Un trauma, una brutta notizia, una relazione complicata, un problema economico o, più semplicemente, una scelta difficile: ci sono momenti e situazioni che durante il corso della vita possono mettere a dura prova. È il modo in cui si affrontano che deve portare a riflettere sulla necessità di chiedere un aiuto: la figura dello psicologo può essere un supporto non solo per affrontare un determinato momento, ma anche per capire come sviluppare al meglio e nel tempo le risorse personali di ciascuno.

Quali possono essere queste situazioni difficili e perché l’aiuto di uno specialista? Approfondiamo il tema con la dott.ssa Cristina Di Nardo, psicoterapeuta e neuropsicologa presso Humanitas Medical Care Principe Oddone a Torino e specialista di PsicoCare.

La figura dello psicologo può essere utile per affrontare molte situazioni, soprattutto quando ci impediscono di vivere serenamente o di sentirci bene. Non sempre è facile riconoscere il momento in cui chiedere aiuto, ma alcuni dei motivi che potrebbero spingerci a farlo possono essere:

1. Lutto

Ciascuno può gestire la perdita di una persona cara (un genitore, un familiare, un amico o persino un animale domestico) in modo diverso, apertamente o privatamente, ma non bisogna evitare la realtà della perdita perché a lungo termine può portare a problemi anche importanti e persistenti

Uno psicologo può aiutare a trovare i modi appropriati per affrontare la perdita.

2. Stress e ansia

Può capitare a tutti di vivere momenti o situazioni stressanti, come un trasferimento o un problema relazionale, che fanno sentire ansiosi e vulnerabili. L’ansia è una normale reazione fisiologica allo stress, se però diventa eccessiva e impedisce di vivere serenamente la nostra quotidianità e diventa invalidante può portare all’isolamento sociale o alla depressione.

Uno psicologopuò aiutare a gestire meglio le reazioni emotive, trovando strategie efficaci e mirate per ritrovare il benessere e una buona qualità di vita e, quando riscontri un disturbo d’ansia vero e proprio, indirizzare il paziente verso un intervento integrato che coinvolga il medico specialista in psichiatria.

 3. Fobie

Tachicardia, disturbi gastrici, sudorazione. La fobia, cioè la paura estrema, irrazionale e sproporzionata per qualcosa che non rappresenta una reale minaccia, può presentarsi in molti modi.  Le persone che soffrono di fobie sono consapevoli dell’irrazionalità della propria paura, ma non riescono a non provare certe sensazioni che predispongono il soggetto ad attuare una risposta di ‘fuga’, ma di fatto si tratta di una strategia patologica che tende solo a rinforzare il meccanismo patologico dell’ansia.

Uno psicologo esperto, dopo un’accurata valutazione, può essere un valido aiuto – impostando e condividendo con il paziente il percorso terapeutico – a iniziare a superare eventuali fobie in modo da poter vivere privo da condizionamenti.

4. Depressione

A differenza della tristezza, la depressione è una condizione clinica che non deve essere mai sottovalutata (è stata dichiarata dall’OMS la prima causa di disabilità nel Mondo). Umore deflesso, perdita di interessi, insonnia ed esclusione sociale sono tutti sintomi con importanti risvolti in termini di salute e di compromissione della qualità della vita. 

Uno psicologo può aiutare la persona a capire la gravità della situazione emotiva che sta vivendo, individuare una diagnosi adeguata e indirizzare il paziente verso il percorso terapeutico più adatto.

5. Problemi relazionali

Problemi e difficoltà nella gestione del rapporto di coppia, nell’ambito della genitorialità o della vita lavorativa, richiedono spesso un aiuto esterno, come quello di uno psicologo: affidarsi a una persona “neutrale”, che possa accompagnare gli individui nella risoluzione dei problemi relazionali, può aiutare anche ad approfondire i meccanismi patologici legati a temperamento e al carattere che possono essere spesso origine di problemi ricorrenti.

6. Abitudini malsane e dipendenze

Alcune persone adottano comportamenti malsani, come abbuffarsi di cibo (per consolarsi), bere alcol (come potente tranquillante), fumare e assumere sostanze psicotiche, utilizzate per “gestire” vissuti negativi associati a momenti di stress. Queste abitudini, oltre a determinare diversi problemi di salute, possono sfociare in vere e proprie dipendenze.

È fondamentale dunque rivolgersi a uno psicoterapeuta competente quando ci si rende conto che si stanno strutturando comportamenti patologici.

Molte persone impiegano diverso tempo prima di decidere di affidarsi a uno psicologo perché convinte di riuscire a superare le difficoltà da sole o che basti l’aiuto di una persona cara, con il rischio che nel frattempo le situazioni e i problemi si complichino.

Contattando uno psicologo è possibile valutare insieme l’utilità (o meno) di un percorso psicologico, che si può differenziare per approccio psicoterapico, da valutare nel primo colloquio per individuare quello più adatto alla persona e le modalità di intervento.

Per permettere di avere una visione completa e scegliere l’intervento terapeutico più appropriato sarà spesso essenziale che lo psicologo collabori con il medico psichiatra per organizzare un intervento integrato e dirimere i problemi diagnostici non sempre semplici da chiarire.

Per maggiori info chiama il numero 011 0416060

Humanitas Medical Care Principe Oddone – corso Principe Oddone, 30 (Torino)

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Conflitti irrisolti, tensioni per la gestione delle attività di tutti i giorni e domestiche, stress che derivano da fattori esterni come può essere il lavoro o ancora mancanza di momenti di condivisione e comunicazione. Molto spesso le difficoltà quotidiane che proviamo si riflettono sulla coppia portando ad aumentare i livelli di stress e di ansia che intaccano il rapporto a due. Come si riconoscono questi momenti di difficoltà e come si possono affrontare?

Risponde la dott.ssa Simona Sartori, psicoterapeuta e neuropsicologa presso Humanitas Medical Care Principe Oddone a Torino e specialista del centro PsicoCare.

Fattori di stress in una coppia, quali sono?

