I ricercatori dell’Università di Tel Aviv (Tau), in uno studio pubblicato sulla rivista Journal of Clinical Medicine che ha coinvolto 227 bambini tra i 4 e i 12 anni, sostengono che esiste un’alta probabilità che a causa di molte diagnosi errate, tanti pazienti che soffrono di disturbi del sonno ricevono farmaci per il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Adhd). Quali possono essere le conseguenze e come è possibile distinguere questi disturbi?

Ce ne parlano le dott.sse Elisa Morrone e Marcella Mauro di PsicoCare, insieme il dottor Alberto Braghiroli, pneumologo presso gli ambulatori Humanitas Medical Care e coordinatore del Centro di Medicina del Sonno di Humanitas Mater Domini. 

Che cosa evidenzia lo studio?

Lo studio evidenzia che:

·  i bambini che soffrono di disturbi respiratori durante il sonno ricevono farmaci per l’iperattività con una frequenza sette volte superiore rispetto ai piccoli che non soffrono di problemi respiratori notturni;

·  vi è una correlazione tra il disturbo e i sintomi del sonno discontinuo, risultato sei volte superiore rispetto ai bimbi senza diagnosi di Adhd;

·  respirare dalla bocca è un’abitudine presente con una frequenza cinque volte maggiore;

·  il russare appare triplicato tra i piccoli pazienti che hanno ricevuto una diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

Da cosa è caratterizzato l’Adhd e come viene diagnosticato?

“La diagnosi di ADHD”, spiega la dott.ssa Marcella Mauro, “si concentra principalmente sui fenomeni osservabili durante la veglia. In breve, il bambino manifesta tipicamente disattenzione e/o  iperattività/impulsività, ma non solo. Altri sintomi comuni nell’Adhd sono:

·      Irritabilità e temperamento caldo

·      Scarsa capacità di gestione del tempo

·      Problemi a seguire o completare un’attività

·      Ridotta tolleranza allo stress

·      Disorganizzazione

·      Problemi di concentrazione

·      Disattenzione

Questi sintomi hanno un impatto importante nell’ambito educativo: scarso rendimento scolastico, difficoltà sociali, di relazione. 

Inoltre, in fase adolescenziale, il disturbo è associato a disturbi dell’umore, ansia e abuso di sostanze.

La mancanza di sonno influisce su una parte del cervello chiamata corteccia prefrontale. Questa regione è responsabile di importanti funzioni di apprendimento come la memoria di lavoro. Quando non si dorme abbastanza, il cervello non funziona bene e si fa fatica a prestare attenzione e a elaborare le informazioni”.

Qual è la correlazione tra disturbi del sonno e Adhd?

“La sintomatologia dell’ADHD”, spiega la dott.ssa Elisa Morrone, “può disturbare il sonno del bambino che può far fatica ad addormentarsi, avere una scarsa qualità del sonno o non riuscire a dormire ore sufficienti per riuscire a riposarsi. Fattori che a loro volta possono provocare sintomi molto simili all’ADHD durante il corso della giornata. 

Contrariamente agli adulti, un bambino assonnato o privato del sonno può mostrare comportamenti iperattivi, impulsivi, disattenti e distruttivi. È sempre importante indagare con i genitori quali sono le abitudini di sonno del bambino, quante ore dorme per notte, se russa, se dorme con la bocca aperta, se è proprio alla sera che diventa più faticoso da gestire, perchè sono tutti campanelli d’allarme che devono portarci a sospettare anche un disturbo del sonno. Dobbiamo ricordare anche che durante la notte produciamo l’ormone della crescita, fondamentale soprattutto per i bambini: i bambini che dormono poco, che hanno un problema respiratorio avranno un ritardo nella crescita in termini di altezza ma anche una maturazione cerebrale più lenta”. 

Come vengono diagnosticati i disturbi del sonno nei bambini con Adhd?

“La diagnosi dei disturbi del sonno nei bambini”, spiega il Dott. Alberto Braghiroli,  parte da una accurata anamnesi fatta insieme ai genitori e si conclude con la scelta dello strumento più adeguato per la diagnosi, il più delle volte la poligrafia che permette di identificare la gravità del russamento, la presenza di apnee durante la notte e quindi avere un quadro completo del disturbo. 

La poligrafia è un esame semplice che il bimbo esegue a casa con la sorveglianza dei genitori che devono semplicemente fare attenzione che i sensori non si stacchino o si muovano nel corso della notte”. 

Come vengono trattati i disturbi del sonno nei bambini con Adhd?

Il trattamento possiamo dire dipende dall’età del bambino, ma generalmente il primo trattamento è di tipo chirurgico, mirato a togliere le tonsille e le adenoidi. Nei bimbi un po’ più grandi si può pensare a dei dispositivi che modificano la conformazione del palato, quindi della bocca, per facilitare il passaggio dell’aria.  

“È importante, spiega la dott.ssa Mauro, “intervenire inoltre sullo stile alimentare e di vita. In primo luogo, stabilire delle buone abitudini in modo che il bambino possa riposare a sufficienza ogni notte. Ad esempio: 

  • Stabilire un orario regolare per andare a letto e per studiare, 
  • Definire dei limiti al tempo trascorso sullo schermo. I bambini di tutte le età, ma anche gli adulti, dovrebbero interrompere l’uso dello smartphone o del tablet almeno un’ora prima di andare a letto. 
  • Creare un ambiente tranquillo per il sonno: rendere le camere da letto fresche, buie e silenziose per favorire un sonno riposante.
  • Seguire una buona alimentazione e fare esercizio fisico. Una dieta sana e un’attività fisica regolare possono migliorare il sonno e aiutare il bambino a concentrarsi a scuola. Gli studenti dovrebbero anche ridurre la caffeina”.

Come si manifestano generalmente i disturbi respiratori durante il sonno?

Questi disturbi si manifestano principalmente con il russare (tra l’8% e il 27%) e/o le apnee. Condizioni che causano una mancanza transitoria di ossigeno nel sangue, con conseguenze importanti per il bambino: compromettono i processi di crescita e sviluppo che avvengono durante il sonno; causano disturbi cognitivi e comportamentali durante la veglia (come difficoltà di apprendimento, iperattività, stanchezza e mancanza di concentrazione), molto simili alle caratteristiche dell’Adhd, il che porta spesso a una diagnosi errata e al trattamento con farmaci inefficaci e con effetti collaterali piuttosto conclamati.

Per questo i ricercatori invitano “i genitori di bambini che russano o che hanno difficoltà respiratorie durante il sonno, scarsi livelli di vigilanza durante il giorno e problemi di comportamento, a chiedere al proprio medico di fiducia di svolgere ulteriori accertamenti per giungere ad una corretta diagnosi”.

In che modo questa diagnosi errata può peggiorare la situazione?

