La vulvodinia è un disturbo da dolore sessuale che riguarda i genitali esterni femminili. Si tratta di una condizione molto diffusa al giorno d’oggi, si stima infatti che ne soffra circa 1 donna su 7. Tuttavia, la vulvodinia è una condizione sotto-diagnosticata: sono molte le donne che riferiscono di aver svolto molteplici visite senza ricevere una corretta diagnosi e di conseguenza senza aver ricevuto una cura adeguata.

Ne abbiamo parlato con gli specialisti di PsicoCare.

Che cos’è la vulvodinia?

Si tratta di una patologia caratterizzata da dolore, bruciore e fastidio a livello vulvare che può creare un forte disagio psicologico nelle donne, ecco perché oltre alla componente fisica è importante non trascurare la componente psicologica ed emotiva.

Perché la vulvodinia è difficile da diagnosticare?

Perché molti specialisti non sono correttamente informati su questo disturbo e quindi credono erroneamente che si tratti di un problema psicosomatico, non comprendendo la reale natura dei sintomi riferiti dalle pazienti. Oltre al dolore fisico quindi, le donne devono combattere contro una grande disinformazione che non permette loro di ricevere una diagnosi nei giusti tempi e che spesso le fa sentire non comprese, sole e talvolta “pazze”. Generalmente le donne si trovano infatti a consultare numerosi specialisti prima di giungere alla diagnosi e si stima che la vulvodinia venga diagnosticata con un ritardo di 5 anni in media. Non di rado accade che queste donne arrivino a farsi da sole una diagnosi di vulvodinia basandosi sulle informazioni reperite in rete o sui social, ricercando uno specialista che possa dargliene conferma.

Il momento della diagnosi rappresenta un sollievo, proprio perché queste donne combattono per anni per riuscire a trovare un professionista che riesca a fornirle un’adeguata comprensione del loro problema, che possa quindi dare un nome alla condizione che stanno vivendo e permetta loro di intraprendere la giusta terapia.

Che ripercussioni può avere la vulvodinia sul benessere individuale e sulla relazione di coppia?

La vulvodinia può generare nella donna ansia, tristezza, depressione, rabbia, senso di inadeguatezza, senso di solitudine, senso di colpa, evitamento dell’intimità, catastrofizzazione del dolore, vissuti emotivi quindi che impattano negativamente sulla quotidianità della donna e che ostacolano la guarigione.

La vulvodinia può inoltre impattare negativamente anche sulla coppia, perché dall’altra parte il partner potrebbe sentirsi impotente di fronte a questo problema, potrebbe non sapere come stare accanto alla propria compagna e sentirsi inadeguato, oppure provare rabbia o sensi di colpa, vissuti che quindi potrebbero ostacolare il benessere della coppia.

Come si effettua la diagnosi di vulvodinia?

Prima di tutto è importante avere un’adeguata comprensione del disturbo per poter intervenire correttamente, il medico deve quindi comprendere la storia del dolore della paziente per poter avere un quadro chiaro della sintomatologia e di come questa ha impattato sulla vita della donna.

Per fare diagnosi di vulvodinia il medico deve eseguire lo swab-test, un esame dove attraverso l’utilizzo di un cotton-fioc il medico esercita pressione in alcuni punti specifici della vulva per indagare la reazione della donna.

La vulvodinia può essere di due tipi:

–   Diffusa: il dolore riguarda tutta la vulva

–   Localizzata: il dolore riguarda una parte o un solo punto della vulva

In fase di diagnosi è inoltre importante indagare se si tratta di una vulvodinia spontanea, dove il dolore è presente ed è indipendente da qualsiasi altro fattore; provocata, dove il dolore è provocato da uno stimolo meccanico (ad esempio il tocco, la penetrazione o indumenti stretti); mista.

Come si cura la vulvodinia?

L’obiettivo è ridurre la sintomatologia della donna, portandola ad un livello di dolore che non risulta più essere invalidante.

Trattandosi di un disturbo da dolore sessuale che può ripercuotersi a livello psicologico è fondamentale un approccio multidisciplinare che preveda un team composto da una figura esperta nell’area medica ed una esperta nell’area psicologica. Questo perché, oltre a considerare la componente fisica, è molto importante non trascurare l’impatto psicologico ed emotivo che questa condizione può avere sulla qualità di vita della donna.

È essenziale precisare che, diversamente dal messaggio che alcuni professionisti passano alle pazienti, non si tratta di una “malattia mentale”, quindi il dolore non è nella loro testa ma è reale.

Tra le opzioni di cura ci possono essere anestetici locali o farmaci antidepressivi e antiepilettici, altre terapie utilizzate sono l’agopuntura e la TENS (stimolazione elettrica nervosa transcutanea).

Nei casi di disfunzioni del pavimento pelvico è utile una riabilitazione per intervenire sull’ipertono muscolare. Sono inoltre in fase di sperimentazione nuove tecniche strumentali come il laser, la radiofrequenza e l’elettroporazione.

Infine, l’affiancamento di un percorso psico-sessuologico da parte di psicologi-psicoterapeuti sessuologi è fondamentale per poter gestire i pensieri e le emozioni legati alla vulvodinia e per aiutare le donne a riappropriarsi della loro vita, tornando a sentirsi libere nella loro quotidianità, nella sessualità e nella relazione di coppia.

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Le vacanze sono il periodo più atteso dagli studenti ma il pensiero dei compiti spesso impedisce loro di godersi appieno le giornate di ozio. Riuscirò a farli tutti? Dovrò sacrificare il mio tempo libero per riuscire a consegnarli? Le preoccupazioni possono essere diverse, per questo è fondamentale trovare il giusto equilibrio tra riposo e apprendimento. Ce ne parla la dott.ssa Marcella Mauro, psicologa dell’apprendimento di PsicoCare.

Perché i compiti delle vacanze sono un peso per tanti studenti?

Quando finisce la scuola molti studenti possono sentirsi esausti mentalmente ed emotivamente, specie chi ha avuto difficoltà nell’apprendimento o è stato particolarmente sotto pressione.

Tanti ragazzi considerano i compiti delle vacanze come un’ingiustizia, ritenendo che non dovrebbero essere obbligati a lavorare quando tutti gli altri bambini possono godersi il tempo libero senza responsabilità scolastiche.

Questa demotivazione porta tante volte a dubitare anche dell’utilità di questi compiti, molti pensano che non servano all’apprendimento o che non siano comunque sufficienti a ricordare tutto durante le vacanze.

Se il periodo delle vacanze è breve, come in quelle natalizie, gli studenti hanno diritto al riposo e al tempo libero per dedicarsi al gioco e ad altre attività proprie della loro età. Tuttavia, nel caso del periodo estivo  non dovremmo sottovalutare l’importanza dei compiti.