Vivere momenti di stress durante l’arco della propria vita è normale. Spesso si tende ad imputare lo stress di coppia alle abitudini che si sviluppano nella condivisione di un unico spazio domestico, alla propria situazione economica, a stili di vita non sempre raggiungibili o ancora bisogni non ascoltati. Molte coppie sono talmente abituate a vivere momenti stressanti che non ne riconoscono più i segnali: vivono sotto pressione da così tanto tempo che si sono abituati, senza più distinguere i momenti liberi da stress da quelli caratterizzati da una tensione relazionale ed emotiva, ed è questo il problema più grande: se non c’è la capacità da parte della coppia di riconoscere il problema, non è possibile riuscire a superarlo.

Che impatto può avere lo stress sulla coppia?

Il primo passo per superare un momento di stress è riconoscerlo e di conseguenza parlarne apertamente con il proprio partner. Se infatti lo stress diventa cronico può arrivare a stravolgere completamente la vita di una coppia, portando ad una incomunicabilità tra i partner, raffreddamento emotivo, isolamento e chiusura in sé stessi, oltre a problematiche di intimità sessuale.

Come riconoscere lo stress nella coppia?

Ci sono determinati segnali che permettono di riconoscere lo stress all’interno della coppia. Questi comprendono:

–    Sbalzi di umore repentini: la coppia passa da momenti di pseudo serenità a momenti di tensione e rabbia espressa con parole, gesti e fatti;

–   Irritabilità(di uno od entrambi): richieste specifiche o comunicazioni portano il partner a reagire in modo esagerato;

–   Agitazione (di uno o di entrambi): può portare alla necessità di ricorrere a comportamenti dannosi per calmarsi ed evitare di non pensare ai problemi di coppia (come alcol, farmaci, cibo e sostanze stupefacenti);

–   Tendenza a piangere spesso: la labilità emotiva può succedere anche in assenza di un motivo consapevole e chiaro.

Come risolvere lo stress di coppia?

Si possono adottare una serie di comportamenti che attivino una risposta che sia funzionale contro lo stress. Tra questi:

–   Ascoltare il partner con empatia, chiedergli cosa sta succedendo e standogli vicino;

–   Decidere insieme quali attività e comportamenti adottare quando si è sotto pressione;

–   Proporre una strategia per affrontare lo stress dopo aver ascoltato il partner, passando all’ascolto emotivo e compassionevole prima di proporre soluzioni alternative;

–   Non dare solo soluzioni ma chiedere al partner cosa secondo lui/lei potrebbe migliorare la situazione per superare il momento di crisi;

–    Affrontare con il partner un problema alla volta, offrendosi delle pause piacevoli per entrambi; 

–   Fare attività fisica insieme o meno per scaricarsi dallo stress eccessivo della quotidianità;

–   Non rimandare e riconoscere cosa è realmente utile;

–   Chiedersi se si sta facendo tutto il possibile per aiutare e ascoltare il partner, al fine di stare meglio in coppia;

–   Rivolgersi ad uno specialista (come uno psicoterapeuta di coppia o sessuologo se ci fossero anche problematiche di intimità) sia nelle situazioni più critiche che in quelle divenute ormai croniche.

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In Humanitas Medical Care Principe Oddone arriva PsicoCare: un team composto da psichiatri, psicologi e logopedisti perchiunque senta la necessità di prendersi cura del proprio benessere psicologico.

Gestire le emozioni, prendersi cura del proprio benessere psicologico: sono aspetti da non trascurare, non solamente in presenza di disturbi come ansia, depressione, fobie o attacchi di panico, ma anche quando andiamo incontro a problematiche quotidiane e abbiamo bisogno di un supporto in periodi di incertezze, confusione o sovraccarico di pensieri.

Dal singolo alla coppia sino al supporto alla genitorialità: PsicoCare offre anche team esperti in patologie specifiche per garantire il trattamento migliore con i più specifici protocolli di cura, come – ad esempio – i DSA – Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

Un percorso di cura personalizzato

Psico Care è stato progettato con un approccio scientifico e rigoroso che parte dalla medicina evidence-based per superarla andando incontro alle esigenze del singolo individuo. Si tratta di un percorso di cura sempre più personalizzato, capace di offrire un servizio completo, non come singolo terapeuta ma come team multidisciplinare di professionisti.

Psichiatra, psicologo e psicoterapeuta, neuropsicologo, logopedista: competenze diverse si uniscono per raggiungere l’obiettivo più importante, il benessere mentale completo a partire dalla specifica esigenza della persona per trovare la strada corretta da seguire.

 “Il disagio psico-emozionale è difficile da capire, perché non esiste radiografia o esame del sangue che ci dica qual è la causa precisa di una determinata sofferenza. Ogni persona è unica: nella sua reattività allo stress, nella sua genetica, nel suo corpo, nel modo in cui vive e esprime il suo disagio e in tutta una serie di caratteristiche che spesso passano sotto traccia, ma che invece vengono valutate da team multidisciplinari esperti e usate proprio per orientare la scelta di cura.” spiega il professor Giampaolo Perna, Professore Ordinario di Psichiatria e Direttore Scientifico dello PsicoCare di Humanitas.

Le scelte del paziente al centro del percorso terapeutico

PsicoCare dà la possibilità al paziente di partecipare attivamente alla scelta del tipo di percorso e terapia, considerando le sue preferenze, i suoi dubbi e le sue aspettative e trovando ascolto e comprensione. Attraverso il “patto di cura”, infatti, terapeuta e paziente inquadrano insieme gli obiettivi del percorso e le modalità di realizzazione, che vengono definite alla luce di numerose variabili e caratteristiche personali.

“L’obiettivo di PsicoCare è offrire una risposta clinica soddisfacente a ogni singola persona e, per farlo, occorre proiettarsi oltre il concetto standard di diagnosi, integrando per esempio terapie farmacologiche, terapeutiche e altri interventi inerenti lo stile di vita, sulla base delle informazioni individuali e della storia clinica del paziente”, spiega il dottor Michele Cucchi, direttore delle Aree Mediche Humanitas. 

Non bisogna provare vergogna: se si avverte l’esigenza di chiedere un aiuto professionale. Il disagio psichico, infatti, va gestito e trattato da specialisti che, anche tramite interventi brevi, possono aiutare il soggetto a recuperare l’uso funzionale dell’emozione ed evitare che le difficoltà generate da determinate sensazioni lo travolgano.

