Chi soffre di shopping compulsivo non sente realmente il bisogno dell’oggetto che vuole comprare, quanto del gesto stesso dell’acquisto. Nonostante questo, il piacere di andare a fare compere, lascia spesso il posto alla tensione, al disagio, al senso di non riuscire a farne a meno, arrivando ad una condizione talvolta drammatica: la persona ha speso tutti i soldi che aveva, ha mentito ai familiari, ha utilizzato risorse di nascosto, ha omesso gli acquisti fatti.

Eppure, è difficile che questi soggetti ne siano pentiti, perché il piacere e il brivido che precedono e accompagnano l’andare a fare acquisti perdura. Ce ne parla la dottoressa Paola Mosini, psicoterapeuta di PsicoCare.

Shopping compulsivo, quali sono i sintomi da non sottovalutare?

Quando fare acquisti è un modo per coccolarsi o sentirsi appagati ogni tanto, va bene. I problemi iniziano quando il nostro modo per trovare appagamento o coccole (per migliorare la giornata e sentirci meglio) passa unicamente dall’acquisto, diventando un gesto ossessivo.

La frequenza è quindi il primo campanello d’allarme, così come la perdita di volontarietà (ci si ritrova quasi senza deciderlo con un oggetto, nonostante non si volesse o potesse acquistare) e l’eccesso (si comprano cose con prezzi superiori a quelli che effettivamente ci potremmo permettere).

Inoltre, va considerato il significato emotivo del gesto: dobbiamo stare all’erta quando è legato al bisogno e alla necessità di appagamento, di gratificazione, ad un senso di astinenza-necessità quasi fisica.

Spesso lo shopping compulsivo è associato dalla comunità scientifica ad altri disturbi come depressione, disturbo ossessivo compulsivo, disturbi d’ansia, disturbi alimentari, gioco d’azzardo patologico, cleptomania. Tra la normalità, ovvero il piacere di concedersi una coccola ogni tanto con un piccolo acquisto, e la patologia (la bancarotta, fallimento sentimentale a causa di debiti e acquisti smodati e ripetuti fra menzogne e accumulo eccessivo di oggetti inutili) troviamo i fashion victim e tante altre sfumature.

I profili psicologici dell’acquisto

Come dicevamo, i profili psicologici della persona che soffre di shopping compulsivo possono essere diversi. Presi singolarmente, possiamo distinguerli tra:

·  gli impulsivi: acquistano senza premeditazione, escono di casa per andare a spedire una raccomandata in posta e tornano con una gonna o una borsetta, prese senza nessuna valutazione circa l’utilità e/o l’entità economica. Spesso poi si pentono dell’acquisto o non lo utilizzano, perché effettivamente non ne avevano necessità e magari non corrisponde nemmeno ai loro gusti.

·  i seriali e gli accumulatori (disposofobia): si focalizzano quasi sempre sugli stessi oggetti e spesso diventano accumulatori (borse, scarpe, orologi, profumi). Alcuni non si sbarazzerebbero mai degli oggetti accumulati seppur non li utilizzino mai, come se ci fosse un legame affettivo e un vero e proprio disagio fatto di ansia e panico all’idea di non avere più l’oggetto – più del 50% di chi ha effettivamente una diagnosi di shopping patologico ha un problema di accumulo e nel DSM-V le due cose sono saldamente legate -.

·  gli emotional buyers: sono le persone che escono e vanno a fare acquisti come forma di ansiolitico, per sedare emozioni negative, come tristezza e rabbia (magari a fronte di un litigio o di una giornata storta); spesso lo fanno inconsciamente, non ne sono consapevoli. A volte, come per il cibo, il risultato sono delle vere e proprie abbuffate di acquisti, perché il gesto è determinato dal bisogno di riempirsi emotivamente, con una necessità che può andare oltre al singolo oggetto.

·  i vanitosi: l’acquisto è totalmente focalizzato all’apparire speciali, sono quelle persone che magari rimuginano sull’opportunità dell’acquisto combattendo con loro stessi per motivare la necessità di un nuovo cappotto, trovando alla fine il modo di ingannarsi, vincere le resistenze di natura economica, morale, o altro, e finalmente indossare l’oggetto desiderato. Si sentono inadeguati fino all’acquisto del capo. L’acquisto del capo dà invece un senso di onnipotenza.

·  fashion victims: soggetti che si fanno influenzare dalla spinta consumistica e pubblicitaria all’acquisto dell’ultimo modello assolutamente indispensabile, ma di fatto solamente di moda.

·  i tossici: persone che svuotano il gesto dell’acquisto del significato sociale (vanità, spinta consumistica) ed emotivo (bisogno di compensazione), ma sono letteralmente drogati del brivido che vivono nel momento dell’acquisto, simile a quello che provano i giocatori d’azzardo. Qui sono presenti tutte le caratteristiche di una dipendenza: il craving (desiderio impulsivo), l’astinenza, perdita di controllo e tolleranza – dover aumentare la “dose” per avere lo stesso effetto -.

Chi è più a rischio di shopping compulsivo?

Il 95% di chi ne soffre sono donne fra i 20 e i 30 anni,  che hanno o hanno avuto un altro disturbo della sfera emozionale come ansia, fobie, depressione. Altri fattori di rischio sono:

·  alta frequenza di eventi stressanti e avversi nella storia di queste persone (come micro e macro-traumatismi)

·  storia di Disturbo da Deficit dell’Attenzione (ADHD)

·  bassa autostima

·  basso livello culturale

·  elevata tendenza all’estroversione

·  chi vive le emozioni in apnea, con bassa consapevolezza

Infine, potrebbe essere che una rete sociale renda la gratificazione da acquisto meno necessaria, ma allo stesso tempo una vita sociale intensa potrebbe essere correlata a una bassa capacità di astrarsi da meccanismi di conformismo e bisogno di apparire.