A cosa servono i compiti delle vacanze?

In generale agli studenti deve essere concesso il diritto al gioco e al riposo , alle famiglie il diritto di “ritrovarsi” senza l’ossessione dei compiti.

Quando si verificano invece  lunghe interruzioni nel percorso educativo, gli studenti infatti  possono subire una regressione o una diminuzione del loro apprendimento (“learning loss”), poiché vengono a mancare sia un ambiente di strutturato che l’esposizione regolare ai contenuti scolastici. Questa perdita può riguardare varie aree (come matematica, lettura, scrittura, etc).

Per contrastare la learning loss è necessario incoraggiare una mentalità di apprendimento continuo, in modo da mitigare la perdita e mantenere gli studenti impegnati nel processo di acquisizione di conoscenze e competenze.

Questo non significa concentrarsi solo sui compiti ma approfittare delle vacanze per esplorare nuovi interessi e passioni, per ampliare la propria conoscenza -oltre a quanto richiesto dal programma scolastico – anche alle proprie passioni, come l’astrologia, gli animali, lo sport.

Inoltre, i compiti insegnano agli studenti l’autodisciplina e la gestione del tempo: imparano a pianificare, stabilire priorità e adottare strategie di studio efficaci. Abilità sono fondamentali per il successo accademico che possono essere applicate in molte altre sfere della vita.

Cosa possono fare i genitori per aiutare nei compiti delle vacanze?

Per tanti genitori i compiti con i propri figli rappresentano una sfida, una fonte di discussioni e stress.

In tanti, quando i figli non rispettano le proprie responsabilità, ne soffrono, provano sentimenti di rabbia e frustrazione, si sentono inutili, temono che il proprio figlio non sarà mai all’altezza di qualcosa, oppure, si sentono in colpa per non aver fatto un lavoro abbastanza buono come genitori.

In questi casi è fondamentale ricordare che non è il figlio a provocare queste emozioni ma che questi sentimenti già ci appartengono. È importante non lasciare che questi stati d’animo ci spingano a chiedere sempre di più per sentirci meglio. Una delle cose più difficili che i genitori devono fare è imparare a calmare le proprie preoccupazioni, anziché chiedere ai figli di farlo per loro. Questo è il primo passo per evitare lotte all’interno della famiglia.

Con la giusta organizzazione e un approccio positivo, i compiti delle vacanze possono diventare un’esperienza piacevole e produttiva.

Cosa fare se un bambino non fa i compiti delle vacanze?

I genitori si chiedono se sia il caso di punire i bambini (o i ragazzi) che non fanno i compiti o se, invece, sia meglio lasciare che le cose vadano come devono andare (se la vedranno che le insegnanti una volta tornati a scuola).

Non possiamo costringere un bambino a fare qualcosa che non ha voglia di fare, ma possiamo strutturare il suo ambiente in modo da aumentare la probabilità che riesca a studiare bene.

Ecco alcuni consigli su come gestire i compiti estivi con i bambini:

·  Sottoscriviamo un patto firmato: prima di iniziare, ci si può accordare e firmare (bambino e genitori) un patto che sancisce impegno, modalità e tempistiche di lavoro, con bonus e piccole ricompense se rispettato fino alla fine.

·  Pianifichiamo un programma: stabilire un orario fisso ogni giorno in cui i bambini si dedicheranno ai compiti, può essere utile ma non indispensabile. L’importante è farli nell’arco della giornata con quanto stabilito in termini di quantità e impegno. Si possono anche includere intervalli di studio e pause, per mantenere l’attenzione dei bambini e ridurre lo stress (per esempio eseguendo ogni 10 minuti di saltelli sul posto o un giro in giardino).

·  Fissiamo degli obiettivi raggiungibili: stabiliamo obiettivi realistici per i compiti estivi. Intervalliamo i compiti più pesanti con quelli più leggeri e celebriamo i successi quando vengono raggiunti. Questo aiuterà i bambini a rimanere motivati e a sentirsi soddisfatti dei progressi compiuti.

·  Creiamo un ambiente di studio adatto: assicuriamoci che i bambini abbiano un ambiente tranquillo e ben illuminato in cui possono concentrarsi, rimuovendo le distrazioni come la televisione o i giochi e fornendo loro tutti i materiali necessari (come penne, matite, quaderni, libri di testo, ecc). Dare comunque una merenda che amano, un abbraccio e assicurare una vicinanza può aiutare.

·  Forniamo supporto e assistenza: cerchiamo di essere un supporto, non un controllo. Evitiamo di essere troppo invadenti o di prendere il controllo dei compiti dei nostri figli, lasciamo che siano loro a svolgerli. In questo modo, li renderemo più autonomi e responsabili.

·  Incoraggiamoli: cerchiamo di mostrare interesse per ciò che stanno facendo ed essere pazienti durante il processo di apprendimento.

·  Poniamoci come modello di ruolo: se i bambini vedono che anche il genitore dedica tempo all’apprendimento e fa i suoi compiti o legge libri, saranno più inclini ad emulare il comportamento.

·  Promuoviamo l’apprendimento informale: oltre ai compiti assegnati dalla scuola, promuoviamo l’apprendimento informale durante le vacanze, portando i bambini in visite educative, come musei, zoo o parchi tematici, o incoraggiandoli a leggere libri di loro scelta.

·  Manteniamo una comunicazione aperta: chiediamo ai nostri figli come si sentono riguardo ai compiti e se hanno bisogno di aiuto. Ascoltiamo le loro preoccupazioni e cerchiamo di trovare delle soluzioni insieme. La comunicazione aperta e il dialogo sono fondamentali per evitare conflitti e risolvere eventuali problemi in modo costruttivo.    

Stabilire una routine, creare uno spazio adatto, essere un supporto e non un controllo, fornire incoraggiamento, trasformare i compiti in attività divertenti, promuovere l’equilibrio tra studio e divertimento e mantenere una comunicazione aperta sono tutte strategie utili che possiamo adottare per gestire i compiti delle vacanze dei nostri figli (abbracciare, dimostrare affetto, ridere insieme, sottolineare gli apprezzamenti invece di correggere, istruire, insegnare, urlare, lamentarvi o rimproverare continuamente). I compiti sono un’opportunità per l’apprendimento, ma anche per la crescita personale e il consolidamento dei legami familiari.

È nostro compito correggere e rimproverare ma è importante fare uno sforzo affinché ogni volta sia eseguito con interazioni positive. Il cervello umano ricorda molto di più gli episodi negativi che quelli positivi (la maggior parte dei bambini sarà felice di ascoltare e farsi guidare dalle persone positive), ricordandoci che ogni bambino è diverso e potrebbe richiedere approcci differenti per motivarsi.