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In genere arrivano in maniera repentina, senza neanche lasciarci il tempo di rendercene conto. Successivamente, tendono poi a scatenenarsi proprio nelle situazioni in cui temiamo che arrivino, come sui mezzi pubblici, nei luoghi affollati, o quando siamo in casa da soli. 

Gli attacchi di panico sono episodi improvvisi caratterizzati dalla comparsa di ansia acuta, paura e disagio, accompagnati da sintomi somatici, come senso di soffocamento, fatica a respirare, palpitazioni, senso di svenimento, e/o cognitivi, come paura di morire o di perdere il controllo. 

Possono essere più frequenti in periodi di forte stress e stanchezza ma anche capitare durante il sonno, causando un risveglio improvviso, e spesso arrivano a condizionare e compromettere il nostro stile di vita. 

In media durano dai 2 ai 10-15 minuti anche se la percezione della persona che li prova è che siano decisamente più lunghi. 

Quando diventano frequenti nel tempo e disturbanti si parla di Disturbo di panico. In questi casi sono disponibili diversi trattamenti farmacologici che consentono di bloccare gli attacchi e di recuperare la propria serenità di vita. Vediamoli insieme alla dott.ssa Daniela Caldirola, psichiatra di PsicoCare.

Quando viene indicata la terapia farmacologica per il Disturbo di panico?

La terapia farmacologica è indicata quando gli attacchi di panico si ripetono e la loro ricorrenza causa una compromissione della qualità di vita. Spesso il paziente ha il timore che l’attacco possa arrivare da un momento all’altro (ansia anticipatoria) e di poter riportare delle conseguenze fisiche e/o emotive dagli stessi. 

Frequentemente la persona con Disturbo di panico modifica anche il proprio comportamento a causa degli attacchi, ad esempio tende a evitare situazioni o contesti in cui teme che l’attacco di panico possa manifestarsi (evitamento fobico). 

Infine, la terapia farmacologica è indicata anche nelle persone che, pur non avendo più attacchi di panico conclamati, provano sintomi di panico “sottosoglia” nella vita quotidiana, come mancanza di fiato, senso di instabilità, battito cardiaco accelerato, che possono presentarsi in maniera anche continuativa nella giornata. Il persistere  di questi sintomi può contribuire al mantenimento dell’ansia anticipatoria e/o dell’evitamento.           

Chi può sottoporsi al trattamento farmacologico?

Chiunque ne abbia bisogno. Non ci sono criteri di esclusione specifici poiché abbiamo a disposizione una gamma di farmaci tra cui poter scegliere quello più adatto ad ogni persona. Nell’ottica della terapia personalizzata, viene scelto il farmaco più idoneo tenendo conto non solo del tipo di sintomi ma anche delle caratteristiche individuali, quali l’età, il peso, eventuali altre malattie mediche e/o altri trattamenti medici in corso, la fase di vita (ad esempio per le donne, età fertile o menopausa), lo stile e le abitudini di vita, che vengono valutate con un’attenta raccolta di informazioni durante il colloquio clinico con la persona.        

Quali sono i trattamenti farmacologici disponibili per il Disturbo da attacchi di panico?

Sono disponibili diversi trattamenti farmacologici per il Disturbo di panico. I farmaci di prima scelta appartengono alla categoria degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRIs) e degli inibitori della ricaptazione della serotonina e noradrenalina (SNRIs) che presentano elevate efficacia e tollerabilità. In situazioni specifiche, possono anche essere usati farmaci della categoria degli antidepressivi triciclici e benzodiazepine. 

Gli antidepressivi triciclici sono oggi meno usati nella pratica clinica rispetto ai farmaci di prima scelta poiché presentano un profilo di tollerabilità meno favorevole che include effetti collaterali quali stitichezza, secchezza delle fauci e possibili effetti negativi sulla funzionalità cardiaca soprattutto in persone affette da malattie cardiache. 

Quando necessario, le benzodiazepine possono essere utilizzate in associazione a SSRIs o SNRIs nella fase iniziale della terapia come supporto aggiuntivo, per poi essere gradualmente sospese una volta raggiunto l’effetto terapeutico completo degli SSRIs/SNRIs     

Quali sono i benefici della terapia farmacologica per il Disturbo di panico?

Il principale beneficio della terapia farmacologica antipanico è quello di ottenere il blocco completo sia degli attacchi di panico conclamati sia dei sintomi di panico “sottosoglia” e di favorire quindi una progressiva diminuzione dell’ansia anticipatoria e dell’evitamento fobico. L’effetto terapeutico di blocco dei sintomi di panico si ottiene dopo alcune settimane di terapia farmacologica. L’effetto benefico si mantiene stabile nel tempo durante la terapia che deve essere assunta per diversi mesi allo scopo di garantire la persistenza del benessere anche alla sospensione della stessa.        

Le terapie di prima scelta oggi a disposizione possono avere degli effetti collaterali, quali ad esempio la tendenza ad incrementare l’appetito e il peso, ma in generale essi sono limitati e, se si presentano, vengono discussi con la persona durante i colloqui clinici e affrontati insieme con diverse strategie. 

Il beneficio finale della terapia personalizzata antipanico è quello del raggiungimento del completo benessere psicofisico.   

Come funziona la terapia farmacologica per il Disturbo di panico?

I farmaci antipanico agiscono modulando alcuni sistemi di neurotrasmettitori, soprattutto il sistema della serotonina, che a loro volta regolano alcune aree cerebrali coinvolte nella comparsa degli attacchi di panico. La modulazione dei neurotrasmettitori consente di bloccare il sistema di “allarme interno” che fa scatenare l’attacco di panico. Inoltre molti farmaci antipanico migliorano e alleviano direttamente alcune manifestazioni fisiche del panico, come la mancanza di fiato o il senso di sbandamento, grazie ad un loro effetto positivo sul funzionamento di diversi sistemi corporei.                

La terapia farmacologica è sufficiente a trattare il Disturbo di panico?I trattamenti farmacologici a disposizione hanno un’elevata efficacia sul blocco degli attacchi di panico spontanei. Se però la persona continua a presentare comportamenti di evitamento fobico o altre preoccupazioni correlate al panico che interferiscono con la qualità di vita, si può intraprendere un percorso psicologico di tipo cognitivo-comportamentale che aiuta a ripristinare la completa autonomia e benessere personale. Nel percorso cognitivo-comportamentale possono anche essere apprese tecniche molto utili che la persona può applicare nella vita di tutti i giorni per controllare meglio alcuni sintomi fisici del panico, come ad esempio tecniche respiratorie.     

