Dal 1999, ogni 21 febbraio viene celebrata la Giornata Mondiale della Lingua Madre. Una ricorrenza importante che ci permette di rimettere al centro dell’attenzione l’istruzione, sia dal punto di vista educativo che didattico, perché le differenze linguistiche degli studenti, non siano più viste come un punto di svantaggio ma uno strumento di inclusione scolastica, in cui la lingua e la cultura di uno studente straniero rappresentano una risorsa piuttosto che un ostacolo, diventando ricchezza per l’intera classe.

Tuttavia, quando un bambino bilingue presenta difficoltà di linguaggio si tende a credere che sia colpa del bilinguismo. Ma è davvero così?

Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Laura Stella, logopedista di PsicoCare.

Che cos’è il bilinguismo?

Il bilinguismo è un fenomeno molto vario: difficilmente troviamo bambini bilingue che presentano le stesse caratteristiche.

Un bambino nato in una famiglia dove si parla sia italiano che inglese, che viene inserito in una scuola bilingue, avrà una competenza ed un uso diverso del linguaggio rispetto ad un bimbo esposto all’inglese fino ai 3 anni e poi inserito in una scuola italiana.

Il grado di competenza, infatti, non può essere lo stesso. È necessario considerare il momento della prima esposizione, il contesto di esposizione e il grado di competenza

Nel momento della prima esposizione possiamo distinguere:

1. il bilinguismo precoce, se il bambino è esposto a due lingue fin dalla nascita (per esempio quando i genitori hanno una lingua madre diversa)

2. il bilinguismo tardivo se il bambino viene esposto alla seconda lingua dopo i primi 2/3 anni di vita (ad esempio un bimbo che a casa parla francese e viene inserito in un asilo italiano)

Nel contesto di esposizione riconosciamo:

1. il bilinguismo familiare, quando le due lingue vengono parlate in famiglia

2. il bilinguismo scolastico, quando la seconda lingua viene parlata solo a scuola

Questi fattori incidono sul grado di competenza che il bambino avrà nelle due lingue. Per acquisire una lingua, infatti, è necessario che il bambino venga esposto ai suoni del linguaggio fin dalla nascita (momento in cui il suo cervello è estremamente ricettivo rispetto ai suoni del linguaggio), con un’esposizione costante e informale (ovvero senza che ci sia una spiegazione delle regole e della struttura della lingua).

Se la lingua viene appresa a scuola in un contesto formale per un’ora a settimana non si può parlare di bilinguismo ma di apprendimento di una lingua.

Nel grado di competenza possiamo invece identificare:

1. il bilinguismo bilanciato, quando la competenza è simile nelle due lingue,

2. il bilinguismo dominante, quando il bambino è più competente in una delle due lingue.

Il bilinguismo può causare un ritardo di linguaggio?

Non esiste una correlazione tra bilinguismo e difficoltà di linguaggio. 

I bambini bilingue raggiungono le stesse tappe di sviluppo linguistico (negli stessi tempi) degli altri bimbi (la lallazione tra i 6-10 mesi, le prime parole intorno all’anno e le prime combinazioni di parole intorno ai due anni). 

Talvolta può sembrare che i bambini bilingue abbiano un vocabolario ridotto in entrambe le lingue. Tuttavia, per valutare il vocabolario in presenza di bilinguismo è necessario considerare la competenza complessiva del bimbo, ovvero il vocabolario della prima lingua e il vocabolario della seconda lingua: se il bambino conosce, utilizza e comprende la parola “home” ma non “casa” questa fa comunque parte del suo vocabolario complessivo.

Il bilinguismo può confondere il bambino?

Succede spesso che un bambino (ma anche un adulto) bilingue utilizzi due lingue nella stessa frase (ad esempio, “voglio tornare at home”). Tuttavia, si tratta di un fenomeno fisiologico molto comune chiamato “code-mixing” (e non di un disturbo del linguaggio): una strategia comunicativa positiva e adeguata dove il bambino colma la lacuna che ha in una lingua con quella per lui predominante.

Perché è importante mantenere entrambe le lingue?

Eliminare la lingua madre (favorendo quella utilizzata nella scuola ad esempio) costringe i genitori del bambino a parlare in una lingua in cui non sono pienamente competenti, con il rischio di dare al bambino un modello scorretto che renderà più complessa l’acquisizione.