“La diagnosi corretta deve essere la base per la scelta del trattamento”, spiegano le dott.sse Elisa Morrone e Marcella Mauro e il dottor Alberto Braghiroli, “una diagnosi errata o una diagnosi ‘a metà’ non aiuterà il bambino a crescere nel modo corretto. Il sonno è fondamentale per il nostro organismo, e a maggior ragione per l’organismo di un piccolo che è nella fase di crescita; non trattare un disturbo del sonno significa chiedere al bambino di vivere con metà delle capacità che può avere: fatica nel raggiungere gli obiettivi, stigma sociale perchè bambino difficile e complicato,  rischio di ritiro sociale e disturbi dell’umore da grande”, concludono gli specialisti.

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Lo psicologo svedese Dan Olweus, esperto in materia, definiva il bullismo come comportamento aggressivo intenzionaleazioni “vessatorie” persistenti nel tempo; uno squilibrio di forza/potere nella relazione, dove la vittima è incapace di difendersi.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto superiore di Sanità, in Italia, circa il 15% degli adolescenti ne è stato vittima almeno una volta nella vita. Di cosa si tratta e quali conseguenze può avere?

Ne abbiamo parlato con la dott.ssa Ylenia Canavesio, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva di PsicoCare.

Come si può manifestare il bullismo?

Il bullismo può manifestarsi in diversi modi e verificarsi ovunque (a scuola, nei centri di aggregazione, a casa o sul web), tramite:

·  attacchi fisici (calci, percosse e spintoni)

·  attacchi verbali (insulti, prese in giro, minacce e altre forme di intimidazione o esclusione)

·  vessazioni indirette (diffondere voci ed esclusione sociale)

Generalmente, il bullo tende ad agire di nascosto, lontano dagli occhi e dal controllo degli adulti, anche se spesso cerca degli spettatori (i pari) che possano ammirare la sua condotta.

Cosa si intende per cyberbullismo?

Il cyberbullismo è una nuova forma di bullismo che utilizza Internet e le tecnologie digitali per manifestarsi con un impatto ancor più forte.

Una volta, infatti, il bullo era confinato soprattutto a scuola, oggi invece, grazie alle potenzialità e alle risorse offerte dalle app di messaggistica e dai social media, può arrivare ovunque, in qualsiasi momento, con un accesso costante alle vittime, senza limiti di tempo e spazio.

Inoltre, il cyberbullismo fornisce l’anonimato al bullo, allenta molti freni inibitori, indebolendo le remore etiche e amplificando la ferocia dell’aggressione (i bulli non possono vedere le reazioni delle loro vittime, per questo c’è meno rimorso e risulta più facile infliggere dolore e sofferenza agli altri).

Chi è più a rischio di bullismo?

Gli studi recenti affermano che il bullismo raggiunge un picco tra gli 11 e i 13 anni (coinvolgendo entrambi i sessi allo stesso modo) per poi diminuire man mano che i ragazzi crescono.

Quali sono le cause del bullismo?

Le cause che portano al bullismo non sono sempre facili da individuare e nella maggior parte dei casi hanno un’origine profonda. Possono essere legate a sentimenti di gelosia, invidia o inadeguatezza da parte dell’autore di questi gesti, derivare da problemi di gestione della rabbia o da una difficoltà a controllare gli impulsi.

Generalmente, il bullo è un soggetto fragile, sofferente, il cui comportamento è il riflesso di questa fragilità.

I ragazzi possono fare i bulli per differenti ragioni:

·   per sentirsi potenti e avere il controllo della situazione e stabilire un dominio sociale;

·   per affrontare sentimenti di rabbia o paura;

·   per assecondare la pressione dei pari;

·   perché hanno poche competenze sociali e capacità di autocontrollo;

·   per affrontare problemi di autostima e fiducia;

·   perché sono stati essi stessi vittime di bullismo o di violenza.

Che differenze ci sono tra bulli maschi e femmine?

La differenza principale tra maschi e femmine è nel modo in cui viene messo in atto il comportamento disfunzionale: i ragazzi sono per lo più protagonisti di aggressioni dirette e fisiche; le ragazze, invece, tendono a ferire gli altri attraverso la prevaricazione e la violenza psicologica, colpendo così la sfera più intima della vittima.

 Chi sono i bullizzati?

Bambini insicuri che acconsentono facilmente alle richieste del bullo e che non sempre sono in grado di farsi valere o denunciare: secondo le statistiche di Indicators of School Crime and Safety (2018), solo il 20% dei bullizzati denuncia gli episodi di bullismo scolastico per vergogna, timore di sentirsi deboli o paura di peggiorare la situazione.

Cosa possono fare i genitori?

La prima cosa che un genitore può fare è quella di prestare attenzione ad eventuali segnali di cambiamento nel bambino, sia dal punto di vista fisico che psicologico e comportamentale. Essere vittima di bullismo, infatti, può portare a ripercussioni e vissuti psicologici profondi, specie per chi soffre in silenzio, tenendosi tutto dentro, per paura di denunciare l’accaduto. Un malessere che in certi casi può condurre alla comparsa di sintomi psicosomatici (come risposta fisica ad un disagio psicologico) o ad una sintomatologia più importante a lungo termine.

La vittima di bullismo può manifestare:

·   maggior stress o ansia, come agitazione, difficoltà legate al sonno, disattenzione o scoppi d’ira

·   veri e propri sintomi fisici, come cefalea, vomito e mal di pancia senza che sia presente un reale riscontro medico di malattia

·   calo improvviso del rendimento e a un impoverimento delle relazioni con i compagni (a scuola)

Tuttavia, non sempre le vittime di bullismo mostrano esplicitamente il disagio vissuto.

Tale sofferenza non è però unidirezionale. Secondo uno studio condotto dall’Association for Psychological Science i danni psicologici che si ripercuotono sulle vittime di bullismo spesso riguardano anche i bulli che hanno maggiori probabilità di soffrire durante l’età adulta.

Come si può contrastare il bullismo?

La famiglia e gli educatori rivestono un ruolo chiave nella lotta contro il bullismo. Il primo passo potrebbe essere quello di:

·   allenare le abilità sociali e relazionali e i comportamenti prosociali dei bambini (per esempio, insegnando l’empatia e la cooperazione tra pari ma anche assertività, gestione dei conflitti e delle paure relazionali);

·   aiutare i bambini di sviluppare fiducia nelle proprie capacità, rinforzando le loro qualità, insegnandogli ad accettare le loro fragilità e insicurezze come fatti normali e non diminutivi;

·   condividere in famiglia un sistema di valori basato sull’ascolto, sul rispetto dell’altro e sulla valorizzazione delle differenze.

Sono risultati fondamentali i progetti di prevenzione a supporto di quei bambini che già alla scuola dell’infanzia sono a rischio di isolamento e vittimizzazione.

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I trattamenti aggressivi, il dolore, i sintomi avversi, le limitazioni funzionali, l’incertezza sul futuro, sono solo alcuni degli aspetti che accompagnano la diagnosi di cancro. 

Nei pazienti allo stadio iniziale, subentra anche il timore di recidiva e metastasi; mentre nei soggetti che si trovano già in stadi avanzati, la certezza che la loro vita stia per finire.