Come faccio a capire se soffro di shopping compulsivo?

L’American Psichiatric Association non considera lo shopping compulsivo una categoria diagnostica a sé stante; tuttavia, nella sua ultima versione del DSM-V, fa tuttavia riferimento alla disposofobia (Hoarding Disorder – a volte descritto anche come Sillogomania, Accaparramento Compulsivo, Accumulo Patologico, Mentalità Messie, Sindrome di Collyer), ovvero la patologia da accumulo, all’interno della quale vi è il sottotipo specifico con acquisto eccessivo (in circa il 64% dei casi), che comprende i soggetti con una forma di disturbo più grave (esordio più precoce, sintomatologia più marcata, maggior probabilità di avere patologie in co-presenza, come ansia, depressione e altre dipendenze).

Sono stati sviluppati vari test, nella forma soprattutto di questionari, per diagnosticare il problema, ma sono tuttavia strumenti poco specifici e accurati (3 persone su 4 che risultano avere il disturbo, in realtà non lo hanno).

In effetti il fenomeno è complesso e sfumato: c’è chi, fra gli studiosi, lo associa più a un disturbo d’ansia, (compulsività), chi più a un problema degli impulsi, (impulsività), chi più a una vera e propria dipendenza, (tossicofilia).

Possiamo tuttavia citare alcune domande target con cui possiamo capire se siamo a “rischio”:

·  Quanto spesso compri cose che poi non usi?

·  Quanto spesso ti capita di dirti “ma sì, lo compro, è solo perché è un’occasione ma poi basta, è l’ultima volta”?

·  Quanto spesso fai acquisti per sentirti meglio?

·  Spendi più tempo/soldi del voluto facendo shopping?

·  Quanto spesso acquisti in modo impulsivo per poi pentirti?

Shopping compulsivo: cosa si compra?

Generalmente si comprano oggetti di cui non vi è un reale bisogno o che magari si possiedono già, che non corrispondono ai propri reali gusti personali o che sono al di fuori delle proprie possibilità economiche. Una volta acquistati perdono spesso di interesse tanto da non essere tolti dalle loro confezioni, da essere restituiti, nascosti o regalati ad altri (specie per le televendite on-line, terreno fertile per i profili “tossici” e i “fashion victims”).

Le principali spese compulsive riguardano generalmente:

·  abiti

·  scarpe

·  borse

·  gioielli

·  prodotti di bellezza

Come combattere lo shopping compulsivo?

Di seguito alcuni consigli non solo per chi soffre di una condizione già conclamata, ma anche per chi vuole trovare un modo per avere il controllo degli acquisti:

·  Non tenere carte di credito

·  Evitare lo shopping online

·  Attenzione alle offerte civetta (saldi, sconti, discount, etc)

·  Stabilire un budget

·  Prevenire è meglio che curare: imparare a emozionarsi per evitare l’acquisto emotivo.

Come si cura lo shopping compulsivo?

I singoli casi andrebbero valutati singolarmente. In base agli aspetti che più caratterizzano li caratterizzano (impulsività, compulsività, aspetti sociali-culturali-personologici, tossicofilia), per individuare trattamenti specifici.

In generale viene utilizzato un approccio psicoterapico e farmacologico.

Nel primo caso, viene preferita la Terapia Cognitivo Comportamentale; mentre dal punto di vista farmacologico, vengono somministrati farmaci ad azione anti-ossessiva e anti-impulsiva per gestire al meglio l’impulsività spiccata, la tossicofilia per l’acquisto, la tendenza all’accumulo e favorire l’effetto della psicoterapia.

Infine, possono essere adottate tecniche meditative, come la mindfulness, per aiutare a migliorare l’autocontrollo e quindi integrarsi con le terapie descritte.

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La sindrome premestruale (SP) è un disturbo caratterizzato da sintomi fisici e psicologici che tendono a comparire nei quattro giorni che precedono le mestruazioni. Disturbi lievi che tuttavia, in alcuni casi (dal 3 al 9%), possono aggravarsi, portando al disturbo disforico premestruale (DDP). Una patologia severa caratterizzata da una sintomatologia più acuta – specie a livello psicologico – che può arrivare a compromettere la qualità della vita della paziente. Di cosa si tratta esattamente e come può essere curata? Lo abbiamo chiesto al dott. Domenico De Donatis, psichiatra di PsicoCare.

Quali sono i sintomi della sindrome premestruale?

Nella maggior parte delle donne con ciclo mestruale regolare, la sindrome premestruale si manifesta con sintomi lievi, come:

·  gonfiore

·  abbassamento del tono dell’umore

·  stanchezza

·  irritabilità

·  ansia

Tuttavia, come dicevamo, possono presentarsi anche manifestazioni a livello fisico, con: 

·  mal di testa

·  dolore e gonfiore al seno

·  indolenzimento ai muscoli

·  aumento della fame o voglia di alimenti specifici

·  disturbi del sonno (dormendo più della norma o avere un sonno disturbato)

o psicologico:

·  stati depressivi con sensazione di tristezza e tendenza al pianto

·  sbalzi d’umore

·  difficoltà di concentrazione

·  sentirsi sopraffatti dalle cose

·  tendenza a ritirarsi socialmente

Come si manifesta il disturbo disforico premestruale?