Vari studi confermano come la presenza del bilinguismo a livello cognitivo sia una risorsa per il bambino e per l’adulto. Ma non solo: includere le differenze linguistiche nell’ambito scolastico, consente una maggiore inclusione degli studenti stranieri che non partiranno più svantaggiati e si sentiranno meno esclusi dalla classe.

Cosa devo fare se un bambino bilingue mostra difficoltà nel linguaggio?

Se vengono notate delle difficoltà nel raggiungimento delle tappe di sviluppo del linguaggio è importante rivolgersi ad uno specialista per valutare il caso specifico e l’esposizione che il bambino ha avuto: il bambino acquisisce una lingua sentendo l’adulto parlare. Se l’esposizione non è stata sufficiente (sia come tempi sia come qualità) il bimbo potrebbe non aver acquisito adeguatamente la lingua.

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Il bed rotting (che letteralmente significa “marcire a letto”), ovvero lo stare a letto per tante ore, mangiando, bevendo, guardando film, giocando o semplicemente rimanendo ad occhi chiusi, è il nuovo fenomeno di Tik Tok che negli ultimi mesi è diventato virale sul web. Ma che cos’è esattamente? Relax o sintomo di depressione? Voglia di staccare da tutti o isolamento sociale? Prendersi cura di sé o il contrario?

Ne parliamo dott.ssa Elisa Morrone, psicologa e psicoterapeuta, esperta in disturbi del sonno, di PsicoCare.

Che cos’è il bed rotting?

Il Bed rotting è il nuovo fenomeno legato ai social, soprattutto Tiktok, che prevede lo stare a letto in isolamento da tutto il resto. Mangiare, bere, studiare, parlare, giocare sempre e solo a letto. Interessa soprattutto la fascia degli adolescenti, che hanno risentito di più del lockdown e della mancanza di possibilità di sviluppare abilità sociali, ma inizia a diffondersi anche negli adulti, specialmente tra chi lavora in smartworking.

Perché il bed rotting è così frequente? 

Il periodo pandemico ha velocizzato lo sviluppo della tecnologia, ma ci ha privato della socialità, della condivisione, ci ha insegnato che queste sono attività che possiamo fare anche online e spesso proprio dal letto, a volte anche per mancanza di spazio. A volte ciò accade perché ci sembra più comodo, altre volte, invece, cela una difficoltà nell’interazione con gli altri, un sintomo di un disturbo dell’umore, una poca attenzione a prendersi cura di sé stessi.

Perché potrebbe essere un sintomo di depressione o fobia sociale?

Il nostro organismo e la nostra mente hanno bisogno di stimoli, di interazione per crescere e mantenersi attivi, lo stare a letto porta a rallentare le nostre connessioni cerebrali e ad aumentare anche il rischio di difficoltà cognitive, ma non solo. Una delle caratteristiche della depressione è la mancanza di piacere nel fare le cose che prima ci rendevano felici, il paziente smette di fare qualsiasi cosa (persino lavarsi e prendersi cura di se stesso) ed è proprio per questo che il bed rotting non va sottovalutato o giustificato. Più si sta a letto, più si fa fatica ad uscire dal letto e riprendere in mano la propria vita. Il bed rotting può anche essere un sintomo di fobia sociale, ovvero la paura di interagire con gli altri, la paura del giudizio che possono condurre fino al ritiro o ad un isolamento sociale vero e proprio. Non a caso infatti, sono proprio i pazienti con fobia sociale ad aver vissuto meglio il periodo di lockdown: erano giustificati ad evitare le situazioni temute.

Il bed rotting ha effetto anche sul sonno?

Purtroppo, anche per il sonno il bed rotting non è positivo: primo perché uno dei meccanismi che controlla il nostro sonno è legato alle attività che facciamo durante il giorno (più ci stanchiamo e più stiamo svegli, più abbiamo probabilità di dormire bene di notte). Inoltre, numerose ricerche scientifiche ci hanno dimostrato che il nostro cervello riposa in modo diverso durante la notte con delle differenza anche tra le varie aree dell’encefalo proprio sulla base delle attività che svolgiamo durante il giorno; per esempio, se durante la giornata siamo impegnati in compiti di attenzione e programmazione, durante la notte le aree del cervello che controllano queste attività dedicheranno molto più tempo al sonno profondo. Al contrario, se durante il giorno passiamo molto tempo in modo passivo, inattivo, utilizziamo poco il mio cervello e di notte dormiremo male. 