Così, oltre alla malattia subentrano disturbi dell’umore e da stress post-traumatico, ansia, depressione, angoscia. “Perché proprio a me?” è una delle prima domande che sorge spontanea. Accettare questa diagnosi non è sempre facile, anzi, non lo è per niente. Tuttavia, l’accettazione del cancro gioca un ruolo fondamentale nell’adattamento psicologico alla malattia. Ce ne parla il dott. Giacomo Calvi Parisetti, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Quali sono gli stravolgimenti che porta con sé la diagnosi di cancro?

Il cancro è uno degli eventi più traumatici e stressanti con il quale può confrontarsi una persona, in quanto si tratta di un processo incontrollabile che invade il corpo e la mente, li trasforma e li conduce, in vari casi, alla morte (Grassi e al., 2003).

Gli effetti della malattia oncologica sono diversi e possono inficiare il paziente a diversi livelli tra loro interconnessi. Nello specifico, i principali effetti del cancro sull’individuo sono i seguenti:

  • A livello fisico: il corpo del malato subisce trasformazioni e modifiche anche violente per gli effetti delle terapie (dolore, mutilazioni, nausea, vomito, perdita di capelli, debolezza). Questi cambiamenti possono compromettere la qualità della vita quotidiana, rendendo l’individuo dipendente dall’aiuto degli altri e facendolo sentire impossibilitato nel vivere a pieno la vita in autonomia.
  • A livello psicologico: la persona si sente insicura, instabile, limitata nella propria libertà, teme la sofferenza, la morte e l’ignoto. La malattia modifica oltre al corpo anche la mente del paziente, costringendolo a un adattamento forzato alla nuova situazione.
  • A livello relazionale: nel paziente viene intaccato e minacciato il senso di appartenenza ai sistemi sociali (micro, come la famiglia e la cerchia di amici stretti, e macro, come il lavoro e la vita di comunità).
  • A livello spirituale: a questo livello, s’intende il senso dato dall’individuo alla vita e alla propria esistenza, questo è sperimentato con un forte coinvolgimento e molte domande vengono autoimposte, in un gioco di dolore, colpa e morte (Frankl, 1984).

Il passaggio dalla salute alla malattia va compreso per ogni singola persona, supportandone l’elaborazione nel tempo rispettandone la naturale evoluzione a livello emotivo: nella maggior parte dei casi si osservano infatti, una fase di allarme pre-diagnostico, una fase acuta ed una fase elaborativa, seguite o dalla guarigione, oppure dalla recidiva, fino agli esiti infausti (Grassi et al., 2003).

Come ci si può sentire dopo la diagnosi di cancro?

Subito dopo la fase di diagnosi e comunicazione della stessa, i pazienti affrontano la “fase terapeutica” in cui inizia il percorso di cura medica effettiva.

In questa fase, il paziente entra in ospedale e può vivere una sensazione di perdita della propria identità personale, fondendosi e cristallizzandosi con la malattia in atto (Torta & Mussa, 2014): oltre all’impatto con la struttura ospedaliera, la persona deve confrontarsi anche con gli effetti delle diverse terapie, che hanno conseguenze psicologiche differenti le une dalle altre.

L’intervento chirurgico viene vissuto sia come fonte di speranza, sia con un sentimento di ansia ed angoscia per le possibili conseguenze a livello di alterazioni dell’immagine corporea e per le mutilazioni che può comportare; la chemioterapia, d’altra parte, viene vista in modo ambivalente come portatrice di speranza di guarigione, oppure come un segnale di incertezza di un risultato positivo (Casali e Licitra, 2002).

È importante che il paziente venga informato sugli aspetti positivi e quelli negativi di ogni terapia e che possa partecipare alle decisioni che lo riguardano con consapevolezza.

Come si può reagire alla malattia?

Successivamente alla fase terapeutica, ed in generale, rispetto alla malattia oncologica, si possono osservare diverse reazioni.

Il paziente, in risposta alla malattia è mosso a cercare nuovi significati relativi sia a sé stesso sia alla malattia passando spesso attraverso periodi di attesa ed incertezza, come in un limbo, dal momento che egli non ha la certezza di essere salvo: alcuni individui adottano un atteggiamento difensivo razionale non manifestando ciò che provano (“thinkers”), altri adottano uno stile centrato sul confronto diretto (“confronters”), altri ancora si lasciano invadere da quello che provano (“feelers”) ed altri invece cercano di sfuggire al problema (“avoiders”) (Parkes, & altri, 1996).

Per quanto riguarda le modalità di reazione dei pazienti alla malattia (stili di coping), possiamo osservare cinque tipologie diverse (Greer et al., 1979; Morris et al. 1985; Greer & Watson, 1987):

  • Spirito combattivo: risposte di confronto, affrontano la malattia come una sfida; ansia e demoralizzazione congrue alla situazione; alta compliance ed adesione alle terapie;
  • Fatalismo: bassi livelli di ansia e depressione, scarso controllo percepito sugli eventi, rassegnazione;
  • Preoccupazione ansiosa: alti livelli di ansia, ricerca costante di rassicurazioni, ricerca di pareri medici o, al contrario, fuga da essi;
  • Disperazione-inermità: alti livelli di ansia e depressione, scarse strategie cognitive e controllo sugli eventi, scarsa compliance, rinuncia;
  • Evitamento: scarsi livelli di ansia e depressione, concentrazione su altri aspetti della vita, scarso confronto, ridotta compliance.

Perché accettare la malattia e quali sono le differenze tra accettazione e rassegnazione?

Rassegnarsi alla diagnosi di cancro significa considerare la malattia come un destino già scritto, che non si può cambiare o controllare, significa arrendersi e non lottare più per una vita appagante, scegliendo di vivere la malattia in modo passivo, rimanendo impotenti di fronte ad essa. Accettarla, al contrario, è la base per il cambiamento e l’adattamento alla malattia. Implica un atteggiamento attivo in cui aumentiamo la nostra consapevolezza e prendiamo maggiormente coscienza della nostra situazione e ciò che ne consegue in tutte le sue sfaccettature dall’ambito medico, a quello psicologico ed emotivo, passando per quello familiare, sociale e lavorativo. L’accettazione, come presa di coscienza di una situazione nuova, per quanto difficile ed avversa possa essere, favorisce in maniera esponenziale un cambiamento pro-attivo, con numerosi benefici relativi al miglioramento della qualità di vita, all’iter terapeutico e all’aderenza alle cure.

Che aiuto può offrirmi lo psicologo psicoterapeuta?

La letteratura scientifica è concorde nell’affermare che, nei pazienti oncologici, il supporto psicologico e sociale porti a un migliore della qualità di vita e del loro decorso della malattia e che, al contrario, la presenza di problematiche emotive conduca ad un peggioramento del quadro clinico del paziente (Boere et. al, 1999; Chida et. al, 2008).

Il paziente oncologico necessita di una presa in carico globale, con interventi diretti ad obiettivi differenti: centrale è l’intervento sul paziente, per contenere il suo stato di sofferenza, aiutarlo a sviluppare comportamenti più adattivi, favorire le comunicazioni tra soggetto, medico e famiglia, restituire al paziente ed alla sua famiglia il senso del futuro e spiegare il peso delle variabili psicologiche sullo sviluppo e la manifestazione delle malattie fisiche (Torta, 2007). Collocandosi nel campo del supporto specialistico, gli interventi psico-oncologici, inducono significative riduzione dei livelli di ansia, depressione e distress, migliorando così la qualità della vita dei pazienti (Kissane et al., 2004; Linden et al., 2011).