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Il Natale si avvicina e le città si riempiono di luci e decorazioni. Per alcuni è il periodo più bello dell’anno ma per altri – una persona su due – è uno dei più tristi. Il motivo potrebbe essere il Christmas Blues, una vera e propria forma di depressione che tende ad aumentare in prossimità delle feste, compreso il Natale.

Ce ne parla il dott. Pietro Ramella, Psicologo e Psicoterapeuta di PsicoCare.

Perché si prova tristezza durante le festività?

Esistono tanti motivi che possono portare alcune persone ad essere più tristi durante le feste, soprattutto a Natale quando ci si sente quasi obbligati ad essere felici e la solitudine – specie per le persone sole, per chi non ha molti amici o ha perso recentemente un proprio caro, per gli anziani o le categorie più fragili che non possono stare in mezzo alla gente – tende a farsi sentire di più.

Il Natale poi è spesso tempo di bilanci emotivi su ciò che avremmo voluto e che abbiamo fatto. Inoltre, i festeggiamenti possono portare ad una serie di fattori di stress (come cucinare, pulire la casa, affrontare cene di famiglia, cercare i regali di Natale, pensare alle vacanze invernali), minor lavoro in ufficio e più tempo libero che non si sa sempre come utilizzare.

Come si manifesta la depressione natalizia?

I sentimenti possono manifestarsi in modo diverso da persona a persona; tuttavia, ce ne sono alcuni comuni, come l’abbassamento del tono dell’umore, che può presentarsi con:

·  tristezza/demoralizzazione/senso di vuoto (non giustificati da eventi quotidiani)

·  abbassamento del livello di motivazione/interesse/piacere a fare le cose 

·  cambiamenti nella qualità e durata del sonno e/o dell’appetito

·  ansia/stress

·  affaticamento e mancanza di energia/difficoltà di concentrazione non giustificati dalle attività svolte durante la giornata

·  senso di frustrazione/incremento dell’irritabilità

·  sensazione di solitudine

Come combattere la solitudine durante le feste?

Prima di pensare a “combattere” la solitudine è utile capire di che tipo di solitudine stiamo parlando, sfatando il “mito” che a Natale sia obbligatorio essere circondati da numerose persone che ci vogliono bene (potremmo sentirci soli anche in una stanza piena di gente così come potremmo sentirci in compagnia anche solo con un singolo amico) e di che cosa pensiamo di aver bisogno per stare meglio.

L’abbassamento dell’umore che può comparire durante le festività natalizie non sempre è associato esclusivamente al senso di solitudine ma potrebbe avere una causa multifattoriale che trova origine nella storia di vita della persona e non solo nel Natale presente.

Sicuramente nel caso in cui si percepisce solitudine, associata a sentimenti di tristezza, demoralizzazione, senso di vuoto, e altri sintomi sopra descritti, la cosa più efficace potrebbe essere quella di iniziare a costruire un “piano” per mettere in atto un processo di “problem solving”, cercando la condizione che potrebbe farci sentire meglio o il tipo di compagnia di cui sentiamo di aver bisogno.

A seconda della risposta a questa domanda sarà quindi utile capire come poter trovare questo tipo di risorse, ricontattando vecchi amici, conoscendone di nuovi, accettando un invito fuori dalla nostra “comfort zone”, o addirittura evitando di obbligarci a stare in mezzo alla gente solo perché pensiamo che “a Natale non bisogna stare soli”.

Come affrontare la depressione a Natale?

Se non è la solitudine il problema, bisogna tornare a considerarlo come multifattoriale.

L’abbassamento del tono dell’umore o la presenza di alcuni dei sintomi sopra descritti (ricordiamo tuttavia che la “depressione natalizia” potrebbe presentarsi in modi molto diversi per ognuno di noi), possono essere gestiti con strategie comportamentali e cognitive di vario tipo.

Sicuramente la solitudine può incrementare l’abbassamento dell’umore, motivo per cui potrebbe essere fondamentale ricercare il supporto di amici e familiari. Allo stesso tempo però non dobbiamo “obbligarci” a stare con persone con cui sappiamo già che non ci troveremmo bene o a nostro agio (“buttarci a capofitto “ in feste e cenoni senza che vi siano persone con cui abbiamo un reale legame potrebbe a volte anche essere controproducente). 

Altro elemento fondamentale riguarda l’assunzione di alcol (e di sostanze stupefacenti): il loro uso eccessivo rischia che non siano più solo accessori secondari ad un quadro di festa ma vengano usati per regolare le nostre emozioni, come fossero dei farmaci, con il pericolo – a lungo termine – di fare del male a sé o agli altri (sia fisicamente che emotivamente). 

Concludendo, per cercare di regolare il nostro umore durante le festività, proviamo a domandarci: “La solitudine sta peggiorando la situazione?”, “Siamo distanti da alcol e sostanze?”, “Quali attività potrebbero aiutarci a stare meglio?”. Questo non significa per forza raggiungere la perfezione, la felicità assoluta, l’euforia, ma semplicemente accettare questa difficoltà attivamente, ricordandoci che tutto ha un inizio e una fine, anche il Natale.

Quando è necessario consultare uno specialista?

Quando i sintomi descritti iniziano a manifestarsi con frequenza e intensità elevata, quando notiamo (o ci viene fatto notare) che il nostro umore rimane deflesso per la maggior parte del giorno per molti giorni consecutivi (ad esempio, 2 settimane di umore basso per la maggior parte del giorno tutti i giorni); quando perdiamo interessi o piacere nel fare le cose che prima ci piaceva fare; quando notiamo cambiamenti nell’appetito, nelle ore di sonno e nella loro qualità; quando ci sentiamo irritabili o agitati; quando, in assenza di sforzi fisici, ci sentiamo affaticati e senza energie; quando notiamo un incremento del senso di colpa o un’autosvalutazione non comprensibili alla luce degli eventi di vita; quando facciamo fatica a concentrarci o abbiamo pensieri riguardanti la morte, è consigliabile chiedere il parere di uno psicologo o psichiatra facendo anche solo una prima visita psicologica/psichiatrica.

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Il Natale si avvicina e molti bambini hanno già iniziato a scrivere la letterina dei desideri: lunghe liste di regali che sperano di trovare sotto l’albero. Così, tanti genitori iniziano ad andare in giro come trottole per riuscire ad accontentarli, ma esagerare, riempiendo la casa di doni, anche se tanto desiderati, è davvero la cosa giusta da fare? Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Evelina Molinari, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

È giusto scrivere la letterina a Babbo Natale?

