso del suo sviluppo psicofisico”.

Quali sono gli sbagli che si tendono a fare più spesso?

“Gli errori più frequenti nascono tutti da una stessa radice malsana, che è quella di vivere le esperienze dei figli senza soluzione di continuità. È un errore educativo che si ritrova in molti ambiti a partire da quello scolastico. Le conseguenze sono quelle di vivere il figlio come un proprio prolungamento, una sorta di appendice da cui si pretende la soddisfazione di esigenze o bisogni personali spesso reconditi, ma agiti all’interno della relazione educativa. 

I più comuni fra questi sono la visibilità e l’eccellenza ad ogni costo e in tempi non congrui con le reali capacità psicofisiche del giovane atleta, fra cui anche quella di gestire l’eventuale notorietà e successo. E qui risuona forte il significato profondo del ringraziamento di Sinner ai propri genitori per averlo lasciato libero. 

Le conseguenze per il figlio possono spesso essere deleterie: in primis che lo sport diventi l’ennesimo dovere a cui far fronte senza alcuna personale soddisfazione se non quella di far piacere al genitore esigente e di non deluderlo in caso di sconfitta. 

È noto che alcuni genitori usino premi, talvolta anche in denaro, e punizioni a suggello dell’andamento delle prestazioni dei piccoli atleti a fronte di attività agonistiche praticate a livello amatoriale. Mi sento di affermare che lo sport fatto così fa male ed è purtroppo il prodotto della cultura del narcisismo in cui viviamo e di cui lo sport è tristemente teatro.

Non è un caso che nel 1992 la Commissione del Tempo Libero dell’O.N.U. abbia redatto la Carta dei Diritti allo Sport in cui fra i dieci articoli da cui è composto, oltre che dichiarare in prima battuta che ogni bambino ha il diritto di praticare sport e attività motoria, si puntualizza il diritto di giocare e di divertirsi e di non essere sempre un campione. Gli atleti di vertice in tal senso ci insegnano che non si può vincere sempre e che il divertimento è la motivazione fondamentale per sopportare la fatica, il peso e la pressione di essere un vincente. Nessun cachet anche se assai profumato ha la stessa valenza!”.

Che aiuto può fornire ai genitori uno Psicologo dello Sport?

“La Psicologia dello Sport è una branca della psicologia che si occupa di studiare il comportamento umano legato all’attività sportiva, intervenendo sugli aspetti psicologici, sociali, pedagogici e psico-fisiologici, nonché sul benessere psicofisico di chi pratica attività sportiva e motoria in ogni età. Nello sport professionistico o di vertice lo psicologo lavora con l’atleta sulla performance, intervenendo su variabili come motivazione, attivazione, abilità cognitive etc. avendo sempre come focus principale la persona/atleta in un’ottica di ottimizzazione tra benessere e rendimento.

Nello sport dilettantistico o nell’ambito dell’agonismo in età evolutiva lo psicologo dello sport si occupa principalmente del buon funzionamento delle organizzazioni sportive e del benessere degli atleti, apportando competenze e capacità tipiche del suo profilo declinate attraverso interventi di counseling individuale e di collaborazione a livello organizzativo.

Le motivazioni che possono giustificare un consulto possono essere molte e in linea con quanto detto. Alcune spie di disagio da tener presenti sono: 

  • insonnia
  • stanchezza 
  • demotivazione
  • minaccia di abbandono precoce
  • over training
  • manifestazioni somatiche di ansia 
  • infortuni ricorrenti
  • approccio al cibo non sereno
  • conflitti con la propria immagine corporea 

In questi casi lo psicologo dello sport ha le competenze peculiari per fare una diagnosi differenziale e intervenire su ciò che vi è alla base del disagio, ma come in altri ambiti della salute, anche in questo caso è meglio prevenire che curare.


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