Il disturbo disforico premestruale ha sintomi simili alla sindrome premestruale ma di intensità maggiore.

Le manifestazioni di natura psicologica diventano più acute con profondi stati depressivi che spesso portano la persona a sentirsi sopraffatta e ad isolarsi, con un impatto negativo sul lavoro, sulla scuola, nelle relazioni o nella semplice routine quotidiana.

Come vengono diagnosticati questi disturbi?

Lo psicoterapeuta, attraverso un colloquio psicologico, valuta l’intensità e la durata della sintomatologia riferita dalla paziente (in determinati casi, può richiedere la compilazione di un diario giornaliero, dove la paziente dovrà prendere nota ogni giorno – per circa due mesi – dei sintomi psicologici e fisici che si manifestano) per poi prescrivere la terapia più adatta al singolo caso.

Come si cura la sindrome premestruale?

La sindrome premestruale può essere trattata mettendo in pratica alcune buone abitudini – da seguire tutto il mese, non solo nel periodo che precede il ciclo – che consentano di mantenere una vita attiva ed equilibrata, sia dal punto di vista fisico che psicologico:

·  svolgendo attività fisica regolarmente

·  non esagerando con i pasti abbondanti

·  riducendo il contenuto di sale nei piatti (specie se la paziente soffre di gonfiore)

·  praticando esercizi di rilassamento o attività che favoriscono la concentrazione mentale, come lo yoga

Nel caso di mal di testa o dolore muscolare, possono essere prescritti farmaci antinfiammatori o la pillola anticoncezionale per alleviare i sintomi (esclusivamente su prescrizione dello specialista ginecologo in accordo con lo psicoterapeuta). 

Come trattare il disturbo disforico premestruale?

Essendo caratterizzato da sintomi psicologici acuti, specie di natura depressiva, il disturbo disforico premestruale può necessitare di una terapia farmacologica mirata con farmaci della classe SSRI, utilizzati proprio nel trattamento di ansia e depressione.

Tuttavia, insieme a questa terapia, è necessario che la paziente segua gli stessi consigli utili per trattare la sindrome premestruale.

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Praticare attività fisica con regolarità, contribuisce a migliorare enormemente il benessere psicofisico, aiutando non solo a prevenire molte malattie e mantenerci in salute, ma anche a moderare lo stress, l’umore, a combattere ansia e depressione. Non è necessario essere un atleta professionista. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce attività fisica «qualsiasi movimento corporeo prodotto dall’apparato muscolo-scheletrico che richiede dispendio energetico», includendo anche tutte quelle attività che vengono praticate nella vita di tutti i giorni, al lavoro o nel tempo libero.

La dott.ssa Elisa Morrone, psicologa e psicoterapeuta presso i centri Humanitas Medical Care di Domodossola e De Angeli a Milano, ci spiega il motivo.

Che effetti ha lo sport sul benessere psicologico?

I benefici dello sport sul benessere mentale sono diversi. Innanzitutto, l’esercizio fisico influisce sui livelli di serotonina, il cosiddetto “ormone del buon umore”, e permette al cervello di rilasciare endorfine, riducendo i livelli stress. Aiuta ad aumentare l’attenzione, l’autocontrollo e il problem solving; migliora la percezione del proprio stato di salute fisico, ci permette di dormire meglio e sentirci più riposati, consente di passare più tempo all’aria aperta e non pensare a ciò che ci preoccupa. Ma non solo: lo sport può aiutarci a migliorare lo sviluppo cognitivo, la creatività e la concentrazione; richiede la definizione di obiettivi,e il raggiungerli aumenta l’autostima e la fiducia in sé stessi, verso gli altri e l’auto-affermazione.

Infine, la partecipazione agli sport di squadra migliora la resilienza, l’empatia, e le abilità sociali.

Quali condizioni mentali beneficiano maggiormente dello sport?

Lo sport può avere molti benefici sulla salute mentale. Fare una passeggiata prima di tornare a casa dopo una dura giornata di lavoro, può aiutare a gestire lo stress sia acuto che cronico, mentre un esercizio breve e intenso, come 20 minuti di spinning (quando le condizioni mediche lo consentono), può dare una mano a gestire la rabbia

Tuttavia, sono i pazienti con depressione a beneficiare maggiormente dell’attività sportiva. Uno studio pubblicato nel 2018 sull’effetto della fluoxetina (un antidepressivo molto utilizzato) e dell’attività sportiva sulla funzionalità cerebrale, ha concluso che entrambi stimolano l’attività neuronale dell’ippocampo (la principale struttura coinvolta nella memorizzazione e nell’apprendimento che svolge anche un ruolo importante nella gestione e comprensione delle emozioni), aumentando la produzione di nuove cellule.

Quanto sport devo fare per avere un benessere mentale?

È totalmente soggettivo, solo noi possiamo renderci conto di quanta attività fisica svolgere per sentirci bene, l’importante è non esagerare: il nostro organismo, in ogni sua funzione, ha dei limiti che dobbiamo imparare a conoscere e rispettare.

Quale sport scegliere per il benessere mentale?

Gli sport di gruppo portano sicuramente molti vantaggi, sia perché ci consentono di socializzare e metterci in gioco, sia perché ci permettono di vincere le difficoltà legate magari al gruppo, al giudizio, ci può aiutare a vincere la nostra introversione. Raggiungere gli obiettivi insieme al gruppo ci fa sentire parte di un sistema che funziona e che, proprio perché funzionale, ci fa stare bene senza esagerare.