La letterina a Babbo Natale rappresenta un momento speciale per i bambini. Non solo perché gli consente di mettere per iscritto la lista di tutti i loro desideri ma anche – soprattutto – per il tempo che possono passare con i propri genitori, durante il quale hanno la possibilità di condividere pensieri ed emozioni legati a questa importante festività, fatta di momenti magici, come addobbare la casa, fare l’albero, rituali importantissimi che consentono di vivere al massimo questa dimensione fantastica, tante volte necessaria a sostenere anche momenti faticosi legati a questa particolare età.

Proprio per questo, la letterina a Babbo Natale può assumere un significato importante, diventando uno strumento per insegnare ai bambini ad esprimere la propria gratitudine per tutto quello che possiedono, mostrandogli l’importanza di ringraziare ed essere grati per quello che hanno, prima di chiedere.

Non è necessario che la lettera sia perfetta, non si tratta di un compito in classe, al contrario: gli errori e le imprecisioni, possono essere l’espressione più ampia di tutte le emozioni che emergono nei bambini durante questo periodo dell’anno.

Perché non va bene ricevere troppi regali?

Molti bambini si aspettano di trovare sotto l’albero tutto quello che hanno chiesto nella letterina a Babbo Natale ma esaudire ogni desiderio non è sempre la cosa giusta da fare, al contrario, potrebbe far ottenere l’effetto opposto.

Dopo un primo momento di felicità, infatti, può subentrare un bisogno di sazietà: il bambino continua a ricercare le emozioni suscitate dal regalo ricevuto, emozioni che tuttavia svaniscono in fretta, per il bisogno di passare subito ad un altro oggetto, creando così un circolo vizioso.

Come dire al proprio figlio che non può avere tutti i regali che ha chiesto?

Un modo potrebbe essere quello di stabilire, specie con i più piccoli, un numero preciso di regali che possono richiedere; mentre con i più grandi, si potrebbe fare un discorso sul valore del denaro.

È importante dare ai bambini la possibilità di scegliere, insegnando loro il valore delle cose ma anche dei soldi, aiutandoli a capire ciò che realmente desiderano, quei regali che sono davvero importanti per loro. Inoltre, si potrebbe provare a far capire ai bimbi quali possono essere le conseguenze di ricevere troppi regali, ad esempio, in termine di sostenibilità, con tanti prodotti da dover smaltire.

Il genitore non deve riempire i figli di regali per placare magari il senso di colpa di non riuscire ad essere sempre presente ma ritagliarsi dei momenti per i loro, facendogli capire che il regalo più grande è il tempo (sia mentale che fisico) che decide di passare solo a loro: i regali si dimenticano, mentre lo scambio affettivo e la condivisione con i genitori creano ricordi che resteranno per sempre, perché molto più significativi dal punto di vista emotivo.

Quali sono i vantaggi di avere meno regali?

Secondo diversi studi, i bambini che hanno meno beni materiali ma che possono contare maggiormente sulla famiglia e sugli amici, hanno un livello di autostima più alto, sono più sensibili, altruisti e portati alla condivisione. Sono meno gelosi e possessivi, perché non hanno legami selettivi con gli oggetti (restando legati solo a un oggetto, si fa più fatica a entrare in relazione con le proprie emozioni e con gli altri, specie in una fase delicata come quella della crescita personale). Alcune persone dimostrano poi una maggiore capacità di riconoscere il valore del donare e una maggiore empatia.

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Il Natale si avvicina e per le strade è già iniziato il via vai nei negozi alla ricerca del regalo perfetto per colleghi, amici e familiari. Tutti hanno in mente la stessa domanda: “Cosa potrebbe servire o far piacere a quella persona?”. Eppure, non sempre la risposta che ci diamo corrisponde alla realtà. Tante volte, infatti, tendiamo ad interpretare erroneamente il bisogno dell’altro, o a perdere di vista, senza volerlo, la persona e le sue caratteristiche, dando più spazio a quello che vogliamo comunicare di noi, piuttosto che a ciò che l’altro potrebbe desiderare, finendo spesso per fare o ricevere regali che non ci servono e di cui non sappiamo cosa farcene.

Per questo, quando si compra un regalo, non bisogna andare troppo sul personale (specie quando non si conosce bene il destinatario) o si dovrebbe evitare di andare a comprarlo quando siamo preoccupati o troppo concentrati su noi stessi; questa condizione non è certo quella ottimale per vedere con chiarezza chi riceverà il nostro regalo, i suoi bisogni, i suoi gusti e quello che potrebbe desiderare.

Come scegliere dunque il regalo giusto?

Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Elena Campanini, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

Come trovare il regalo giusto?

Molto spesso i regali vengono investiti di un forte valore affettivo e dicono molto sulla relazione che c’è tra chi lo fa e chi lo riceve. Da un regalo è possibile cogliere il “clima emotivo” con cui è stato fatto: con affetto e amore o con fretta e non curanza. Vi può essere la nostra impronta, una sorta di “firma”, che lo rende non solo la rappresentazione dell’idea che abbiamo di quella persona, ma anche di ciò che vogliamo mostrare di noi stessi. In questi casi, il rischio di fare “flop” è alto, poiché chi riceve il regalo, rischia di essere perso di vista.

Un regalo è, o dovrebbe essere, un gioco di empatia: ogni volta in cui compriamo un regalo dovremmo metterci nei panni della persona a cui è indirizzato, per coglierne meglio gusti, gli interessi e i bisogni, senza perdere di vista che tuttavia è un “come se” (mi metto nei panni dell’altro senza dimenticare che non sono lui).

La smania invece di cercare ad ogni costo il regalo perfetto può nascondere la paura di essere mal giudicati, o addirittura un modo per far arrivare un’immagine perfetta di sé, esibendo l’abilità di fare l’acquisto giusto (spesso spendendo una fortuna o comprando regali particolarmente appariscenti) con la sola preoccupazione per sé stessi e non il desiderio di donare all’altro qualcosa che possa piacergli veramente

Perché alcuni regali non piacciano?

I motivi possono essere diversi: la persona può sentire di non meritarselo (tutti siamo cresciuti con il precetto dei regali come premi meritati e certe tracce possono rimanere a dispetto dell’età e del tempo) o sentirsi a disagio o in imbarazzo a riceverlo (può generare delle aspettative, fa sentire costretti a contraccambiare, riducendo così il gesto del donare a poco più che uno scambio di merce). Inoltre, essendo un oggetto che transita all’interno di una relazione tra due persone come veicolo di sentimenti, può essere percepito come un elemento affatto anonimo che entra nello spazio personale considerato non per tutti (chi lo riceve potrebbe volerlo proteggere da intrusioni e quindi essere restio sia a fare che a ricevere regali).

Qual è la differenza tra dono e regalo?

Il regalo è quasi sempre inteso come un bene materiale e non necessariamente porta con sé significati affettivi.