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La vulvodinia è un disturbo da dolore sessuale che riguarda i genitali esterni femminili. Si tratta di una condizione molto diffusa al giorno d’oggi, si stima infatti che ne soffra circa 1 donna su 7. Tuttavia, la vulvodinia è una condizione sotto-diagnosticata: sono molte le donne che riferiscono di aver svolto molteplici visite senza ricevere una corretta diagnosi e di conseguenza senza aver ricevuto una cura adeguata.

Ne abbiamo parlato con gli specialisti di PsicoCare.

Che cos’è la vulvodinia?

Si tratta di una patologia caratterizzata da dolore, bruciore e fastidio a livello vulvare che può creare un forte disagio psicologico nelle donne, ecco perché oltre alla componente fisica è importante non trascurare la componente psicologica ed emotiva.

Perché la vulvodinia è difficile da diagnosticare?

Perché molti specialisti non sono correttamente informati su questo disturbo e quindi credono erroneamente che si tratti di un problema psicosomatico, non comprendendo la reale natura dei sintomi riferiti dalle pazienti. Oltre al dolore fisico quindi, le donne devono combattere contro una grande disinformazione che non permette loro di ricevere una diagnosi nei giusti tempi e che spesso le fa sentire non comprese, sole e talvolta “pazze”. Generalmente le donne si trovano infatti a consultare numerosi specialisti prima di giungere alla diagnosi e si stima che la vulvodinia venga diagnosticata con un ritardo di 5 anni in media. Non di rado accade che queste donne arrivino a farsi da sole una diagnosi di vulvodinia basandosi sulle informazioni reperite in rete o sui social, ricercando uno specialista che possa dargliene conferma.

Il momento della diagnosi rappresenta un sollievo, proprio perché queste donne combattono per anni per riuscire a trovare un professionista che riesca a fornirle un’adeguata comprensione del loro problema, che possa quindi dare un nome alla condizione che stanno vivendo e permetta loro di intraprendere la giusta terapia.

Che ripercussioni può avere la vulvodinia sul benessere individuale e sulla relazione di coppia?

La vulvodinia può generare nella donna ansia, tristezza, depressione, rabbia, senso di inadeguatezza, senso di solitudine, senso di colpa, evitamento dell’intimità, catastrofizzazione del dolore, vissuti emotivi quindi che impattano negativamente sulla quotidianità della donna e che ostacolano la guarigione.

La vulvodinia può inoltre impattare negativamente anche sulla coppia, perché dall’altra parte il partner potrebbe sentirsi impotente di fronte a questo problema, potrebbe non sapere come stare accanto alla propria compagna e sentirsi inadeguato, oppure provare rabbia o sensi di colpa, vissuti che quindi potrebbero ostacolare il benessere della coppia.

Come si effettua la diagnosi di vulvodinia?

Prima di tutto è importante avere un’adeguata comprensione del disturbo per poter intervenire correttamente, il medico deve quindi comprendere la storia del dolore della paziente per poter avere un quadro chiaro della sintomatologia e di come questa ha impattato sulla vita della donna.

Per fare diagnosi di vulvodinia il medico deve eseguire lo swab-test, un esame dove attraverso l’utilizzo di un cotton-fioc il medico esercita pressione in alcuni punti specifici della vulva per indagare la reazione della donna.

La vulvodinia può essere di due tipi:

–   Diffusa: il dolore riguarda tutta la vulva

–   Localizzata: il dolore riguarda una parte o un solo punto della vulva

In fase di diagnosi è inoltre importante indagare se si tratta di una vulvodinia spontanea, dove il dolore è presente ed è indipendente da qualsiasi altro fattore; provocata, dove il dolore è provocato da uno stimolo meccanico (ad esempio il tocco, la penetrazione o indumenti stretti); mista.

Come si cura la vulvodinia?

L’obiettivo è ridurre la sintomatologia della donna, portandola ad un livello di dolore che non risulta più essere invalidante.

Trattandosi di un disturbo da dolore sessuale che può ripercuotersi a livello psicologico è fondamentale un approccio multidisciplinare che preveda un team composto da una figura esperta nell’area medica ed una esperta nell’area psicologica. Questo perché, oltre a considerare la componente fisica, è molto importante non trascurare l’impatto psicologico ed emotivo che questa condizione può avere sulla qualità di vita della donna.

È essenziale precisare che, diversamente dal messaggio che alcuni professionisti passano alle pazienti, non si tratta di una “malattia mentale”, quindi il dolore non è nella loro testa ma è reale.

Tra le opzioni di cura ci possono essere anestetici locali o farmaci antidepressivi e antiepilettici, altre terapie utilizzate sono l’agopuntura e la TENS (stimolazione elettrica nervosa transcutanea).

Nei casi di disfunzioni del pavimento pelvico è utile una riabilitazione per intervenire sull’ipertono muscolare. Sono inoltre in fase di sperimentazione nuove tecniche strumentali come il laser, la radiofrequenza e l’elettroporazione.

Infine, l’affiancamento di un percorso psico-sessuologico da parte di psicologi-psicoterapeuti sessuologi è fondamentale per poter gestire i pensieri e le emozioni legati alla vulvodinia e per aiutare le donne a riappropriarsi della loro vita, tornando a sentirsi libere nella loro quotidianità, nella sessualità e nella relazione di coppia.

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Le vacanze sono il periodo più atteso dagli studenti ma il pensiero dei compiti spesso impedisce loro di godersi appieno le giornate di ozio. Riuscirò a farli tutti? Dovrò sacrificare il mio tempo libero per riuscire a consegnarli? Le preoccupazioni possono essere diverse, per questo è fondamentale trovare il giusto equilibrio tra riposo e apprendimento. Ce ne parla la dott.ssa Marcella Mauro, psicologa dell’apprendimento di PsicoCare.

Perché i compiti delle vacanze sono un peso per tanti studenti?