Gli obiettivi degli interventi psicologici in ambito oncologico sono (Fawzy, 1995):

  • Diminuzione del vissuto di isolamento, del senso di impotenza, della perdita di speranza;
  • Riduzione della preoccupazioni relative al trattamento;
  • Riduzione dei livelli di ansia e depressione;
  • Consulenza per il chiarimento relativo a dubbi e/o informazioni errate;
  • Responsabilizzazionè nei confronti dei processi di cure e di guarigione;
  • Miglioramento della compliance;
  • Miglioramento della qualità di vita;
  • Creazione e ottimizzazione di strategie di coping adattive.

Gli interventi psicologici si dividono quindi in counseling e psicoterapie (a livello individuale, familiare o di gruppo), principalmente con approccio cognitivo-comportamentale e/o psicodinamico; inoltre sono ampiamente utilizzati interventi di tipo psicoeducazionale, i quali hanno l’obiettivo di chiarire ed informare i pazienti sulle proprie condizioni fisiche, i trattamenti e gli effetti collaterali, spiegare le reazioni emozionali più frequenti ed i problemi che possono essere incontrati nei vari ambiti di vita (Torta, & Mussa, 2014) ed incoraggiare la comunicazione rispetto alla malattia ed al disagio emotivo.

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Il primo venerdì di febbraio viene celebrata la Giornata dei calzini spaiati, una ricorrenza – nata in una scuola elementare di Terzo di Aquileia (Udine) da un’idea della maestra Sabrina Flapp – in cui vengono celebrate le diversità, l’accettazione degli altri, il rispetto reciproco, l’inclusività e la solidarietà. Chiunque può aderire. Per farlo è sufficiente indossare un paio di calzini spaiati. A scuola, a casa, al lavoro.

Ce ne parla il dott. Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Cosa significa mettere i calzini spaiati?

Nessun paio di calzini è perfettamente uguale all’altro, così come nessuno di noi è esattamente uguale agli altri. Indossare calzini spaiati, è una metafora delle diversità che in questo caso vuole sottolineare come piccole differenze di una calza – colore, fantasia, tessuto o lunghezza – non siano comunque sufficienti ad alterarne la natura: in qualsiasi modo la indosseremo rimarrà sempre e comunque un calzino.

Proprio come i calzini sono disponibili in vari colori, stili o modelli, anche le persone possono essere differenti tra loro, pur rimanendo delle persone. Il gesto di indossare due calze differenti ci incoraggia così ad abbracciare queste piccole differenze, spingendoci ad una maggiore accettazione degli altri.

Si tratta di un atteggiamento che contribuisce inoltre a creare un mondo in cui ogni persona può essere orgogliosa delle proprie caratteristiche e peculiarità, senza avere la paura di essere giudicata o discriminata perché diversa da un’altra. È un modo per celebrare l’unicità del singolo individuo in quanto elemento di arricchimento.

Perché è importante accettare le diversità?

Il concetto di diversità include accettazione e rispetto. Significa comprendere che ogni persona è unica, significa riconoscere le differenze individuali (etnia, genere, aspetto fisico, orientamento sessuale, credenze religiose o politiche, stato socioeconomico, etc) andando oltre la semplice tolleranza, per abbracciare e celebrare la diversità di ogni singolo individuo, costruendo alleanze (caratterizzate da rispetto reciproco) al di là delle differenze, lavorando insieme per sradicare tutte le forme di discriminazione.

Perché è importante l’inclusione?

L’inclusività è essenziale in quanto significa, primariamente, il riconoscimento delle differenze: il soggetto non viene totalmente assorbito da una “media” di funzionamento della popolazione generale: tali differenze e peculiarità, se lette in maniera corretta, divengono elementi di arricchimento per il gruppo di riferimento e/o per la società; il soggetto acquisisce quindi la stessa dignità dei soggetti che lo hanno incluso, ma senza necessariamente diventare simile a loro.

Cosa ci impedisce di accettare la diversità e l’inclusione?

Sicuramente un possibile ostacolo all’inclusione è il costrutto del pregiudizio, una rete di idee “precostruite” e rigide che fungono da muro, non permettendo di interagire con una realtà diversa da quella “prototipica” o attesa. Il pregiudizio non è altro che il tentativo di protezione nei confronti della paura e dello smarrimento che è possibile sperimentare una volta travalicato il muro del pregiudizio

Vi è poi la sperimentazione della fatica del “come fare” ad essere inclusivi, una volta superato l’ostacolo del pregiudizio; la difficoltà attuativa di un atteggiamento inclusivo presenta una serie di ostacoli o “nodi” che, per essere travalicati, richiedono pazienza, perseveranza e consapevolezza.

Perché bisognerebbe celebrare la Giornata dei calzini spaiati?

Celebrare la giornata dei calzini spaiati, specialmente a scuola, significa costruire un sistema educativo che insegni e rispetti la diversità individuale, garantendo al tempo stesso che la diversità sia inclusa il più possibile.

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Dopo la vittoria agli Australian Open, le prima parole del tennista italiano Jannik Sinner sono state di gratitudine verso la sua famiglia: “auguro a tutti di avere genitori come i miei, che non mi hanno mai messo sotto pressione anche quando giocavo ad altri sport, e auguro a tutti i bambini la libertà che ho avuto io grazie ai miei genitori”.

Parole importanti che sottolineano l’importanza dei genitori nello sport praticato dai propri figli. Ce ne parla la dott.ssa Elena Campanini, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

Qual è il ruolo dei genitori nello sport?

“Le parole di Sinner sono un distillato di quello che i genitori dovrebbero fare per aiutare i propri figli a vivere l’esperienza dello sport in maniera costruttiva.

Lasciare libero un figlio nella pratica di uno sport significa “lasciarlo essere” ovvero essere libero di autodeterminarsi e di farcela da solo senza troppi aiuti e intrusioni genitoriali. Si comincia  essendo dei buoni accompagnatori sia di nome che di fatto, partecipi, ma non intrusivi; è buona cosa rimanere sempre un passo indietro nel rispetto del raggio di azione del figlio, lasciandolo sulla soglia dello spogliatoio, luogo assai significativo, libero di potersi spogliare, farsi la doccia, vestirsi da solo, rapportarsi con i compagni, per poi poter andare in campo non necessariamente per vincere, ma per giocarsela tutta. Che sia in occasione di un allenamento o di una competizione non vi dovrebbe essere differenza.

Il genitore deve essere il primo tifoso del figlio, senza però scadere in fanatismi sia di glorificazione che di denigrazione e deve astenersi da valutazioni e commenti tecnici; per quello c’è l’allenatore. Il genitore deve essere un portavoce esplicito di “fair play” ovvero di correttezza a partire da come sta in tribuna, a come si rapporta con i tecnici, gli allenatori, gli altri atleti e gli altri genitori; significa inoltre insegnare e dare il buono esempio nel competere in virtù del rispetto delle regole e senza imbrogli, dei limiti propri ed altrui, nel non considerare l’avversario come un nemico, nell’accettare la sconfitta con dignità e che l’errore sia visto come uno sprone per crescere e per migliorarsi e non si traduca in un motivo per sentirsi dei falliti.