Il dono, invece, è un atto di vero altruismo: è dare senza volere nulla in cambio (pensate, per esempio, al gesto di “donare il sangue”). È qualcosa che si possiede e non si acquista, che ha un forte valore simbolico e affettivo, ma non necessariamente economico e non genera l’ansia di dover contraccambiare, se non quella di un grazie di riconoscenza.

Puntare sulle piccole cose potrebbe essere la scelta perfetta, non solo per evitare di riempire le nostre case di oggetti inutili, ma anche per riscoprire il valore profondo che può racchiudere un piccolo dono.

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L’obesità non rappresenta solo un problema per la salute fisica (aumentando il rischio di malattie respiratorie o cardiovascolari, diabete e tumori) ma anche per quella psicologica, a causa di uno stigma sociale che da troppo tempo accompagna questa condizione. Sempre più spesso le persone che soffrono di obesità o sono in sovrappeso vengono discriminate a causa del proprio aspetto fisico (partendo dal presupposto, non dimostrato, che l’aumento del loro peso corporeo derivi da una mancanza di disciplina e forza di volontà), non solo all’interno della famiglia ma anche in ambito scolastico, professionale e sanitario.

Ce ne parla la dottoressa Paola Mosini, psicoterapeuta di PsicoCare.

Come viene considerata l’obesità dalla società?

Molto spesso la società considera le persone che soffrono di obesità non come vittime innocenti, ma come artefici della propria malattia, personalmente responsabili dei loro problemi di peso a causa della pigrizia e dell’eccesso di cibo. Un messaggio spesso lanciato dai media, con programmi o spot che tante volte rafforzano l’idea che il peso corporeo sia unicamente sotto il nostro controllo (bastano diete e attività fisica per restare in forma).

In che modo le persone con problemi di obesità vengono discriminate sul lavoro e nella sanità?

I soggetti che soffrono di obesità (o sono in sovrappeso), vengono spesso considerati privi di forza di volontà, deboli, pigri e negligenti.

Sul posto di lavoro, i salari sono più bassi e le persone sono spesso considerate meno qualificate ed efficienti rispetto ai coetanei normopeso (soprattutto le donne).

In ambito sanitario, i medici sono meno disposti ad offrire il loro tempo all’educazione e alla formazione sulla salute, e i pazienti colpiti da discriminazione, hanno minor beneficio dai trattamenti (minori offerta di cure, ritardo nell’accesso ai servizi) e maggiori probabilità di evitare cure future (l’obesità riduce persino l’aderenza agli screening per i tumori).

Nonostante l’obesità sia una malattia cronica multifattoriale, la persona che ne soffre viene ancora colpevolizzata di esserne l’unico responsabile.

A quali conseguenze può portare lo stigma dell’obesità?

Lo stigma dell’obesità può portare ad azioni di esclusione ed emarginazione: le persone vengono prese in giro a scuola, escluse dalle attività sportive, giudicate meno efficienti sul lavoro, hanno minor possibilità di trovare un/a compagno/a, non trovare abiti alla moda e, peggio ancora, non ricevere le cure mediche adeguate.

Inoltre, come dicevamo, questo stigma può avere forti ripercussioni psicologiche, portando alla comparsa di depressione, sintomi psichiatrici, disturbo dell’immagine corporea, bassa autostima, comportamenti alimentari disfunzionali, riduzione dell’attività fisica, aumento di peso.

Come evitare lo stigma dell’obesità?

Esistono una serie di azioni che possiamo mettere in atto per contrastare lo stigma, riconoscendo, prima di tutto, che l’obesità è una malattia (determinata da fattori genetici, biologici, psicologici ed ambientali) e che ci sono prove scientifiche che lo dimostrano; riconoscendo che il pregiudizio e lo stigma violano i diritti umani e non possono essere tollerati dalla società moderna.

Per combattere questa discriminazione, è necessario condannare l’uso di linguaggi, immagini e atteggiamenti (anche da parte dei media) che possono ledere queste persone, impegnandosi a trattarle con dignità e rispetto.

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Chi soffre di shopping compulsivo non sente realmente il bisogno dell’oggetto che vuole comprare, quanto del gesto stesso dell’acquisto. Nonostante questo, il piacere di andare a fare compere, lascia spesso il posto alla tensione, al disagio, al senso di non riuscire a farne a meno, arrivando ad una condizione talvolta drammatica: la persona ha speso tutti i soldi che aveva, ha mentito ai familiari, ha utilizzato risorse di nascosto, ha omesso gli acquisti fatti.

Eppure, è difficile che questi soggetti ne siano pentiti, perché il piacere e il brivido che precedono e accompagnano l’andare a fare acquisti perdura. Ce ne parla la dottoressa Paola Mosini, psicoterapeuta di PsicoCare.

Shopping compulsivo, quali sono i sintomi da non sottovalutare?

Quando fare acquisti è un modo per coccolarsi o sentirsi appagati ogni tanto, va bene. I problemi iniziano quando il nostro modo per trovare appagamento o coccole (per migliorare la giornata e sentirci meglio) passa unicamente dall’acquisto, diventando un gesto ossessivo.

La frequenza è quindi il primo campanello d’allarme, così come la perdita di volontarietà (ci si ritrova quasi senza deciderlo con un oggetto, nonostante non si volesse o potesse acquistare) e l’eccesso (si comprano cose con prezzi superiori a quelli che effettivamente ci potremmo permettere).

Inoltre, va considerato il significato emotivo del gesto: dobbiamo stare all’erta quando è legato al bisogno e alla necessità di appagamento, di gratificazione, ad un senso di astinenza-necessità quasi fisica.

Spesso lo shopping compulsivo è associato dalla comunità scientifica ad altri disturbi come depressione, disturbo ossessivo compulsivo, disturbi d’ansia, disturbi alimentari, gioco d’azzardo patologico, cleptomania. Tra la normalità, ovvero il piacere di concedersi una coccola ogni tanto con un piccolo acquisto, e la patologia (la bancarotta, fallimento sentimentale a causa di debiti e acquisti smodati e ripetuti fra menzogne e accumulo eccessivo di oggetti inutili) troviamo i fashion victim e tante altre sfumature.

I profili psicologici dell’acquisto

Come dicevamo, i profili psicologici della persona che soffre di shopping compulsivo possono essere diversi. Presi singolarmente, possiamo distinguerli tra:

·  gli impulsivi: acquistano senza premeditazione, escono di casa per andare a spedire una raccomandata in posta e tornano con una gonna o una borsetta, prese senza nessuna valutazione circa l’utilità e/o l’entità economica. Spesso poi si pentono dell’acquisto o non lo utilizzano, perché effettivamente non ne avevano necessità e magari non corrisponde nemmeno ai loro gusti.