L’attività fisica di gruppo organizzata e gestita da un allenatore aiuta molto nel superare quelle barriere di disagio psicologico

Attenzione alla dipendenza dallo sport, verso la quale forse i modelli che seguiamo ci portano. Le caratteristiche di tale dipendenza sono quelle di tutte le dipendenze: ansia quando si salta l’allenamento, controllo persistente dell’attività svolta, incapacità di concentrarsi su altro per via del pensiero fisso allo sport, il continuare a voler sfidare il proprio limite e fare sempre di più aumentando il livello di intensità.

L’importante è fermarsi quando ci si sente affaticati, quando il nostro pensiero è sempre o spesso alla palestra, al fisico, alle sfide e chiedere aiuto. 

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La dislessia fa parte dei cosiddetti “disturbi specifici dell’apprendimento (DSA)”, ovvero disturbi del neuro-sviluppo che riguardano la capacità di leggere, scrivere e calcolare in modo corretto.

Tende a manifestarsi più spesso nei primi anni di scuola elementare con difficoltà nella lettura e scrittura (i bambini invertono o sostituiscono le lettere, come la f con la v, la m con la n, la a con la e, la p con la q, oppure omettono lettere, parole o numeri), nella comprensione del testo o nell’apprendere alcune attività (come leggere l’ora o allacciarsi le scarpe).

Tuttavia, la dislessia (come tutti i disturbi dell’apprendimento) può essere diagnosticata anche tardivamente quando, con l’avanzare della scolarizzazione, aumentano le richieste prestazionali sul piano della lettura, della scrittura e del calcolo.

Riconoscerla è fondamentale per aiutare queste persone non solo nella vita di tutti i giorni ma anche nel mondo del lavoro. La dislessia, infatti, può accompagnare la persona anche nell’età adulta.

Ce ne parla la dott.ssa Marcella Mauro, psicologa dell’apprendimento presso l’ambulatorio Humanitas Medical Care Domodossola a Milano e specialista di PsicoCare.

Come riconoscere la dislessia negli adulti? 

La dislessia negli adulti può manifestarsi in diversi modi. Per esempio, alcune persone leggono molto lentamente, senza tuttavia commettere errori di decifrazione; altre leggono più velocemente ma con un’accuratezza inferiore  (devono autocorreggersi continuamente, hanno esitazioni, fanno errori di anticipazione basati sulla prima sillaba della parola che penalizza la comprensione del testo).

Inevitabilmente l’affaticamento durante la decodifica, più o meno importante, porta ad un evitamento della lettura; infatti, molti dislessici adulti, anche se migliorati nel tempo, provano poco piacere a leggere o continuano ad avere problemi a leggere ad alta voce.

Nel parlato, invece, la persona può avere:

·   Problemi nell’eloquio (mancanza di scioltezza e di un linguaggio preciso)

·   Difficoltà a pronunciare nomi di persone e luoghi in modo corretto (la persona inciampa su parti di parole) o a ricordare (il soggetto tende a confondere nomi che hanno lo stesso suono)

·   Difficoltà a recuperare le parole (ha spesso momenti in cui dice “mmh come si chiama? Ce l’ho sulla punta della lingua”)

·   Un vocabolario parlato inferiore al vocabolario di comprensione

·   Fatica nell’acquisizione delle lingue straniere, in particolare nello scritto

Nella vita scolastica universitaria, la persona dislessica tende ancora a sentirsi incapace o si preoccupa che i compagni la giudichino tale, è penalizzata dai test a risposta multipla; impiega più tempo per lo studio. Nella quotidianità può faticare ad eseguire correttamente i compiti amministrativi routinari (per esempio, confonde giorni e orari), a ricordarsi le strade percorse più volte, a confondere destra e sinistra.

Nell’ambiente di lavoro, la persona dislessica:

·   Evita di leggere ad alta voce durante le riunioni

·   Evita di parlare in pubblico quando possibile

·   Deve leggere più volte le e-mail prima di comprenderle

·   Ha difficoltà di fronte ai caratteri tipografici non familiari o ai materiali scritti a mano

·   Fa eccessivo affidamento sul controllo ortografico e su altri strumenti di scrittura informatizzati

·   Si annoia o si distrae facilmente durante la lettura di documenti lunghi

·   Non apprezza il lavoro amministrativo, come la compilazione di moduli ripetitivi

·   Cerca strategie di coping per nascondere le difficoltà ai colleghi

Quali sono i punti di forza della persona dislessica?

Come dicevamo, spesso le persone dislessiche, compensano con altri punti di forza:

·   Hanno un’elevata capacità di apprendimento

·   Mostrano un notevole miglioramento nelle prestazioni quando gli viene concesso del tempo aggiuntivo (soprattutto per gli esami a scelta multipla)

·   Dimostrano eccellenza quando si concentrano su un’area altamente specializzata più vicina ai loro interessi (come la medicina, le politiche pubbliche, la finanza, l’architettura o le scienze di base)

·   Hanno buone capacità di scrittura se l’attenzione è rivolta al contenuto e non all’ortografia

·   Riescono ad esprimere bene di idee e sentimenti;

·   Hanno un’ottima empatia con le persone 

·   Hanno una buona memoria visiva 

·   Hanno un’inclinazione a pensare fuori dagli schemi e a vedere il quadro d’insieme 

·   Dimostrano una notevole resilienza e capacità di adattamento

Come viene trattata la dislessia negli adulti?