Il bed rotting porta anche a dormicchiare durante la giornata e anche questo influisce negativamente sul sonno, perché non solo non ci si stanca ma si ruba anche una parte del sonno notturno implicando insonnia o ritardo a fase di addormentamento con sviluppo di circoli viziosi patologici o poco funzionali.

Quindi il bed rotting è da evitare in assoluto?

Direi che non c’è bisogno di evitarlo in assoluto, può essere anche un momento per recuperare, rilassarsi, coccolarsi ma se diventa routine, se incide sulla nostra socialità, sul nostro sonno o umore, allora va interpretato come un campanello di allarme. Meglio chiedere aiuto ad uno specialista al fine di capire se è sintomo di un disturbo e quindi intervenire con trattamenti adeguati.

Il trattamento cosa prevede?

Dipende sicuramente dalla diagnosi: sarà lo specialista a decidere come intervenire; a volte può bastare un percorso rieducativo, a volte di psicoterapia altre volte anche l’assunzione di terapia farmacologica, saranno comunque gli specialisti a scegliere il miglior trattamento per il singolo paziente.

In quali altri modi possiamo rilassarci e ricaricare le batterie?

Di seguito alcune alternative al bed rotting, per rilassarsi nel modo giusto:

  1. Passare un po’ di tempo in mezzo alla natura, facendo una bella passeggiata, attività fisica o un pic nic
  2. Chiudere i dispositivi elettronici e aprire un libro, o cercare un passatempo che aiuti a “staccare” per qualche ora al giorno
  3. Fare yoga o praticare tecniche di rilassamento e meditazione per rilassare la mente e ristabilire una connessione con il corpo
  4. Cercare di passare più tempo con le persone che si amano 
  5. Cercare di mantenere una routine quotidiana stabile che preveda attività sportiva (anche solo una passeggiata)
  6. Anche se siamo in smartworking bisognerebbe prepararsi come se si dovesse andare a lavoro, prevedere delle pausa, fare un po’ di stretching tra una riunione e l’altra, cercare di stare alla luce del sole: magari facendo colazione fuori o sul balcone 
  7. Chiudere la giornata staccando totalmente il contatto con il mondo lavorativo e anche social media e dedicarsi ancora una volta ad una bella passeggiata

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Essere single il 14 Febbraio – specie quando i ristoranti e le strade sembrano essere pieni di coppie innamorate pronte a festeggiare San Valentino – può essere frustrante. Può farci sentire esclusi, arrabbiati e soli. Come possiamo affrontare questi sentimenti? Lo abbiamo chiesto al dott. Pietro Ramella, Psicologo e Psicoterapeuta di PsicoCare.

Come sentirsi meno soli a San Valentino?

Prima di rispondere a questa domanda è necessario approfondire il concetto di solitudine. Questa parola ha due origini possibili: il pronome “sé” che poi è diventato “solo” e il concetto di “sollus” (dal latino) che significa “unico”, “intero”.

Leggendola in questo senso, la solitudine può indicare più semplicemente anche una persona presa singolarmente, che sebbene in quel momento non abbia nessuno accanto a sé, rimane intera, unica. La solitudine diventa sofferenza quando si lega ad un’emozione, ovvero la tristezza.

In questo caso, le cause possono essere diverse, come:

·  il desiderio di una relazione che non riusciamo a trovare nonostante gli sforzi;

·  altri elementi di sofferenza preesistenti (come una malattia o un problema personale importante) già presenti prima di San Valentino e che proprio in quel giorno appaiono ancora più difficili da gestire proprio a causa della solitudine;

·  una relazione sentimentale finita da breve tempo (o anche da diversi mesi o anni ma, nonostante ciò, il nostro sentimento è rimasto vivo);

·  il vedere la maggior parte dei nostri amici fidanzati (provando quindi non solo tristezza ma anche talvolta invida e/o rabbia);

·  una relazione nascente che non sembra stia funzionando

Solo una volta compresa l’origine della nostra sofferenza potremmo capire meglio come gestirla. 

Cosa fare la sera di San Valentino?

Partiamo dal presupposto che non è necessario stare in compagnia la sera di San Valentino. Tuttavia, chi non vuole rimanere da solo può programmare qualunque cosa con amici o familiari (in modo da vivere questo giorno come qualsiasi altro), oppure può pianificare un’attività solitaria che lo faccia sentire bene. Accumulare emozioni positive è un’ottima strategia per regolare le emozioni negative e diminuire la nostra vulnerabilità emotiva, quell’insieme di difficoltà che possono intensificare la nostra sofferenza in un giorno particolare come quello di San Valentino.