Vanno inoltre ricordati alcuni doveri fondamentali dei genitori fra cui lasciare che il figlio possa essere libero di scegliere il proprio sport in nome della propria soddisfazione e del proprio divertimento, ma soprattutto  senza che senta l’obbligo di diventare un campione; che siano inoltre dei vigili attenti a che la pratica sportiva avvenga in sicurezza e sia funzionale alla sua educazione; che lo sport sia un valore aggiunto e assai peculiare per la sua crescita psicofisica e culturale; che sport e scuola possano essere tranquillamente compatibili e addirittura di aiuto l’uno con l’altro, basta volerlo. Che ci sia un avviamento allo sport, specie se agonistico, graduale e senza una precoce specializzazione e che lo sforzo richiesto sia in linea e rispettoso del suo sviluppo psicofisico”.

Quali sono gli sbagli che si tendono a fare più spesso?

“Gli errori più frequenti nascono tutti da una stessa radice malsana, che è quella di vivere le esperienze dei figli senza soluzione di continuità. È un errore educativo che si ritrova in molti ambiti a partire da quello scolastico. Le conseguenze sono quelle di vivere il figlio come un proprio prolungamento, una sorta di appendice da cui si pretende la soddisfazione di esigenze o bisogni personali spesso reconditi, ma agiti all’interno della relazione educativa. 

I più comuni fra questi sono la visibilità e l’eccellenza ad ogni costo e in tempi non congrui con le reali capacità psicofisiche del giovane atleta, fra cui anche quella di gestire l’eventuale notorietà e successo. E qui risuona forte il significato profondo del ringraziamento di Sinner ai propri genitori per averlo lasciato libero. 

Le conseguenze per il figlio possono spesso essere deleterie: in primis che lo sport diventi l’ennesimo dovere a cui far fronte senza alcuna personale soddisfazione se non quella di far piacere al genitore esigente e di non deluderlo in caso di sconfitta. 

È noto che alcuni genitori usino premi, talvolta anche in denaro, e punizioni a suggello dell’andamento delle prestazioni dei piccoli atleti a fronte di attività agonistiche praticate a livello amatoriale. Mi sento di affermare che lo sport fatto così fa male ed è purtroppo il prodotto della cultura del narcisismo in cui viviamo e di cui lo sport è tristemente teatro.

Non è un caso che nel 1992 la Commissione del Tempo Libero dell’O.N.U. abbia redatto la Carta dei Diritti allo Sport in cui fra i dieci articoli da cui è composto, oltre che dichiarare in prima battuta che ogni bambino ha il diritto di praticare sport e attività motoria, si puntualizza il diritto di giocare e di divertirsi e di non essere sempre un campione. Gli atleti di vertice in tal senso ci insegnano che non si può vincere sempre e che il divertimento è la motivazione fondamentale per sopportare la fatica, il peso e la pressione di essere un vincente. Nessun cachet anche se assai profumato ha la stessa valenza!”.

Che aiuto può fornire ai genitori uno Psicologo dello Sport?

“La Psicologia dello Sport è una branca della psicologia che si occupa di studiare il comportamento umano legato all’attività sportiva, intervenendo sugli aspetti psicologici, sociali, pedagogici e psico-fisiologici, nonché sul benessere psicofisico di chi pratica attività sportiva e motoria in ogni età. Nello sport professionistico o di vertice lo psicologo lavora con l’atleta sulla performance, intervenendo su variabili come motivazione, attivazione, abilità cognitive etc. avendo sempre come focus principale la persona/atleta in un’ottica di ottimizzazione tra benessere e rendimento.

Nello sport dilettantistico o nell’ambito dell’agonismo in età evolutiva lo psicologo dello sport si occupa principalmente del buon funzionamento delle organizzazioni sportive e del benessere degli atleti, apportando competenze e capacità tipiche del suo profilo declinate attraverso interventi di counseling individuale e di collaborazione a livello organizzativo.

Le motivazioni che possono giustificare un consulto possono essere molte e in linea con quanto detto. Alcune spie di disagio da tener presenti sono: 

  • insonnia
  • stanchezza 
  • demotivazione
  • minaccia di abbandono precoce
  • over training
  • manifestazioni somatiche di ansia 
  • infortuni ricorrenti
  • approccio al cibo non sereno
  • conflitti con la propria immagine corporea 

In questi casi lo psicologo dello sport ha le competenze peculiari per fare una diagnosi differenziale e intervenire su ciò che vi è alla base del disagio, ma come in altri ambiti della salute, anche in questo caso è meglio prevenire che curare.


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L’ansia è uno stato emotivo che rappresenta una risposta fisiologica a situazioni di pericolo, o meglio ritenute come tali. Si genera da stimoli interni ed è una sorta di sistema di allarme per difendersi, legato alla sopravvivenza.

L’ansia rende infatti più sensibili, più reattivi e potenzia la capacità di difesa; se però è vissuta in maniera negativa o se condiziona la quotidianità in maniera importante, può diventare un problema anche invalidante.

Ma perché i disturbi d’ansia riguardano solo alcune persone? Come può un familiare o una persona cara aiutare chi ne soffre? E, soprattutto, dall’ansia si può guarire?

Ne parliamo con il dottor Francesco Cuniberti, psichiatra presso Humanitas Medical Care Principe Oddone a Torino e specialista del centro PsicoCare.

Perché alcune persone soffrono di ansia e altre no?

L’ansia è una funzione del cervello, necessaria per affrontare le ‘emergenze’ che spaventano o preoccupano. Se è vero che l’eccesso di ansia può paralizzarci, dobbiamo ricordare che anche una sua totale assenza causerebbe altrettanti problemi. 

In generale le persone possono diventare ansiose sia perché sono predisposte costituzionalmente che per esperienze di vita negative ripetute che hanno condizionato lo sviluppo di una sensazione di precarietà e fragilità.

Nel caso specifico degli attacchi di panico dobbiamo partire dal concetto che ci sono persone che hanno un sistema di controllo delle funzioni di base del corpo, come la respirazione, il cuore e l’equilibrio, più fragili del normale: questa percezione di ‘fragilità’ fa scattare il nostro sistema d’allarme interno in maniera inappropriata, portando a sensazioni di malessere somatico che possono arrivare a veri e propri attacchi di panico.

Come comportarsi se una persona cara soffre di disturbi d’ansia?

Non tutti coloro che soffrono di disturbi d’ansia accettano un aiuto esterno.

È dunque molto importante attuare alcuni accorgimenti ed evitare atteggiamenti che l’interessato potrebbe interpretare come nocivi. Innanzitutto i disturbi d’ansia sono numerosi e multiformi, informarsi è un buon modo per avvicinarsi all’interessato. Mostrare empatia è ugualmente importante: bisogna riconoscere che la persona sta soffrendo e che la sua sofferenza è reale e difficile da sopportare. Fondamentale è abolire i comportamenti giudicanti: quelli che possono sembrare piccole difficoltà possono essere percepite come insormontabili per chi soffre di questo disturbo.  