Non esistono farmaci in grado di trattare o curare la dislessia, in quanto è semplicemente una caratteristica neurobiologica. Si offrono alla persona strumenti e strategie utili per facilitare la lettura, la scrittura e altre abilità che sono influenzate da questo disturbi, come computer, registratori digitali e smartphone.

In questo modo, liberandosi di alcuni sforzi per loro necessari, possono concentrarsi sulle parti del lavoro che sanno fare meglio.

Può lavorare una persona dislessica?

Certamente. Inoltre, la legge 25/2022 del 29 marzo 2022, ha introdotto i diritti fondamentali per le lavoratrici e i lavoratori con disturbi specifici dell’apprendimento, aiutando queste persone a sfruttare al meglio i propri punti di forza e a ridurre al minimo le difficoltà che potrebbe incontrare a causa della dislessia.

Un traguardo importante per più di un milione di lavoratori italiani che hanno così la possibilità di dichiarare liberamente la propria condizione, di chiedere e poter accedere all’uso di tutti gli strumenti compensativi (come il computer con sintesi vocale, la calcolatrice, schemi e formulari oltre a tempo aggiuntivo per i test di selezione scritti) per poter lavorare meglio.

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Da oggi, prendersi cura del proprio benessere emotivo non è mai stato così semplice. Gli psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, neurologi e neuropsicologi della squadra di Humanitas, presentano PsicoCare: un nuovo sito internet che permette al paziente di entrare in contatto, sia in presenza che online, con l’intera équipe dedicata alla salute mentale, con l’obiettivo di garantirgli un miglior accesso alle cure e una risposta più veloce e personalizzata per ogni singolo problema.

Vuoi saperne di più? Esplora il nuovo sito e rispondi al questionario per trovare il tuo professionista.

Perché è importante il benessere emotivo?

Secondo l’ultima indagine condotta da Ipsos (Global Health Service Monitor 2023), i problemi di salute mentale – tra quelli che affliggono maggiormente il nostro Paese – rappresentano la principale fonte di preoccupazione degli italiani (dopo il cancro e il COVID-19), evidenziando un incremento del 17% rispetto alla precedente rilevazione del 2018.

Ma cosa si intende per problemi di salute mentale? Il malessere emotivo non è sempre la conseguenza di una determinata patologia ma può essere più comunemente legato a momenti e situazioni difficili che ognuno di noi può trovarsi ad affrontare nel corso della propria vita, come un trauma, una brutta notizia, una relazione complicata, una perdita o lo stress sul lavoro. Basti pensare che sono nell’ultimo anno, oltre un italiano su quattro ha dichiarato di non essere andato a lavorare per un determinato periodo di tempo proprio a causa dello stress (31% – Ipsos Global Health Service Monitor 2023).

Le ragioni possono essere tantissime, più o meno gravi, poco importa: non bisogna affrontarle da soli. Quando sentiamo che le nostre risorse personali non sono sufficienti ad affrontare una determinata situazione, è importante chiedere un aiuto professionale, non solo per superare il problema ma anche per aiutarci a comprenderlo, imparando a sviluppare, potenziare e sfruttare al meglio le nostre risorse personali nel lungo periodo.

Non bisogna vergognarsi a chiedere aiuto, anzi: è il primo passo che possiamo compiere per il nostro benessere mentale.

Un’intera équipe a disposizione del tuo benessere emotivo

Il nuovo sito PsicoCare ha l’obiettivo di rendere questo “incontro” più semplice e intuitivo, mettendo a disposizione dei pazienti tutte le risorse necessarie per prendersi cura del proprio benessere emotivo: articoli, news, interviste, eventi gratuiti e campagne di prevenzione, a cura dei nostri professionisti per garantire una risposta qualificata ad ogni preoccupazione, paura o sentimento negativo legati alla sfera emotiva.

Un questionario ti aiuterà a comprendere meglio i tuoi bisogni, per offrirti un modo più semplice di iniziare il tuo percorso verso il benessere emotivo.

In cosa consiste il questionario Humanitas PsicoCare?

“Il primo incontro con un esperto di salute emotiva è un momento cruciale per le persone che con coraggio accettano di mettersi in gioco” – spiega il dott. Michele Cucchi, direttore Aree Mediche di Humanitas Medical Care.

“Comprendere a fondo il disagio e sentirsi compresi come persone non è affatto facile. Il rischio è di aver compiuto un grande sforzo emotivo, vincendo lo stigma e le paure legate a queste forme di disagio, e vederlo vanificato perché non ci si sente capiti e supportati nel percorso. La letteratura scientifica dimostra che prendersi cura del collegamento tra le aspettative di ogni persona e le competenze e caratteristiche del professionista è fondamentale.

Per questo abbiamo creato un questionario che rende più facile questa combinazione, e grazie alle diverse competenze del team siamo in grado di offrire un approccio su misura fin dal primo contatto”.

Come funziona il questionario Humanitas PsicoCare?

Il questionario, grazie ad alcune semplici domande, permette agli specialisti di individuare il tipo di paziente e quali sono i problemi che lo affliggono.

Condividendo le tue esigenze, gli obiettivi e le preferenze personali, ci aiuterai a capire meglio chi sei e cosa cerchi. Confrontando le tue risposte con le competenze dei nostri professionisti saremo in grado di offrirti le figure più adatte ai tuoi bisogni, tra gli psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, neurologi e neuropsicologi che compongono la nostra squadra.

Successivamente, attraverso un primo colloquio, potrai approfondire ed esplorare meglio le tue necessità e i tuoi bisogni, costruendo insieme ai nostri medici e professionisti un percorso che sia davvero efficace e adatto a te. Basta un clic.