·  i seriali e gli accumulatori (disposofobia): si focalizzano quasi sempre sugli stessi oggetti e spesso diventano accumulatori (borse, scarpe, orologi, profumi). Alcuni non si sbarazzerebbero mai degli oggetti accumulati seppur non li utilizzino mai, come se ci fosse un legame affettivo e un vero e proprio disagio fatto di ansia e panico all’idea di non avere più l’oggetto – più del 50% di chi ha effettivamente una diagnosi di shopping patologico ha un problema di accumulo e nel DSM-V le due cose sono saldamente legate -.

·  gli emotional buyers: sono le persone che escono e vanno a fare acquisti come forma di ansiolitico, per sedare emozioni negative, come tristezza e rabbia (magari a fronte di un litigio o di una giornata storta); spesso lo fanno inconsciamente, non ne sono consapevoli. A volte, come per il cibo, il risultato sono delle vere e proprie abbuffate di acquisti, perché il gesto è determinato dal bisogno di riempirsi emotivamente, con una necessità che può andare oltre al singolo oggetto.

·  i vanitosi: l’acquisto è totalmente focalizzato all’apparire speciali, sono quelle persone che magari rimuginano sull’opportunità dell’acquisto combattendo con loro stessi per motivare la necessità di un nuovo cappotto, trovando alla fine il modo di ingannarsi, vincere le resistenze di natura economica, morale, o altro, e finalmente indossare l’oggetto desiderato. Si sentono inadeguati fino all’acquisto del capo. L’acquisto del capo dà invece un senso di onnipotenza.

·  fashion victims: soggetti che si fanno influenzare dalla spinta consumistica e pubblicitaria all’acquisto dell’ultimo modello assolutamente indispensabile, ma di fatto solamente di moda.

·  i tossici: persone che svuotano il gesto dell’acquisto del significato sociale (vanità, spinta consumistica) ed emotivo (bisogno di compensazione), ma sono letteralmente drogati del brivido che vivono nel momento dell’acquisto, simile a quello che provano i giocatori d’azzardo. Qui sono presenti tutte le caratteristiche di una dipendenza: il craving (desiderio impulsivo), l’astinenza, perdita di controllo e tolleranza – dover aumentare la “dose” per avere lo stesso effetto -.

Chi è più a rischio di shopping compulsivo?

Il 95% di chi ne soffre sono donne fra i 20 e i 30 anni,  che hanno o hanno avuto un altro disturbo della sfera emozionale come ansia, fobie, depressione. Altri fattori di rischio sono:

·  alta frequenza di eventi stressanti e avversi nella storia di queste persone (come micro e macro-traumatismi)

·  storia di Disturbo da Deficit dell’Attenzione (ADHD)

·  bassa autostima

·  basso livello culturale

·  elevata tendenza all’estroversione

·  chi vive le emozioni in apnea, con bassa consapevolezza

Infine, potrebbe essere che una rete sociale renda la gratificazione da acquisto meno necessaria, ma allo stesso tempo una vita sociale intensa potrebbe essere correlata a una bassa capacità di astrarsi da meccanismi di conformismo e bisogno di apparire.

Come faccio a capire se soffro di shopping compulsivo?

L’American Psichiatric Association non considera lo shopping compulsivo una categoria diagnostica a sé stante; tuttavia, nella sua ultima versione del DSM-V, fa tuttavia riferimento alla disposofobia (Hoarding Disorder – a volte descritto anche come Sillogomania, Accaparramento Compulsivo, Accumulo Patologico, Mentalità Messie, Sindrome di Collyer), ovvero la patologia da accumulo, all’interno della quale vi è il sottotipo specifico con acquisto eccessivo (in circa il 64% dei casi), che comprende i soggetti con una forma di disturbo più grave (esordio più precoce, sintomatologia più marcata, maggior probabilità di avere patologie in co-presenza, come ansia, depressione e altre dipendenze).

Sono stati sviluppati vari test, nella forma soprattutto di questionari, per diagnosticare il problema, ma sono tuttavia strumenti poco specifici e accurati (3 persone su 4 che risultano avere il disturbo, in realtà non lo hanno).

In effetti il fenomeno è complesso e sfumato: c’è chi, fra gli studiosi, lo associa più a un disturbo d’ansia, (compulsività), chi più a un problema degli impulsi, (impulsività), chi più a una vera e propria dipendenza, (tossicofilia).

Possiamo tuttavia citare alcune domande target con cui possiamo capire se siamo a “rischio”:

·  Quanto spesso compri cose che poi non usi?

·  Quanto spesso ti capita di dirti “ma sì, lo compro, è solo perché è un’occasione ma poi basta, è l’ultima volta”?

·  Quanto spesso fai acquisti per sentirti meglio?

·  Spendi più tempo/soldi del voluto facendo shopping?

·  Quanto spesso acquisti in modo impulsivo per poi pentirti?

Shopping compulsivo: cosa si compra?

Generalmente si comprano oggetti di cui non vi è un reale bisogno o che magari si possiedono già, che non corrispondono ai propri reali gusti personali o che sono al di fuori delle proprie possibilità economiche. Una volta acquistati perdono spesso di interesse tanto da non essere tolti dalle loro confezioni, da essere restituiti, nascosti o regalati ad altri (specie per le televendite on-line, terreno fertile per i profili “tossici” e i “fashion victims”).

Le principali spese compulsive riguardano generalmente:

·  abiti

·  scarpe

·  borse

·  gioielli

·  prodotti di bellezza

Come combattere lo shopping compulsivo?

Di seguito alcuni consigli non solo per chi soffre di una condizione già conclamata, ma anche per chi vuole trovare un modo per avere il controllo degli acquisti:

·  Non tenere carte di credito

·  Evitare lo shopping online

·  Attenzione alle offerte civetta (saldi, sconti, discount, etc)

·  Stabilire un budget

·  Prevenire è meglio che curare: imparare a emozionarsi per evitare l’acquisto emotivo.

Come si cura lo shopping compulsivo?

I singoli casi andrebbero valutati singolarmente. In base agli aspetti che più caratterizzano li caratterizzano (impulsività, compulsività, aspetti sociali-culturali-personologici, tossicofilia), per individuare trattamenti specifici.

In generale viene utilizzato un approccio psicoterapico e farmacologico.

Nel primo caso, viene preferita la Terapia Cognitivo Comportamentale; mentre dal punto di vista farmacologico, vengono somministrati farmaci ad azione anti-ossessiva e anti-impulsiva per gestire al meglio l’impulsività spiccata, la tossicofilia per l’acquisto, la tendenza all’accumulo e favorire l’effetto della psicoterapia.

Infine, possono essere adottate tecniche meditative, come la mindfulness, per aiutare a migliorare l’autocontrollo e quindi integrarsi con le terapie descritte.