Quando finisce la scuola molti studenti possono sentirsi esausti mentalmente ed emotivamente, specie chi ha avuto difficoltà nell’apprendimento o è stato particolarmente sotto pressione.

Tanti ragazzi considerano i compiti delle vacanze come un’ingiustizia, ritenendo che non dovrebbero essere obbligati a lavorare quando tutti gli altri bambini possono godersi il tempo libero senza responsabilità scolastiche.

Questa demotivazione porta tante volte a dubitare anche dell’utilità di questi compiti, molti pensano che non servano all’apprendimento o che non siano comunque sufficienti a ricordare tutto durante le vacanze.

Se il periodo delle vacanze è breve, come in quelle natalizie, gli studenti hanno diritto al riposo e al tempo libero per dedicarsi al gioco e ad altre attività proprie della loro età. Tuttavia, nel caso del periodo estivo  non dovremmo sottovalutare l’importanza dei compiti.

A cosa servono i compiti delle vacanze?

In generale agli studenti deve essere concesso il diritto al gioco e al riposo , alle famiglie il diritto di “ritrovarsi” senza l’ossessione dei compiti.

Quando si verificano invece  lunghe interruzioni nel percorso educativo, gli studenti infatti  possono subire una regressione o una diminuzione del loro apprendimento (“learning loss”), poiché vengono a mancare sia un ambiente di strutturato che l’esposizione regolare ai contenuti scolastici. Questa perdita può riguardare varie aree (come matematica, lettura, scrittura, etc).

Per contrastare la learning loss è necessario incoraggiare una mentalità di apprendimento continuo, in modo da mitigare la perdita e mantenere gli studenti impegnati nel processo di acquisizione di conoscenze e competenze.

Questo non significa concentrarsi solo sui compiti ma approfittare delle vacanze per esplorare nuovi interessi e passioni, per ampliare la propria conoscenza -oltre a quanto richiesto dal programma scolastico – anche alle proprie passioni, come l’astrologia, gli animali, lo sport.

Inoltre, i compiti insegnano agli studenti l’autodisciplina e la gestione del tempo: imparano a pianificare, stabilire priorità e adottare strategie di studio efficaci. Abilità sono fondamentali per il successo accademico che possono essere applicate in molte altre sfere della vita.

Cosa possono fare i genitori per aiutare nei compiti delle vacanze?

Per tanti genitori i compiti con i propri figli rappresentano una sfida, una fonte di discussioni e stress.

In tanti, quando i figli non rispettano le proprie responsabilità, ne soffrono, provano sentimenti di rabbia e frustrazione, si sentono inutili, temono che il proprio figlio non sarà mai all’altezza di qualcosa, oppure, si sentono in colpa per non aver fatto un lavoro abbastanza buono come genitori.

In questi casi è fondamentale ricordare che non è il figlio a provocare queste emozioni ma che questi sentimenti già ci appartengono. È importante non lasciare che questi stati d’animo ci spingano a chiedere sempre di più per sentirci meglio. Una delle cose più difficili che i genitori devono fare è imparare a calmare le proprie preoccupazioni, anziché chiedere ai figli di farlo per loro. Questo è il primo passo per evitare lotte all’interno della famiglia.

Con la giusta organizzazione e un approccio positivo, i compiti delle vacanze possono diventare un’esperienza piacevole e produttiva.

Cosa fare se un bambino non fa i compiti delle vacanze?

I genitori si chiedono se sia il caso di punire i bambini (o i ragazzi) che non fanno i compiti o se, invece, sia meglio lasciare che le cose vadano come devono andare (se la vedranno che le insegnanti una volta tornati a scuola).

Non possiamo costringere un bambino a fare qualcosa che non ha voglia di fare, ma possiamo strutturare il suo ambiente in modo da aumentare la probabilità che riesca a studiare bene.

Ecco alcuni consigli su come gestire i compiti estivi con i bambini:

·  Sottoscriviamo un patto firmato: prima di iniziare, ci si può accordare e firmare (bambino e genitori) un patto che sancisce impegno, modalità e tempistiche di lavoro, con bonus e piccole ricompense se rispettato fino alla fine.

·  Pianifichiamo un programma: stabilire un orario fisso ogni giorno in cui i bambini si dedicheranno ai compiti, può essere utile ma non indispensabile. L’importante è farli nell’arco della giornata con quanto stabilito in termini di quantità e impegno. Si possono anche includere intervalli di studio e pause, per mantenere l’attenzione dei bambini e ridurre lo stress (per esempio eseguendo ogni 10 minuti di saltelli sul posto o un giro in giardino).

·  Fissiamo degli obiettivi raggiungibili: stabiliamo obiettivi realistici per i compiti estivi. Intervalliamo i compiti più pesanti con quelli più leggeri e celebriamo i successi quando vengono raggiunti. Questo aiuterà i bambini a rimanere motivati e a sentirsi soddisfatti dei progressi compiuti.

·  Creiamo un ambiente di studio adatto: assicuriamoci che i bambini abbiano un ambiente tranquillo e ben illuminato in cui possono concentrarsi, rimuovendo le distrazioni come la televisione o i giochi e fornendo loro tutti i materiali necessari (come penne, matite, quaderni, libri di testo, ecc). Dare comunque una merenda che amano, un abbraccio e assicurare una vicinanza può aiutare.

·  Forniamo supporto e assistenza: cerchiamo di essere un supporto, non un controllo. Evitiamo di essere troppo invadenti o di prendere il controllo dei compiti dei nostri figli, lasciamo che siano loro a svolgerli. In questo modo, li renderemo più autonomi e responsabili.

·  Incoraggiamoli: cerchiamo di mostrare interesse per ciò che stanno facendo ed essere pazienti durante il processo di apprendimento.

·  Poniamoci come modello di ruolo: se i bambini vedono che anche il genitore dedica tempo all’apprendimento e fa i suoi compiti o legge libri, saranno più inclini ad emulare il comportamento.

·  Promuoviamo l’apprendimento informale: oltre ai compiti assegnati dalla scuola, promuoviamo l’apprendimento informale durante le vacanze, portando i bambini in visite educative, come musei, zoo o parchi tematici, o incoraggiandoli a leggere libri di loro scelta.