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La dipendenza dai Social è una condizione caratterizzata da un’eccessiva preoccupazione riguardo a ciò che accade all’interno dei social media che spinge l’individuo a connettersi in modo incontrollabile più volte al giorno, a qualsiasi ora.

Sebbene non rientri ancora nei disturbi mentali del manuale psichiatrico redatto dall’American Psychiatric Association (DSM 5) – che fa riferimento più in generale alla dipendenza da internet, la Internet Addiction Disorder (IAD) – questo non significa che il fenomeno non esista ma che semplicemente è ancora in fase di studio.

La dipendenza dai Social, infatti, è una questione reale con una sintomatologia spesso simile a quella dei pazienti che presentano altri tipi di dipendenza. 

Ce ne parla il dott. Pietro Ramella, Psicologo e Psicoterapeuta presso gli ambulatori Humanitas Medical Care Domodossola e De Angeli a Milano.

Come faccio a capire se sono dipendente dai Social? 

Per riconoscere la dipendenza dai Social è possibile utilizzare gli stessi criteri che vengono normalmente impiegati per diagnosticare tutte le dipendenze, ovvero:

1. scadimento funzionale: la persona sacrifica il tempo e lo spazio normalmente dedicati al lavoro, allo studio, alle relazioni, all’alimentazione o all’igiene personale, per dedicarsi unicamente ai Social.

2. craving: se non ha telefono, il pc o il tablet a portata di mano per poter accedere ai social, la persona si sente a disagio e avverte il bisogno costante di ricercare un qualsiasi strumento che gli permetta di connettersi ad internet. Un processo molto simile a quello che avviene per altre dipendenze come quelle riguardanti alcol, sostanze, cibo e gioco d’azzardo.

3. tolleranza: la voglia di usare i Social e quindi il concetto di craving può coprire inizialmente pochi istanti al giorno, ma con il passare del tempo, la persona avrà sempre più bisogno di utilizzare queste app per soddisfare questo desiderio irrefrenabile, trovandosi così, con il passare del tempo, a stare davanti a pc, tablet e smartphone anche per molte ore al giorno, talvolta anche la notte, per poter ottenere la stessa soddisfazione che prima veniva ottenuta in pochi minuti di social: la persona sente il bisogno di passare sempre più tempo sui Social, così come avviene nella maggior parte delle dipendenze. 

Chi sta sempre sui Social?

Da strumento di aggregazione, i Social sono diventati sempre più una vetrina di personaggi e modelli da seguire ed emulare, al punto da diventare veri e propri strumenti di marketing e pubblicità, più che ‘luoghi’ di socializzazione. Si potrebbe ipotizzare, così come per le altre dipendenze, che il fattore genetico, insieme al contesto di vita del soggetto, rappresenti un fattore di rischio: alcune persone possono essere infatti più ‘vulnerabili’ a qualcosa rispetto ad altre, e questa vulnerabilità potrebbe interagire con il contesto in cui vivono (scuola, casa, lavoro, hobby, relazioni interpersonali in generale e tutte le esperienze sociali legate a questi contesti).

Perché le persone stanno sui Social?

Così come avviene per altre dipendenze, come il gioco d’azzardo, gli individui pubblicano contenuti sui Social con l’aspettativa di avere un like (quindi una conferma) il prima possibile e nel maggior numero possibile.

Tuttavia, alcune persone dipendente dai Social potrebbero avere paura di perdersi qualcosa e di sentirsi quindi estromesse (così come avviene nella FOMO – fear of missing out, caratterizzata dal timore di essere ‘tagliati fuori)’ e per questo sentono la necessità di essere costantemente aggiornati su tutto ciò che accade per poterne parlare con i pari durante i momenti di aggregazione.

Con Social siamo diventati sempre più incapaci di annoiarci, poiché bombardati da uno stimolo sempre presente al quale possiamo accedere in qualsiasi momento e di cui non possiamo più fare a meno. Stimoli tuttavia esterni, che non abbiamo creato noi ma a cui ci affidiamo costantemente.

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Ci sono momenti e situazioni nel corso della vita che possono metterci a dura prova. Un trauma, una brutta notizia, una relazione complicata, un problema economico o, più semplicemente, una scelta difficile da compiere. Le circostanze sono tantissime. Più o meno gravi, poco importa. È il modo in cui le affrontiamo che deve indurci a riflettere sulla necessità di chiedere aiuto. Quando le nostre risorse individuali non sono sufficienti a risolvere una determinata circostanza, la figura dello psicologo può aiutarci non solo a superare il momento ma anche a capire come sviluppare al meglio le nostre risorse personali nel tempo. Quali possono essere queste situazioni e perché il sostegno di un professionista potrebbe aiutarci? Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Paola Mosini, psicologa presso il centro Psico Medical Care di Humanitas.

Quando è il caso di andare dallo psicologo?

La figura dello psicologo può essere utile ad affrontare molte situazioni, specie quando i problemi ci impediscono di vivere serenamente o di sentirci bene. Non è sempre facile riconoscere il momento in cui chiedere aiuto. Alcuni dei motivi che potrebbero spingerci a farlo possono essere:

1. Lutto

Il fatto che la morte sia inevitabile non la rende più facile da affrontare. Ognuno può gestire la perdita di una persona cara (un genitore, un familiare, un amico o persino un animale domestico) in modo diverso, apertamente o privatamente, ma non bisogna evitare la realtà della perdita perché a lungo termine può portare a problemi più lunghi e persistenti

Uno psicologo può aiutarti a trovare i modi appropriati per affrontare la morte di qualcuno vicino a te.