Mai banalizzare o negare l’esperienza ansiosa e avere un approccio sprezzante: soluzioni, consigli semplicistici e fai-da-te non sono sufficienti, e suggerire di provarci con più convinzione può essere svilente e indurre vergogna nella persona che soffre. 

Molto meglio offrire un aiuto concreto e supporto, ad esempio nel fare qualche commissione quotidiana: l’ansia può compromettere infatti la vita di tutti i giorni e offrirsi di fare qualcosa di specifico, assicurandosi di aver ottenuto il consenso della persona stessa, sarà sicuramente un gesto apprezzato. 

Si può poi incoraggiare il proprio caro a rivolgersi a uno specialista, magari aiutandolo a trovare il professionista adeguato e di accompagnarlo a un primo colloquio.

Infine, un consiglio per sé stessi. Aiutare chi soffre di un disturbo d’ansia può essere difficile e può provocare frustrazione e stress. Per questo non bisogna trascurarsi, ma essere consapevoli di quanto aiuto possiamo offrire e di quali siano i nostri limiti, mantenendo un equilibrio anche emotivo. 

E quando da soli non si riesce a supportare e a sopportare la sofferenza della persona cara, chiedere aiuto anche per sé stessi non deve essere considerato un fallimento o una vergogna.

Si può guarire dall’ansia?

Gli ultimi dati dicono che oltre 300 milioni di persone nel mondo soffrono per un disturbo d’ansia che è il disturbo mentale che colpisce più persone al mondo. Gli studi ci dicono che meno di 1 paziente su 10 riceve cure corrette diventando spesso cronico e vedendo la propria qualità di vita compromessa.

È bene sapere che ad oggi il successo della terapia è garantita in quasi tutti i casi, quando si curano i disturbi d’ansia e di panico seguendo le principali linee guida internazionali per scelta della terapia. La terapia combinata con specifici farmaci ad azione sulla serotonina/noradrenalina e una psicoterapia breve cognitivo-comportamentale risulta essere la via più valida per permettere alla persona che soffre di ritrovare la serenità e la libertà quotidiana perdute e tornare ad avere una buona qualità di vita.

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Humanitas Medical Care Principe Oddone – corso Principe Oddone, 30 (Torino)

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Un trauma, una brutta notizia, una relazione complicata, un problema economico o, più semplicemente, una scelta difficile: ci sono momenti e situazioni che durante il corso della vita possono mettere a dura prova. È il modo in cui si affrontano che deve portare a riflettere sulla necessità di chiedere un aiuto: la figura dello psicologo può essere un supporto non solo per affrontare un determinato momento, ma anche per capire come sviluppare al meglio e nel tempo le risorse personali di ciascuno.

Quali possono essere queste situazioni difficili e perché l’aiuto di uno specialista? Approfondiamo il tema con la dott.ssa Cristina Di Nardo, psicoterapeuta e neuropsicologa presso Humanitas Medical Care Principe Oddone a Torino e specialista di PsicoCare.

Quando può essere utile il supporto di uno psicologo?

La figura dello psicologo può essere utile per affrontare molte situazioni, soprattutto quando ci impediscono di vivere serenamente o di sentirci bene. Non sempre è facile riconoscere il momento in cui chiedere aiuto, ma alcuni dei motivi che potrebbero spingerci a farlo possono essere:

1. Lutto

Ciascuno può gestire la perdita di una persona cara (un genitore, un familiare, un amico o persino un animale domestico) in modo diverso, apertamente o privatamente, ma non bisogna evitare la realtà della perdita perché a lungo termine può portare a problemi anche importanti e persistenti

Uno psicologo può aiutare a trovare i modi appropriati per affrontare la perdita.

2. Stress e ansia

Può capitare a tutti di vivere momenti o situazioni stressanti, come un trasferimento o un problema relazionale, che fanno sentire ansiosi e vulnerabili. L’ansia è una normale reazione fisiologica allo stress, se però diventa eccessiva e impedisce di vivere serenamente la nostra quotidianità e diventa invalidante può portare all’isolamento sociale o alla depressione.

Uno psicologopuò aiutare a gestire meglio le reazioni emotive, trovando strategie efficaci e mirate per ritrovare il benessere e una buona qualità di vita e, quando riscontri un disturbo d’ansia vero e proprio, indirizzare il paziente verso un intervento integrato che coinvolga il medico specialista in psichiatria.

 3. Fobie

Tachicardia, disturbi gastrici, sudorazione. La fobia, cioè la paura estrema, irrazionale e sproporzionata per qualcosa che non rappresenta una reale minaccia, può presentarsi in molti modi.  Le persone che soffrono di fobie sono consapevoli dell’irrazionalità della propria paura, ma non riescono a non provare certe sensazioni che predispongono il soggetto ad attuare una risposta di ‘fuga’, ma di fatto si tratta di una strategia patologica che tende solo a rinforzare il meccanismo patologico dell’ansia.

Uno psicologo esperto, dopo un’accurata valutazione, può essere un valido aiuto – impostando e condividendo con il paziente il percorso terapeutico – a iniziare a superare eventuali fobie in modo da poter vivere privo da condizionamenti.

4. Depressione

A differenza della tristezza, la depressione è una condizione clinica che non deve essere mai sottovalutata (è stata dichiarata dall’OMS la prima causa di disabilità nel Mondo). Umore deflesso, perdita di interessi, insonnia ed esclusione sociale sono tutti sintomi con importanti risvolti in termini di salute e di compromissione della qualità della vita. 

Uno psicologo può aiutare la persona a capire la gravità della situazione emotiva che sta vivendo, individuare una diagnosi adeguata e indirizzare il paziente verso il percorso terapeutico più adatto.

5. Problemi relazionali

Problemi e difficoltà nella gestione del rapporto di coppia, nell’ambito della genitorialità o della vita lavorativa, richiedono spesso un aiuto esterno, come quello di uno psicologo: affidarsi a una persona “neutrale”, che possa accompagnare gli individui nella risoluzione dei problemi relazionali, può aiutare anche ad approfondire i meccanismi patologici legati a temperamento e al carattere che possono essere spesso origine di problemi ricorrenti.

6. Abitudini malsane e dipendenze

Alcune persone adottano comportamenti malsani, come abbuffarsi di cibo (per consolarsi), bere alcol (come potente tranquillante), fumare e assumere sostanze psicotiche, utilizzate per “gestire” vissuti negativi associati a momenti di stress. Queste abitudini, oltre a determinare diversi problemi di salute, possono sfociare in vere e proprie dipendenze.

È fondamentale dunque rivolgersi a uno psicoterapeuta competente quando ci si rende conto che si stanno strutturando comportamenti patologici.

Che aiuto può dare uno psicologo?

Molte persone impiegano diverso tempo prima di decidere di affidarsi a uno psicologo perché convinte di riuscire a superare le difficoltà da sole o che basti l’aiuto di una persona cara, con il rischio che nel frattempo le situazioni e i problemi si complichino.