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La sindrome premestruale (SP) è un disturbo caratterizzato da sintomi fisici e psicologici che tendono a comparire nei quattro giorni che precedono le mestruazioni. Disturbi lievi che tuttavia, in alcuni casi (dal 3 al 9%), possono aggravarsi, portando al disturbo disforico premestruale (DDP). Una patologia severa caratterizzata da una sintomatologia più acuta – specie a livello psicologico – che può arrivare a compromettere la qualità della vita della paziente. Di cosa si tratta esattamente e come può essere curata? Lo abbiamo chiesto al dott. Domenico De Donatis, psichiatra di PsicoCare.

Quali sono i sintomi della sindrome premestruale?

Nella maggior parte delle donne con ciclo mestruale regolare, la sindrome premestruale si manifesta con sintomi lievi, come:

·  gonfiore

·  abbassamento del tono dell’umore

·  stanchezza

·  irritabilità

·  ansia

Tuttavia, come dicevamo, possono presentarsi anche manifestazioni a livello fisico, con: 

·  mal di testa

·  dolore e gonfiore al seno

·  indolenzimento ai muscoli

·  aumento della fame o voglia di alimenti specifici

·  disturbi del sonno (dormendo più della norma o avere un sonno disturbato)

o psicologico:

·  stati depressivi con sensazione di tristezza e tendenza al pianto

·  sbalzi d’umore

·  difficoltà di concentrazione

·  sentirsi sopraffatti dalle cose

·  tendenza a ritirarsi socialmente

Come si manifesta il disturbo disforico premestruale?

Il disturbo disforico premestruale ha sintomi simili alla sindrome premestruale ma di intensità maggiore.

Le manifestazioni di natura psicologica diventano più acute con profondi stati depressivi che spesso portano la persona a sentirsi sopraffatta e ad isolarsi, con un impatto negativo sul lavoro, sulla scuola, nelle relazioni o nella semplice routine quotidiana.

Come vengono diagnosticati questi disturbi?

Lo psicoterapeuta, attraverso un colloquio psicologico, valuta l’intensità e la durata della sintomatologia riferita dalla paziente (in determinati casi, può richiedere la compilazione di un diario giornaliero, dove la paziente dovrà prendere nota ogni giorno – per circa due mesi – dei sintomi psicologici e fisici che si manifestano) per poi prescrivere la terapia più adatta al singolo caso.

Come si cura la sindrome premestruale?

La sindrome premestruale può essere trattata mettendo in pratica alcune buone abitudini – da seguire tutto il mese, non solo nel periodo che precede il ciclo – che consentano di mantenere una vita attiva ed equilibrata, sia dal punto di vista fisico che psicologico:

·  svolgendo attività fisica regolarmente

·  non esagerando con i pasti abbondanti

·  riducendo il contenuto di sale nei piatti (specie se la paziente soffre di gonfiore)

·  praticando esercizi di rilassamento o attività che favoriscono la concentrazione mentale, come lo yoga

Nel caso di mal di testa o dolore muscolare, possono essere prescritti farmaci antinfiammatori o la pillola anticoncezionale per alleviare i sintomi (esclusivamente su prescrizione dello specialista ginecologo in accordo con lo psicoterapeuta). 

Come trattare il disturbo disforico premestruale?

Essendo caratterizzato da sintomi psicologici acuti, specie di natura depressiva, il disturbo disforico premestruale può necessitare di una terapia farmacologica mirata con farmaci della classe SSRI, utilizzati proprio nel trattamento di ansia e depressione.

Tuttavia, insieme a questa terapia, è necessario che la paziente segua gli stessi consigli utili per trattare la sindrome premestruale.

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Praticare attività fisica con regolarità, contribuisce a migliorare enormemente il benessere psicofisico, aiutando non solo a prevenire molte malattie e mantenerci in salute, ma anche a moderare lo stress, l’umore, a combattere ansia e depressione. Non è necessario essere un atleta professionista. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce attività fisica «qualsiasi movimento corporeo prodotto dall’apparato muscolo-scheletrico che richiede dispendio energetico», includendo anche tutte quelle attività che vengono praticate nella vita di tutti i giorni, al lavoro o nel tempo libero.

La dott.ssa Elisa Morrone, psicologa e psicoterapeuta presso i centri Humanitas Medical Care di Domodossola e De Angeli a Milano, ci spiega il motivo.

Che effetti ha lo sport sul benessere psicologico?

I benefici dello sport sul benessere mentale sono diversi. Innanzitutto, l’esercizio fisico influisce sui livelli di serotonina, il cosiddetto “ormone del buon umore”, e permette al cervello di rilasciare endorfine, riducendo i livelli stress. Aiuta ad aumentare l’attenzione, l’autocontrollo e il problem solving; migliora la percezione del proprio stato di salute fisico, ci permette di dormire meglio e sentirci più riposati, consente di passare più tempo all’aria aperta e non pensare a ciò che ci preoccupa. Ma non solo: lo sport può aiutarci a migliorare lo sviluppo cognitivo, la creatività e la concentrazione; richiede la definizione di obiettivi,e il raggiungerli aumenta l’autostima e la fiducia in sé stessi, verso gli altri e l’auto-affermazione.

Infine, la partecipazione agli sport di squadra migliora la resilienza, l’empatia, e le abilità sociali.

Quali condizioni mentali beneficiano maggiormente dello sport?

Lo sport può avere molti benefici sulla salute mentale. Fare una passeggiata prima di tornare a casa dopo una dura giornata di lavoro, può aiutare a gestire lo stress sia acuto che cronico, mentre un esercizio breve e intenso, come 20 minuti di spinning (quando le condizioni mediche lo consentono), può dare una mano a gestire la rabbia

Tuttavia, sono i pazienti con depressione a beneficiare maggiormente dell’attività sportiva. Uno studio pubblicato nel 2018 sull’effetto della fluoxetina (un antidepressivo molto utilizzato) e dell’attività sportiva sulla funzionalità cerebrale, ha concluso che entrambi stimolano l’attività neuronale dell’ippocampo (la principale struttura coinvolta nella memorizzazione e nell’apprendimento che svolge anche un ruolo importante nella gestione e comprensione delle emozioni), aumentando la produzione di nuove cellule.

Quanto sport devo fare per avere un benessere mentale?

È totalmente soggettivo, solo noi possiamo renderci conto di quanta attività fisica svolgere per sentirci bene, l’importante è non esagerare: il nostro organismo, in ogni sua funzione, ha dei limiti che dobbiamo imparare a conoscere e rispettare.

Quale sport scegliere per il benessere mentale?

Gli sport di gruppo portano sicuramente molti vantaggi, sia perché ci consentono di socializzare e metterci in gioco, sia perché ci permettono di vincere le difficoltà legate magari al gruppo, al giudizio, ci può aiutare a vincere la nostra introversione. Raggiungere gli obiettivi insieme al gruppo ci fa sentire parte di un sistema che funziona e che, proprio perché funzionale, ci fa stare bene senza esagerare.