·  Manteniamo una comunicazione aperta: chiediamo ai nostri figli come si sentono riguardo ai compiti e se hanno bisogno di aiuto. Ascoltiamo le loro preoccupazioni e cerchiamo di trovare delle soluzioni insieme. La comunicazione aperta e il dialogo sono fondamentali per evitare conflitti e risolvere eventuali problemi in modo costruttivo.    

Stabilire una routine, creare uno spazio adatto, essere un supporto e non un controllo, fornire incoraggiamento, trasformare i compiti in attività divertenti, promuovere l’equilibrio tra studio e divertimento e mantenere una comunicazione aperta sono tutte strategie utili che possiamo adottare per gestire i compiti delle vacanze dei nostri figli (abbracciare, dimostrare affetto, ridere insieme, sottolineare gli apprezzamenti invece di correggere, istruire, insegnare, urlare, lamentarvi o rimproverare continuamente). I compiti sono un’opportunità per l’apprendimento, ma anche per la crescita personale e il consolidamento dei legami familiari.

È nostro compito correggere e rimproverare ma è importante fare uno sforzo affinché ogni volta sia eseguito con interazioni positive. Il cervello umano ricorda molto di più gli episodi negativi che quelli positivi (la maggior parte dei bambini sarà felice di ascoltare e farsi guidare dalle persone positive), ricordandoci che ogni bambino è diverso e potrebbe richiedere approcci differenti per motivarsi.

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Il Natale si avvicina e le città si riempiono di luci e decorazioni. Per alcuni è il periodo più bello dell’anno ma per altri – una persona su due – è uno dei più tristi. Il motivo potrebbe essere il Christmas Blues, una vera e propria forma di depressione che tende ad aumentare in prossimità delle feste, compreso il Natale.

Ce ne parla il dott. Pietro Ramella, Psicologo e Psicoterapeuta di PsicoCare.

Perché si prova tristezza durante le festività?

Esistono tanti motivi che possono portare alcune persone ad essere più tristi durante le feste, soprattutto a Natale quando ci si sente quasi obbligati ad essere felici e la solitudine – specie per le persone sole, per chi non ha molti amici o ha perso recentemente un proprio caro, per gli anziani o le categorie più fragili che non possono stare in mezzo alla gente – tende a farsi sentire di più.

Il Natale poi è spesso tempo di bilanci emotivi su ciò che avremmo voluto e che abbiamo fatto. Inoltre, i festeggiamenti possono portare ad una serie di fattori di stress (come cucinare, pulire la casa, affrontare cene di famiglia, cercare i regali di Natale, pensare alle vacanze invernali), minor lavoro in ufficio e più tempo libero che non si sa sempre come utilizzare.

Come si manifesta la depressione natalizia?

I sentimenti possono manifestarsi in modo diverso da persona a persona; tuttavia, ce ne sono alcuni comuni, come l’abbassamento del tono dell’umore, che può presentarsi con:

·  tristezza/demoralizzazione/senso di vuoto (non giustificati da eventi quotidiani)

·  abbassamento del livello di motivazione/interesse/piacere a fare le cose 

·  cambiamenti nella qualità e durata del sonno e/o dell’appetito

·  ansia/stress

·  affaticamento e mancanza di energia/difficoltà di concentrazione non giustificati dalle attività svolte durante la giornata

·  senso di frustrazione/incremento dell’irritabilità

·  sensazione di solitudine

Come combattere la solitudine durante le feste?

Prima di pensare a “combattere” la solitudine è utile capire di che tipo di solitudine stiamo parlando, sfatando il “mito” che a Natale sia obbligatorio essere circondati da numerose persone che ci vogliono bene (potremmo sentirci soli anche in una stanza piena di gente così come potremmo sentirci in compagnia anche solo con un singolo amico) e di che cosa pensiamo di aver bisogno per stare meglio.

L’abbassamento dell’umore che può comparire durante le festività natalizie non sempre è associato esclusivamente al senso di solitudine ma potrebbe avere una causa multifattoriale che trova origine nella storia di vita della persona e non solo nel Natale presente.

Sicuramente nel caso in cui si percepisce solitudine, associata a sentimenti di tristezza, demoralizzazione, senso di vuoto, e altri sintomi sopra descritti, la cosa più efficace potrebbe essere quella di iniziare a costruire un “piano” per mettere in atto un processo di “problem solving”, cercando la condizione che potrebbe farci sentire meglio o il tipo di compagnia di cui sentiamo di aver bisogno.

A seconda della risposta a questa domanda sarà quindi utile capire come poter trovare questo tipo di risorse, ricontattando vecchi amici, conoscendone di nuovi, accettando un invito fuori dalla nostra “comfort zone”, o addirittura evitando di obbligarci a stare in mezzo alla gente solo perché pensiamo che “a Natale non bisogna stare soli”.

Come affrontare la depressione a Natale?

Se non è la solitudine il problema, bisogna tornare a considerarlo come multifattoriale.

L’abbassamento del tono dell’umore o la presenza di alcuni dei sintomi sopra descritti (ricordiamo tuttavia che la “depressione natalizia” potrebbe presentarsi in modi molto diversi per ognuno di noi), possono essere gestiti con strategie comportamentali e cognitive di vario tipo.

Sicuramente la solitudine può incrementare l’abbassamento dell’umore, motivo per cui potrebbe essere fondamentale ricercare il supporto di amici e familiari. Allo stesso tempo però non dobbiamo “obbligarci” a stare con persone con cui sappiamo già che non ci troveremmo bene o a nostro agio (“buttarci a capofitto “ in feste e cenoni senza che vi siano persone con cui abbiamo un reale legame potrebbe a volte anche essere controproducente). 

Altro elemento fondamentale riguarda l’assunzione di alcol (e di sostanze stupefacenti): il loro uso eccessivo rischia che non siano più solo accessori secondari ad un quadro di festa ma vengano usati per regolare le nostre emozioni, come fossero dei farmaci, con il pericolo – a lungo termine – di fare del male a sé o agli altri (sia fisicamente che emotivamente). 

Concludendo, per cercare di regolare il nostro umore durante le festività, proviamo a domandarci: “La solitudine sta peggiorando la situazione?”, “Siamo distanti da alcol e sostanze?”, “Quali attività potrebbero aiutarci a stare meglio?”. Questo non significa per forza raggiungere la perfezione, la felicità assoluta, l’euforia, ma semplicemente accettare questa difficoltà attivamente, ricordandoci che tutto ha un inizio e una fine, anche il Natale.