2. Stress e ansia

Può capitare a tutti di vivere momenti o situazioni stressanti, come un colloquio di lavoro o un problema relazionale, che ci fanno sentire ansiosi e vulnerabili. L’ansia è una normale reazione fisiologica allo stress, ma se diventa invalidante, impedendoci di vivere serenamente la nostra quotidianità, può portare all’isolamento sociale o alla depressione.

Uno psicologo può aiutarti a gestire meglio le tue reazioni emotive, trovando strategie efficaci e mirate per ritrovare il benessere e una buona qualità di vita.

 3. Fobie

Tachicardia, disturbi gastrici, sudorazione. La fobia, ovvero la paura estrema, irrazionale e sproporzionata per qualcosa che non rappresenta una reale minaccia, può presentarsi in molti modi – le persone che soffrono di fobie sono consapevoli dell’irrazionalità della propria paura, ma non riescono a non provare certe sensazioni – che predispongono il soggetto ad attuare una risposta di ‘fuga’, a scappare, ma di fatto si tratta di una strategia patologica che tende solo a rinforzare il meccanismo patologico dell’ansia.

Uno psicologo esperto, dopo un’accurata valutazione, può aiutarti – impostando e condividendo con il paziente il progetto terapeutico – a iniziare a superare eventuali fobie in modo da poter vivere privo da condizionamenti.

4. Depressione

A differenza della tristezza, un’emozione che tutti sperimentiamo, annessa a sentimenti di perdita ma utile allo sviluppo del processo di rielaborazione (ci obbliga a rallentare e a prenderci del tempo per accettare la situazione che si sta affrontando), la depressione è una condizione clinica, che non deve essere mai sottovalutata (è stata dichiarata dall’OMS la prima causa di disabilità nel Mondo).

Umore deflesso, perdita di interessi, insonnia e ritiro sociale sono tutti sintomi con gravi risvolti in termini di salute e di compromissione della qualità della vita. 

Uno psicologo può aiutare la persona a capire la gravità della situazione emotiva che sta vivendo, formulare una diagnosi adeguata e indirizzare il paziente verso il percorso terapeutico ottimale.

5. Problemi relazionali

A volte, per affrontare problemi e difficoltà nella gestione del rapporto di coppia, nell’ambito della genitorialità o della vita lavorativa, è necessario chiedere un aiuto esterno, affidandosi ad una persona “neutrale”, che possa guidare gli individui nella risoluzione dei problemi relazionali, e se necessario approfondire i meccanismi patologici legati a temperamento e al carattere che possono essere spesso origine di problemi ricorsivi.

6. Abitudini e dipendenze malsane

Alcune persone adottano comportamenti malsani, come abbuffarsi di cibo (per consolarsi), bere alcol (come potente tranquillante), fumare e drogarsi, per “gestire” vissuti negativi associati a momenti di stress, ma è estremamente pericoloso usare queste sostanze per “automedicarsi”, perché, oltre a determinare vari problemi di salute, questi comportamenti possono sfociare in vere e proprie dipendenze.

È fondamentale rivolgersi a uno psicoterapeuta competente quando ci si rende conto che si stanno strutturando comportamenti patologici.

Che aiuto può offrirmi uno psicologo?

Molte persone impiegano diverso tempo prima di decidere di affidarsi ad uno specialista perché spesso sono convinte di farcela da sole o che basta l’aiuto di una persona cara, con il rischio che nel frattempo le situazioni e i problemi si complicano. Non esitare a contattare uno specialista, valuterete insieme l’utilità (o meno) di un percorso psicologico.

In ambito psicologico si sono sviluppati nel corso degli anni diversi approcci e per le persone non è sempre scontato fare una scelta consapevole. Un primo colloquio può essere anche lo spazio per chiarire l’approccio psicoterapico più adatto alla persona e alla modalità di intervento.

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Negli ultimi anni, i casi di disturbi alimentari sono aumentati in modo esponenziale. Durante la fase dell’adolescenza, la bulimia nervosa, un disturbo che consiste nell’assumere grandi quantità di cibo per poi liberarsene tramite vomito indotto o lassativi, rappresenta una delle preoccupazioni più grandi, non solo perché è la più difficile da riconoscere (la maggior parte delle persone è di peso normale o anche leggermente sovrappeso), ma anche perché in Italia, la fascia d’esordio, si assesta tra i 15 e i 19 anni, rappresentando un problema di primaria importanza, poiché le conseguenze organiche della malattia possono portare a danni permanenti ai tessuti che non hanno ancora terminato lo sviluppo.

Ne parliamo con il dottor Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta presso l’ambulatorio Humanitas Medical Care Domodossola a Milano e Humanitas Medical Care Monza e specialista del centro Psico Medical Care.

Chi colpisce maggiormente la bulimia?

La bulimia tende a colpire maggiormente la popolazione femminile, in quanto più esposte a ideali di “magrezza” associati sempre più spesso a quelli di bellezza (a differenza dei maschi dove la “bellezza” è collegata maggiormente alla tonicità muscolare) ma non solo. Anche l’esposizione ai media, l’interiorizzazione di un modello di corpo ideale o la pressione sociale, rappresentano fattori di rischio per l’insorgenza e l’aggravamento di un disturbo alimentare, così come lo sviluppo puberale, il momento nel quale il cambiamento delle proporzioni corporee femminili è più netto. 