L’attività fisica di gruppo organizzata e gestita da un allenatore aiuta molto nel superare quelle barriere di disagio psicologico

Attenzione alla dipendenza dallo sport, verso la quale forse i modelli che seguiamo ci portano. Le caratteristiche di tale dipendenza sono quelle di tutte le dipendenze: ansia quando si salta l’allenamento, controllo persistente dell’attività svolta, incapacità di concentrarsi su altro per via del pensiero fisso allo sport, il continuare a voler sfidare il proprio limite e fare sempre di più aumentando il livello di intensità.

L’importante è fermarsi quando ci si sente affaticati, quando il nostro pensiero è sempre o spesso alla palestra, al fisico, alle sfide e chiedere aiuto. 

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La dislessia fa parte dei cosiddetti “disturbi specifici dell’apprendimento (DSA)”, ovvero disturbi del neuro-sviluppo che riguardano la capacità di leggere, scrivere e calcolare in modo corretto.

Tende a manifestarsi più spesso nei primi anni di scuola elementare con difficoltà nella lettura e scrittura (i bambini invertono o sostituiscono le lettere, come la f con la v, la m con la n, la a con la e, la p con la q, oppure omettono lettere, parole o numeri), nella comprensione del testo o nell’apprendere alcune attività (come leggere l’ora o allacciarsi le scarpe).

Tuttavia, la dislessia (come tutti i disturbi dell’apprendimento) può essere diagnosticata anche tardivamente quando, con l’avanzare della scolarizzazione, aumentano le richieste prestazionali sul piano della lettura, della scrittura e del calcolo.

Riconoscerla è fondamentale per aiutare queste persone non solo nella vita di tutti i giorni ma anche nel mondo del lavoro. La dislessia, infatti, può accompagnare la persona anche nell’età adulta.

Ce ne parla la dott.ssa Marcella Mauro, psicologa dell’apprendimento presso l’ambulatorio Humanitas Medical Care Domodossola a Milano e specialista di PsicoCare.

Come riconoscere la dislessia negli adulti? 

La dislessia negli adulti può manifestarsi in diversi modi. Per esempio, alcune persone leggono molto lentamente, senza tuttavia commettere errori di decifrazione; altre leggono più velocemente ma con un’accuratezza inferiore  (devono autocorreggersi continuamente, hanno esitazioni, fanno errori di anticipazione basati sulla prima sillaba della parola che penalizza la comprensione del testo).

Inevitabilmente l’affaticamento durante la decodifica, più o meno importante, porta ad un evitamento della lettura; infatti, molti dislessici adulti, anche se migliorati nel tempo, provano poco piacere a leggere o continuano ad avere problemi a leggere ad alta voce.

Nel parlato, invece, la persona può avere:

·   Problemi nell’eloquio (mancanza di scioltezza e di un linguaggio preciso)

·   Difficoltà a pronunciare nomi di persone e luoghi in modo corretto (la persona inciampa su parti di parole) o a ricordare (il soggetto tende a confondere nomi che hanno lo stesso suono)

·   Difficoltà a recuperare le parole (ha spesso momenti in cui dice “mmh come si chiama? Ce l’ho sulla punta della lingua”)

·   Un vocabolario parlato inferiore al vocabolario di comprensione

·   Fatica nell’acquisizione delle lingue straniere, in particolare nello scritto

Nella vita scolastica universitaria, la persona dislessica tende ancora a sentirsi incapace o si preoccupa che i compagni la giudichino tale, è penalizzata dai test a risposta multipla; impiega più tempo per lo studio. Nella quotidianità può faticare ad eseguire correttamente i compiti amministrativi routinari (per esempio, confonde giorni e orari), a ricordarsi le strade percorse più volte, a confondere destra e sinistra.

Nell’ambiente di lavoro, la persona dislessica:

·   Evita di leggere ad alta voce durante le riunioni

·   Evita di parlare in pubblico quando possibile

·   Deve leggere più volte le e-mail prima di comprenderle

·   Ha difficoltà di fronte ai caratteri tipografici non familiari o ai materiali scritti a mano

·   Fa eccessivo affidamento sul controllo ortografico e su altri strumenti di scrittura informatizzati

·   Si annoia o si distrae facilmente durante la lettura di documenti lunghi

·   Non apprezza il lavoro amministrativo, come la compilazione di moduli ripetitivi

·   Cerca strategie di coping per nascondere le difficoltà ai colleghi

Quali sono i punti di forza della persona dislessica?

Come dicevamo, spesso le persone dislessiche, compensano con altri punti di forza:

·   Hanno un’elevata capacità di apprendimento

·   Mostrano un notevole miglioramento nelle prestazioni quando gli viene concesso del tempo aggiuntivo (soprattutto per gli esami a scelta multipla)

·   Dimostrano eccellenza quando si concentrano su un’area altamente specializzata più vicina ai loro interessi (come la medicina, le politiche pubbliche, la finanza, l’architettura o le scienze di base)

·   Hanno buone capacità di scrittura se l’attenzione è rivolta al contenuto e non all’ortografia

·   Riescono ad esprimere bene di idee e sentimenti;

·   Hanno un’ottima empatia con le persone 

·   Hanno una buona memoria visiva 

·   Hanno un’inclinazione a pensare fuori dagli schemi e a vedere il quadro d’insieme 

·   Dimostrano una notevole resilienza e capacità di adattamento

Come viene trattata la dislessia negli adulti?

Non esistono farmaci in grado di trattare o curare la dislessia, in quanto è semplicemente una caratteristica neurobiologica. Si offrono alla persona strumenti e strategie utili per facilitare la lettura, la scrittura e altre abilità che sono influenzate da questo disturbi, come computer, registratori digitali e smartphone.

In questo modo, liberandosi di alcuni sforzi per loro necessari, possono concentrarsi sulle parti del lavoro che sanno fare meglio.

Può lavorare una persona dislessica?

Certamente. Inoltre, la legge 25/2022 del 29 marzo 2022, ha introdotto i diritti fondamentali per le lavoratrici e i lavoratori con disturbi specifici dell’apprendimento, aiutando queste persone a sfruttare al meglio i propri punti di forza e a ridurre al minimo le difficoltà che potrebbe incontrare a causa della dislessia.

Un traguardo importante per più di un milione di lavoratori italiani che hanno così la possibilità di dichiarare liberamente la propria condizione, di chiedere e poter accedere all’uso di tutti gli strumenti compensativi (come il computer con sintesi vocale, la calcolatrice, schemi e formulari oltre a tempo aggiuntivo per i test di selezione scritti) per poter lavorare meglio.

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