Quando è necessario consultare uno specialista?

Quando i sintomi descritti iniziano a manifestarsi con frequenza e intensità elevata, quando notiamo (o ci viene fatto notare) che il nostro umore rimane deflesso per la maggior parte del giorno per molti giorni consecutivi (ad esempio, 2 settimane di umore basso per la maggior parte del giorno tutti i giorni); quando perdiamo interessi o piacere nel fare le cose che prima ci piaceva fare; quando notiamo cambiamenti nell’appetito, nelle ore di sonno e nella loro qualità; quando ci sentiamo irritabili o agitati; quando, in assenza di sforzi fisici, ci sentiamo affaticati e senza energie; quando notiamo un incremento del senso di colpa o un’autosvalutazione non comprensibili alla luce degli eventi di vita; quando facciamo fatica a concentrarci o abbiamo pensieri riguardanti la morte, è consigliabile chiedere il parere di uno psicologo o psichiatra facendo anche solo una prima visita psicologica/psichiatrica.

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Il Natale si avvicina e molti bambini hanno già iniziato a scrivere la letterina dei desideri: lunghe liste di regali che sperano di trovare sotto l’albero. Così, tanti genitori iniziano ad andare in giro come trottole per riuscire ad accontentarli, ma esagerare, riempiendo la casa di doni, anche se tanto desiderati, è davvero la cosa giusta da fare? Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Evelina Molinari, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

È giusto scrivere la letterina a Babbo Natale?

La letterina a Babbo Natale rappresenta un momento speciale per i bambini. Non solo perché gli consente di mettere per iscritto la lista di tutti i loro desideri ma anche – soprattutto – per il tempo che possono passare con i propri genitori, durante il quale hanno la possibilità di condividere pensieri ed emozioni legati a questa importante festività, fatta di momenti magici, come addobbare la casa, fare l’albero, rituali importantissimi che consentono di vivere al massimo questa dimensione fantastica, tante volte necessaria a sostenere anche momenti faticosi legati a questa particolare età.

Proprio per questo, la letterina a Babbo Natale può assumere un significato importante, diventando uno strumento per insegnare ai bambini ad esprimere la propria gratitudine per tutto quello che possiedono, mostrandogli l’importanza di ringraziare ed essere grati per quello che hanno, prima di chiedere.

Non è necessario che la lettera sia perfetta, non si tratta di un compito in classe, al contrario: gli errori e le imprecisioni, possono essere l’espressione più ampia di tutte le emozioni che emergono nei bambini durante questo periodo dell’anno.

Perché non va bene ricevere troppi regali?

Molti bambini si aspettano di trovare sotto l’albero tutto quello che hanno chiesto nella letterina a Babbo Natale ma esaudire ogni desiderio non è sempre la cosa giusta da fare, al contrario, potrebbe far ottenere l’effetto opposto.

Dopo un primo momento di felicità, infatti, può subentrare un bisogno di sazietà: il bambino continua a ricercare le emozioni suscitate dal regalo ricevuto, emozioni che tuttavia svaniscono in fretta, per il bisogno di passare subito ad un altro oggetto, creando così un circolo vizioso.

Come dire al proprio figlio che non può avere tutti i regali che ha chiesto?

Un modo potrebbe essere quello di stabilire, specie con i più piccoli, un numero preciso di regali che possono richiedere; mentre con i più grandi, si potrebbe fare un discorso sul valore del denaro.

È importante dare ai bambini la possibilità di scegliere, insegnando loro il valore delle cose ma anche dei soldi, aiutandoli a capire ciò che realmente desiderano, quei regali che sono davvero importanti per loro. Inoltre, si potrebbe provare a far capire ai bimbi quali possono essere le conseguenze di ricevere troppi regali, ad esempio, in termine di sostenibilità, con tanti prodotti da dover smaltire.

Il genitore non deve riempire i figli di regali per placare magari il senso di colpa di non riuscire ad essere sempre presente ma ritagliarsi dei momenti per i loro, facendogli capire che il regalo più grande è il tempo (sia mentale che fisico) che decide di passare solo a loro: i regali si dimenticano, mentre lo scambio affettivo e la condivisione con i genitori creano ricordi che resteranno per sempre, perché molto più significativi dal punto di vista emotivo.

Quali sono i vantaggi di avere meno regali?

Secondo diversi studi, i bambini che hanno meno beni materiali ma che possono contare maggiormente sulla famiglia e sugli amici, hanno un livello di autostima più alto, sono più sensibili, altruisti e portati alla condivisione. Sono meno gelosi e possessivi, perché non hanno legami selettivi con gli oggetti (restando legati solo a un oggetto, si fa più fatica a entrare in relazione con le proprie emozioni e con gli altri, specie in una fase delicata come quella della crescita personale). Alcune persone dimostrano poi una maggiore capacità di riconoscere il valore del donare e una maggiore empatia.

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Il Natale si avvicina e per le strade è già iniziato il via vai nei negozi alla ricerca del regalo perfetto per colleghi, amici e familiari. Tutti hanno in mente la stessa domanda: “Cosa potrebbe servire o far piacere a quella persona?”. Eppure, non sempre la risposta che ci diamo corrisponde alla realtà. Tante volte, infatti, tendiamo ad interpretare erroneamente il bisogno dell’altro, o a perdere di vista, senza volerlo, la persona e le sue caratteristiche, dando più spazio a quello che vogliamo comunicare di noi, piuttosto che a ciò che l’altro potrebbe desiderare, finendo spesso per fare o ricevere regali che non ci servono e di cui non sappiamo cosa farcene.

Per questo, quando si compra un regalo, non bisogna andare troppo sul personale (specie quando non si conosce bene il destinatario) o si dovrebbe evitare di andare a comprarlo quando siamo preoccupati o troppo concentrati su noi stessi; questa condizione non è certo quella ottimale per vedere con chiarezza chi riceverà il nostro regalo, i suoi bisogni, i suoi gusti e quello che potrebbe desiderare.

Come scegliere dunque il regalo giusto?

Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Elena Campanini, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

Come trovare il regalo giusto?