Contattando uno psicologo è possibile valutare insieme l’utilità (o meno) di un percorso psicologico, che si può differenziare per approccio psicoterapico, da valutare nel primo colloquio per individuare quello più adatto alla persona e le modalità di intervento.

Per permettere di avere una visione completa e scegliere l’intervento terapeutico più appropriato sarà spesso essenziale che lo psicologo collabori con il medico psichiatra per organizzare un intervento integrato e dirimere i problemi diagnostici non sempre semplici da chiarire.

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Conflitti irrisolti, tensioni per la gestione delle attività di tutti i giorni e domestiche, stress che derivano da fattori esterni come può essere il lavoro o ancora mancanza di momenti di condivisione e comunicazione. Molto spesso le difficoltà quotidiane che proviamo si riflettono sulla coppia portando ad aumentare i livelli di stress e di ansia che intaccano il rapporto a due. Come si riconoscono questi momenti di difficoltà e come si possono affrontare?

Risponde la dott.ssa Simona Sartori, psicoterapeuta e neuropsicologa presso Humanitas Medical Care Principe Oddone a Torino e specialista del centro PsicoCare.

Fattori di stress in una coppia, quali sono?

Vivere momenti di stress durante l’arco della propria vita è normale. Spesso si tende ad imputare lo stress di coppia alle abitudini che si sviluppano nella condivisione di un unico spazio domestico, alla propria situazione economica, a stili di vita non sempre raggiungibili o ancora bisogni non ascoltati. Molte coppie sono talmente abituate a vivere momenti stressanti che non ne riconoscono più i segnali: vivono sotto pressione da così tanto tempo che si sono abituati, senza più distinguere i momenti liberi da stress da quelli caratterizzati da una tensione relazionale ed emotiva, ed è questo il problema più grande: se non c’è la capacità da parte della coppia di riconoscere il problema, non è possibile riuscire a superarlo.

Che impatto può avere lo stress sulla coppia?

Il primo passo per superare un momento di stress è riconoscerlo e di conseguenza parlarne apertamente con il proprio partner. Se infatti lo stress diventa cronico può arrivare a stravolgere completamente la vita di una coppia, portando ad una incomunicabilità tra i partner, raffreddamento emotivo, isolamento e chiusura in sé stessi, oltre a problematiche di intimità sessuale.

Come riconoscere lo stress nella coppia?

Ci sono determinati segnali che permettono di riconoscere lo stress all’interno della coppia. Questi comprendono:

–    Sbalzi di umore repentini: la coppia passa da momenti di pseudo serenità a momenti di tensione e rabbia espressa con parole, gesti e fatti;

–   Irritabilità(di uno od entrambi): richieste specifiche o comunicazioni portano il partner a reagire in modo esagerato;

–   Agitazione (di uno o di entrambi): può portare alla necessità di ricorrere a comportamenti dannosi per calmarsi ed evitare di non pensare ai problemi di coppia (come alcol, farmaci, cibo e sostanze stupefacenti);

–   Tendenza a piangere spesso: la labilità emotiva può succedere anche in assenza di un motivo consapevole e chiaro.

Come risolvere lo stress di coppia?

Si possono adottare una serie di comportamenti che attivino una risposta che sia funzionale contro lo stress. Tra questi:

–   Ascoltare il partner con empatia, chiedergli cosa sta succedendo e standogli vicino;

–   Decidere insieme quali attività e comportamenti adottare quando si è sotto pressione;

–   Proporre una strategia per affrontare lo stress dopo aver ascoltato il partner, passando all’ascolto emotivo e compassionevole prima di proporre soluzioni alternative;

–   Non dare solo soluzioni ma chiedere al partner cosa secondo lui/lei potrebbe migliorare la situazione per superare il momento di crisi;

–    Affrontare con il partner un problema alla volta, offrendosi delle pause piacevoli per entrambi; 

–   Fare attività fisica insieme o meno per scaricarsi dallo stress eccessivo della quotidianità;

–   Non rimandare e riconoscere cosa è realmente utile;

–   Chiedersi se si sta facendo tutto il possibile per aiutare e ascoltare il partner, al fine di stare meglio in coppia;

–   Rivolgersi ad uno specialista (come uno psicoterapeuta di coppia o sessuologo se ci fossero anche problematiche di intimità) sia nelle situazioni più critiche che in quelle divenute ormai croniche.

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In Humanitas Medical Care Principe Oddone arriva PsicoCare: un team composto da psichiatri, psicologi e logopedisti perchiunque senta la necessità di prendersi cura del proprio benessere psicologico.

Gestire le emozioni, prendersi cura del proprio benessere psicologico: sono aspetti da non trascurare, non solamente in presenza di disturbi come ansia, depressione, fobie o attacchi di panico, ma anche quando andiamo incontro a problematiche quotidiane e abbiamo bisogno di un supporto in periodi di incertezze, confusione o sovraccarico di pensieri.

Dal singolo alla coppia sino al supporto alla genitorialità: PsicoCare offre anche team esperti in patologie specifiche per garantire il trattamento migliore con i più specifici protocolli di cura, come – ad esempio – i DSA – Disturbi Specifici dell’Apprendimento.

Un percorso di cura personalizzato

Psico Care è stato progettato con un approccio scientifico e rigoroso che parte dalla medicina evidence-based per superarla andando incontro alle esigenze del singolo individuo. Si tratta di un percorso di cura sempre più personalizzato, capace di offrire un servizio completo, non come singolo terapeuta ma come team multidisciplinare di professionisti.

Psichiatra, psicologo e psicoterapeuta, neuropsicologo, logopedista: competenze diverse si uniscono per raggiungere l’obiettivo più importante, il benessere mentale completo a partire dalla specifica esigenza della persona per trovare la strada corretta da seguire.

 “Il disagio psico-emozionale è difficile da capire, perché non esiste radiografia o esame del sangue che ci dica qual è la causa precisa di una determinata sofferenza. Ogni persona è unica: nella sua reattività allo stress, nella sua genetica, nel suo corpo, nel modo in cui vive e esprime il suo disagio e in tutta una serie di caratteristiche che spesso passano sotto traccia, ma che invece vengono valutate da team multidisciplinari esperti e usate proprio per orientare la scelta di cura.” spiega il professor Giampaolo Perna, Professore Ordinario di Psichiatria e Direttore Scientifico dello PsicoCare di Humanitas.

Le scelte del paziente al centro del percorso terapeutico

PsicoCare dà la possibilità al paziente di partecipare attivamente alla scelta del tipo di percorso e terapia, considerando le sue preferenze, i suoi dubbi e le sue aspettative e trovando ascolto e comprensione. Attraverso il “patto di cura”, infatti, terapeuta e paziente inquadrano insieme gli obiettivi del percorso e le modalità di realizzazione, che vengono definite alla luce di numerose variabili e caratteristiche personali.

“L’obiettivo di PsicoCare è offrire una risposta clinica soddisfacente a ogni singola persona e, per farlo, occorre proiettarsi oltre il concetto standard di diagnosi, integrando per esempio terapie farmacologiche, terapeutiche e altri interventi inerenti lo stile di vita, sulla base delle informazioni individuali e della storia clinica del paziente”, spiega il dottor Michele Cucchi, direttore delle Aree Mediche Humanitas. 