Non vanno quindi tralasciati i fattori genetici, ormonali e neurobiologici. Uno di questi potrebbe essere il ruolo degli ormoni sessuali nella regolazione della serotonina (un neurotrasmettitore cerebrale che svolge un ruolo chiave nella regolazione dell’ansia, del tono dell’umore, dell’impulsività e delle sensazioni di fame e sazietà). Alcuni studi hanno rilevato che nelle femmine (ma anche negli animali di sesso femminile) la reazione allo stress produce più frequentemente un’alterazione del comportamento alimentare. Per questo, la bulimia può essere spiegata tramite un modello bio-psico-sociale che prende in esame la persona nella sua interezza nelle sue componenti biologiche, psicologiche e sociali.

Quali possono essere i fattori di rischio della bulimia?

Non esistono fattori di rischio collegati direttamente allo sviluppo della malattia, ma possono esserci delle concause che possono contribuire al suo sviluppo, come:

  • familiarità con disturbi del comportamento alimentare o depressione
  • abuso di sostanze
  • eventi traumatici o malattie croniche
  • insoddisfazione della propria immagine corporea, unita a scarsa autostima e perfezionismo
  • comportamenti dietetici persistenti
  • sovrappeso/obesità durante l’infanzia
  • episodi di bullismo per la propria forma fisica
  • social network.

Sebbene i social network non possano essere identificati come unica causa dei disturbi alimentari, vi sono alcune problematiche strettamente connesse, come il body shaming, che potrebbero incidere negativamente sull’autostima della persona e sulla percezione che ha del proprio corpo. Inoltre, molto spesso, sui social, la bellezza è improntata su un’estetica lontana dalla salute, fattore che potrebbe contribuire – seppur inconsciamente – a normalizzare condotte alimentari disadattive. Anche l’utilizzo delle videoconferenze o della DAD, sebbene abbia reso possibile lo svolgimento di molte attività per lavoratori e studenti, può aver contribuito ad aumentare le preoccupazioni per il proprio aspetto (è come se ci “guardassimo allo specchio” ripetutamente mentre parliamo con altre persone). Inoltre, durante il lockdown si è assistito a un incremento del download di app per la salute e il fitness, insieme ad una maggior preoccupazione per la salute e la forma fisica.

Quali sono i campanelli d’allarme della bulimia?

Come dicevamo, i segni di bulimia non sono sempre immediatamente riconoscibili. Tuttavia, alcuni di questi potrebbero essere:

  • Aver paura di ingrassare
  • Essere preoccupati per il peso e la forma del corpo
  • Non piacersi e vergognarsi ad uscire in pubblico
  • Non riuscire a controllare il proprio comportamento a tavola
  • Praticare attività fisica eccessiva
  • Costringersi a vomitare o utilizzare lassativi, diuretici o clisteri per eliminare il cibo ingerito andando spesso in bagno durante o dopo i pasti
  • Limitare le calorie o evitare certi cibi.

Cosa fare in caso di sospetta bulimia?

Generalmente, chi soffre di bulimia tende a nascondersi perché prova vergogna, abbuffandosi in solitudine per molto tempo, senza che la famiglia ne sia a conoscenza, fino a quando la persona non confessa la propria difficoltà con il cibo, perché sente che le strategie di controllo che ha provato a mettere in atto non funzionano.

In questi casi, è opportuno parlare con la persona in privato, cercando di essere gentili e delicati, incoraggiandola a cercare aiuto da un professionista esperto di tali problematiche e condividendo con lei la nostra preoccupazione. Uno psicoterapeuta potrà darle una spiegazione del meccanismo che la sta intrappolando e, successivamente, offrirle strategie per superarlo.

Se siamo i genitori di una figlia che soffre di bulimia nervosa, spesso cerchiamo i perché, iniziando a domandarci dove abbiamo sbagliato. Tuttavia, colpevolizzarsi non serve a niente, anzi spesso è controproducente. Così come non serve avere un atteggiamento di critica o un’elevata aggressività, perché sono atteggiamenti possono portare a sviluppare un clima familiare disfunzionale che può aggravare o mantenere il disturbo alimentare.

Allo stesso modo è importante non colpevolizzare la persona. La bulimia nervosa, come gli altri disturbi dell’alimentazione, non sono affrontabili con la semplice forza di volontà. Serve prima di tutto conoscenza di quelli che sono i meccanismi che mantengono la problematica. Solo a partire da questa consapevolezza e con gli strumenti adeguati, è possibile affrontare la malattia.

Non tenere cibo in casa o addirittura tenere chiusa a chiave la dispensa, sono tutte strategie inutili che anzi incentivano la persona che soffre di bulimia a ricercare ancora più in segreto del cibo.

Che tipo di lavoro può fare lo psicologo in caso di bulimia?

Il trattamento per i disturbi del comportamento alimentare, come la bulimia, è un trattamento multidisciplinare che coinvolge diverse figure (come medico psichiatra, medico internista, biologo nutrizionista, psicoterapeuta), in grado di cogliere la complessità del sintomo.

Generalmente, il lavoro dello psicologo inizia focalizzandosi sulla gestione della fase “acuta” del disturbo dell’alimentazione (come ad esempio lavorare sulla diminuzione degli episodi di digiuno, di vomito e/o di abuso lassativi e della frequenza delle crisi bulimiche); successivamente, la terapia si pone l’obiettivo di affrontare tutte le problematiche che presentano una connessione con il disturbo dell’alimentazione e soprattutto le difficoltà familiari e relazionali (come la mancanza di assertività), lo sviluppo di una fragile autostima e le possibili cause che hanno favorito il disturbo dell’alimentazione.

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