Molto spesso i regali vengono investiti di un forte valore affettivo e dicono molto sulla relazione che c’è tra chi lo fa e chi lo riceve. Da un regalo è possibile cogliere il “clima emotivo” con cui è stato fatto: con affetto e amore o con fretta e non curanza. Vi può essere la nostra impronta, una sorta di “firma”, che lo rende non solo la rappresentazione dell’idea che abbiamo di quella persona, ma anche di ciò che vogliamo mostrare di noi stessi. In questi casi, il rischio di fare “flop” è alto, poiché chi riceve il regalo, rischia di essere perso di vista.

Un regalo è, o dovrebbe essere, un gioco di empatia: ogni volta in cui compriamo un regalo dovremmo metterci nei panni della persona a cui è indirizzato, per coglierne meglio gusti, gli interessi e i bisogni, senza perdere di vista che tuttavia è un “come se” (mi metto nei panni dell’altro senza dimenticare che non sono lui).

La smania invece di cercare ad ogni costo il regalo perfetto può nascondere la paura di essere mal giudicati, o addirittura un modo per far arrivare un’immagine perfetta di sé, esibendo l’abilità di fare l’acquisto giusto (spesso spendendo una fortuna o comprando regali particolarmente appariscenti) con la sola preoccupazione per sé stessi e non il desiderio di donare all’altro qualcosa che possa piacergli veramente

Perché alcuni regali non piacciano?

I motivi possono essere diversi: la persona può sentire di non meritarselo (tutti siamo cresciuti con il precetto dei regali come premi meritati e certe tracce possono rimanere a dispetto dell’età e del tempo) o sentirsi a disagio o in imbarazzo a riceverlo (può generare delle aspettative, fa sentire costretti a contraccambiare, riducendo così il gesto del donare a poco più che uno scambio di merce). Inoltre, essendo un oggetto che transita all’interno di una relazione tra due persone come veicolo di sentimenti, può essere percepito come un elemento affatto anonimo che entra nello spazio personale considerato non per tutti (chi lo riceve potrebbe volerlo proteggere da intrusioni e quindi essere restio sia a fare che a ricevere regali).

Qual è la differenza tra dono e regalo?

Il regalo è quasi sempre inteso come un bene materiale e non necessariamente porta con sé significati affettivi.

Il dono, invece, è un atto di vero altruismo: è dare senza volere nulla in cambio (pensate, per esempio, al gesto di “donare il sangue”). È qualcosa che si possiede e non si acquista, che ha un forte valore simbolico e affettivo, ma non necessariamente economico e non genera l’ansia di dover contraccambiare, se non quella di un grazie di riconoscenza.

Puntare sulle piccole cose potrebbe essere la scelta perfetta, non solo per evitare di riempire le nostre case di oggetti inutili, ma anche per riscoprire il valore profondo che può racchiudere un piccolo dono.

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L’obesità non rappresenta solo un problema per la salute fisica (aumentando il rischio di malattie respiratorie o cardiovascolari, diabete e tumori) ma anche per quella psicologica, a causa di uno stigma sociale che da troppo tempo accompagna questa condizione. Sempre più spesso le persone che soffrono di obesità o sono in sovrappeso vengono discriminate a causa del proprio aspetto fisico (partendo dal presupposto, non dimostrato, che l’aumento del loro peso corporeo derivi da una mancanza di disciplina e forza di volontà), non solo all’interno della famiglia ma anche in ambito scolastico, professionale e sanitario.

Ce ne parla la dottoressa Paola Mosini, psicoterapeuta di PsicoCare.

Come viene considerata l’obesità dalla società?

Molto spesso la società considera le persone che soffrono di obesità non come vittime innocenti, ma come artefici della propria malattia, personalmente responsabili dei loro problemi di peso a causa della pigrizia e dell’eccesso di cibo. Un messaggio spesso lanciato dai media, con programmi o spot che tante volte rafforzano l’idea che il peso corporeo sia unicamente sotto il nostro controllo (bastano diete e attività fisica per restare in forma).

In che modo le persone con problemi di obesità vengono discriminate sul lavoro e nella sanità?

I soggetti che soffrono di obesità (o sono in sovrappeso), vengono spesso considerati privi di forza di volontà, deboli, pigri e negligenti.

Sul posto di lavoro, i salari sono più bassi e le persone sono spesso considerate meno qualificate ed efficienti rispetto ai coetanei normopeso (soprattutto le donne).

In ambito sanitario, i medici sono meno disposti ad offrire il loro tempo all’educazione e alla formazione sulla salute, e i pazienti colpiti da discriminazione, hanno minor beneficio dai trattamenti (minori offerta di cure, ritardo nell’accesso ai servizi) e maggiori probabilità di evitare cure future (l’obesità riduce persino l’aderenza agli screening per i tumori).

Nonostante l’obesità sia una malattia cronica multifattoriale, la persona che ne soffre viene ancora colpevolizzata di esserne l’unico responsabile.

A quali conseguenze può portare lo stigma dell’obesità?

Lo stigma dell’obesità può portare ad azioni di esclusione ed emarginazione: le persone vengono prese in giro a scuola, escluse dalle attività sportive, giudicate meno efficienti sul lavoro, hanno minor possibilità di trovare un/a compagno/a, non trovare abiti alla moda e, peggio ancora, non ricevere le cure mediche adeguate.

Inoltre, come dicevamo, questo stigma può avere forti ripercussioni psicologiche, portando alla comparsa di depressione, sintomi psichiatrici, disturbo dell’immagine corporea, bassa autostima, comportamenti alimentari disfunzionali, riduzione dell’attività fisica, aumento di peso.

Come evitare lo stigma dell’obesità?

Esistono una serie di azioni che possiamo mettere in atto per contrastare lo stigma, riconoscendo, prima di tutto, che l’obesità è una malattia (determinata da fattori genetici, biologici, psicologici ed ambientali) e che ci sono prove scientifiche che lo dimostrano; riconoscendo che il pregiudizio e lo stigma violano i diritti umani e non possono essere tollerati dalla società moderna.

Per combattere questa discriminazione, è necessario condannare l’uso di linguaggi, immagini e atteggiamenti (anche da parte dei media) che possono ledere queste persone, impegnandosi a trattarle con dignità e rispetto.

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