Non bisogna provare vergogna: se si avverte l’esigenza di chiedere un aiuto professionale. Il disagio psichico, infatti, va gestito e trattato da specialisti che, anche tramite interventi brevi, possono aiutare il soggetto a recuperare l’uso funzionale dell’emozione ed evitare che le difficoltà generate da determinate sensazioni lo travolgano.

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In genere arrivano in maniera repentina, senza neanche lasciarci il tempo di rendercene conto. Successivamente, tendono poi a scatenenarsi proprio nelle situazioni in cui temiamo che arrivino, come sui mezzi pubblici, nei luoghi affollati, o quando siamo in casa da soli. 

Gli attacchi di panico sono episodi improvvisi caratterizzati dalla comparsa di ansia acuta, paura e disagio, accompagnati da sintomi somatici, come senso di soffocamento, fatica a respirare, palpitazioni, senso di svenimento, e/o cognitivi, come paura di morire o di perdere il controllo. 

Possono essere più frequenti in periodi di forte stress e stanchezza ma anche capitare durante il sonno, causando un risveglio improvviso, e spesso arrivano a condizionare e compromettere il nostro stile di vita. 

In media durano dai 2 ai 10-15 minuti anche se la percezione della persona che li prova è che siano decisamente più lunghi. 

Quando diventano frequenti nel tempo e disturbanti si parla di Disturbo di panico. In questi casi sono disponibili diversi trattamenti farmacologici che consentono di bloccare gli attacchi e di recuperare la propria serenità di vita. Vediamoli insieme alla dott.ssa Daniela Caldirola, psichiatra di PsicoCare.

Quando viene indicata la terapia farmacologica per il Disturbo di panico?

La terapia farmacologica è indicata quando gli attacchi di panico si ripetono e la loro ricorrenza causa una compromissione della qualità di vita. Spesso il paziente ha il timore che l’attacco possa arrivare da un momento all’altro (ansia anticipatoria) e di poter riportare delle conseguenze fisiche e/o emotive dagli stessi. 

Frequentemente la persona con Disturbo di panico modifica anche il proprio comportamento a causa degli attacchi, ad esempio tende a evitare situazioni o contesti in cui teme che l’attacco di panico possa manifestarsi (evitamento fobico). 

Infine, la terapia farmacologica è indicata anche nelle persone che, pur non avendo più attacchi di panico conclamati, provano sintomi di panico “sottosoglia” nella vita quotidiana, come mancanza di fiato, senso di instabilità, battito cardiaco accelerato, che possono presentarsi in maniera anche continuativa nella giornata. Il persistere  di questi sintomi può contribuire al mantenimento dell’ansia anticipatoria e/o dell’evitamento.           

Chi può sottoporsi al trattamento farmacologico?

Chiunque ne abbia bisogno. Non ci sono criteri di esclusione specifici poiché abbiamo a disposizione una gamma di farmaci tra cui poter scegliere quello più adatto ad ogni persona. Nell’ottica della terapia personalizzata, viene scelto il farmaco più idoneo tenendo conto non solo del tipo di sintomi ma anche delle caratteristiche individuali, quali l’età, il peso, eventuali altre malattie mediche e/o altri trattamenti medici in corso, la fase di vita (ad esempio per le donne, età fertile o menopausa), lo stile e le abitudini di vita, che vengono valutate con un’attenta raccolta di informazioni durante il colloquio clinico con la persona.        

Quali sono i trattamenti farmacologici disponibili per il Disturbo da attacchi di panico?

Sono disponibili diversi trattamenti farmacologici per il Disturbo di panico. I farmaci di prima scelta appartengono alla categoria degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRIs) e degli inibitori della ricaptazione della serotonina e noradrenalina (SNRIs) che presentano elevate efficacia e tollerabilità. In situazioni specifiche, possono anche essere usati farmaci della categoria degli antidepressivi triciclici e benzodiazepine. 

Gli antidepressivi triciclici sono oggi meno usati nella pratica clinica rispetto ai farmaci di prima scelta poiché presentano un profilo di tollerabilità meno favorevole che include effetti collaterali quali stitichezza, secchezza delle fauci e possibili effetti negativi sulla funzionalità cardiaca soprattutto in persone affette da malattie cardiache. 

Quando necessario, le benzodiazepine possono essere utilizzate in associazione a SSRIs o SNRIs nella fase iniziale della terapia come supporto aggiuntivo, per poi essere gradualmente sospese una volta raggiunto l’effetto terapeutico completo degli SSRIs/SNRIs     

Quali sono i benefici della terapia farmacologica per il Disturbo di panico?

Il principale beneficio della terapia farmacologica antipanico è quello di ottenere il blocco completo sia degli attacchi di panico conclamati sia dei sintomi di panico “sottosoglia” e di favorire quindi una progressiva diminuzione dell’ansia anticipatoria e dell’evitamento fobico. L’effetto terapeutico di blocco dei sintomi di panico si ottiene dopo alcune settimane di terapia farmacologica. L’effetto benefico si mantiene stabile nel tempo durante la terapia che deve essere assunta per diversi mesi allo scopo di garantire la persistenza del benessere anche alla sospensione della stessa.        

Le terapie di prima scelta oggi a disposizione possono avere degli effetti collaterali, quali ad esempio la tendenza ad incrementare l’appetito e il peso, ma in generale essi sono limitati e, se si presentano, vengono discussi con la persona durante i colloqui clinici e affrontati insieme con diverse strategie. 

Il beneficio finale della terapia personalizzata antipanico è quello del raggiungimento del completo benessere psicofisico.   

Come funziona la terapia farmacologica per il Disturbo di panico?

I farmaci antipanico agiscono modulando alcuni sistemi di neurotrasmettitori, soprattutto il sistema della serotonina, che a loro volta regolano alcune aree cerebrali coinvolte nella comparsa degli attacchi di panico. La modulazione dei neurotrasmettitori consente di bloccare il sistema di “allarme interno” che fa scatenare l’attacco di panico. Inoltre molti farmaci antipanico migliorano e alleviano direttamente alcune manifestazioni fisiche del panico, come la mancanza di fiato o il senso di sbandamento, grazie ad un loro effetto positivo sul funzionamento di diversi sistemi corporei.                

La terapia farmacologica è sufficiente a trattare il Disturbo di panico?I trattamenti farmacologici a disposizione hanno un’elevata efficacia sul blocco degli attacchi di panico spontanei. Se però la persona continua a presentare comportamenti di evitamento fobico o altre preoccupazioni correlate al panico che interferiscono con la qualità di vita, si può intraprendere un percorso psicologico di tipo cognitivo-comportamentale che aiuta a ripristinare la completa autonomia e benessere personale. Nel percorso cognitivo-comportamentale possono anche essere apprese tecniche molto utili che la persona può applicare nella vita di tutti i giorni per controllare meglio alcuni sintomi fisici del panico, come ad esempio tecniche respiratorie.     

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