Coltivare una buona solitudine, imparando a stare meglio da soli, a gestire il proprio tempo quando stiamo con noi stessi, decidendo consapevolmente se e quando pianificare attività e quali, o dandoci il permesso di “oziare” o di rilassarci (deciso però in modo consapevole/pianificato), potrebbe essere un buon obiettivo da prefissarci per stare bene.

Come vivere San Valentino in coppia?

Anche per chi non è solo, San Valentino può risultare complesso. Quanti di noi si sono trovati a vivere con ansia l’organizzazione di una sorpresa per il partner, la ricerca di un regalo o del ristorante dove festeggiare? Tante volte, così come avviene per il Natale, l’idea di San Valentino si disperde nelle questioni concrete, nei regali o nelle cene.

Questa festività dovrebbe invece permettere alla coppia di sfruttare l’occasione per viversi con maggior consapevolezza (mindfulness), nel qui ed ora della relazione, dedicandosi completamente a sé stessi e dandosi il permesso di mettere in standby il tran-tran della vita quotidiana, stabilendo quali siano le priorità più efficaci per il rapporto, più che quale sia il miglior ristorante o il miglior regalo.

Come gestire l’ansia di rimanere single?

L’ansia è legata al concetto di “paura” che a sua volta prevede la presenza di una potenziale minaccia. La domanda, in questo caso, sorge spontanea: qual è la minaccia? Cosa ci spaventa così tanto nel concetto di single? La risposta sta nella domanda iniziale. Il punto non è tanto quello di essere single nel giorno di San Valentino, quanto l’associazione che potrebbe capitarci di fare quel giorno, ovvero che “se sono single proprio oggi, rimarrò tale per il resto dell’anno, se non addirittura per il resto dei miei giorni/per lungo tempo”.

Questo pensiero, questo dialogo interno di cui non sempre siamo completamente consapevoli, si basa tuttavia su una logica di realtà più emotiva che razionale.

In psicoterapia si chiama “distorsione cognitiva” o “credenza disfunzionale”, ovvero un momento in cui noi cerchiamo di dare un significato alla realtà in cui viviamo (una realtà molto complessa, che non possiamo controllare in ogni suo dettaglio), cercando dei nessi causa-effetto che ci permettano di predire gli eventi, cosa che nessun di noi è in grado di fare.

Se ci riflettiamo da un punto di vista razionale e probabilistico, la probabilità di trovare/non trovare una relazione non dipende dal fatto che noi siamo soli o meno a San Valentino ma da mille altri fattori che non hanno nulla a che fare con questa giornata come la nostra personalità, il nostro stile di vita, le persone e i contesti che frequentiamo e così via.  

Per gestire quest’ansia, quindi, potrebbe essere utile andare a lavorare su tutto ciò che potrebbe favorire la costruzione di una nuova relazione, non su una minaccia che sebbene ci appaia reale, stiamo sovrastimando.

I single sono più a rischio di depressione?

Molti studi indicano un’associazione tra la situazione coniugale/sentimentale e l’insorgenza di una sintomatologia depressiva/abbassamento dell’umore. Ciò nonostante, la situazione coniugale/relazionale/sentimentale non è l’unica e/o principale causa di sintomatologia depressiva, anzi, va considerata come uno dei tanti fattori che, aggiungendosi/affiancandosi a molti altri, potrebbe favorire difficoltà legate all’umore.  

In caso di esordio di problemi legati all’umore, come tristezza/demoralizzazione/senso di vuoto (non giustificati da eventi quotidiani e quindi dalla sola giornata di San Valentino) che perdurano per la maggior parte del giorno e per più giorni (affiancati magari ad altri sintomi come abbassamento del livello di motivazione/interesse/piacere a fare le cose; cambiamenti nella qualità e durata del sonno e/o dell’appetito; ansia/stress; affaticamento e mancanza di energia/difficoltà di concentrazione non giustificati dalle attività svolte durante la giornata; senso di frustrazione/incremento dell’irritabilità; sensazione di solitudine), sarà quindi fondamentale richiedere il parere di uno psicologo o di uno psichiatra in modo da valutare la situazione nella sua specificità e prevenire un eventuale peggioramento.

Abbiamo tutti bisogno di un partner?

Non tutte le persone necessitano obbligatoriamente di un partner, e soprattutto ciò può dipendere da molteplici fattori come la nostra personalità, il periodo di vita, oltre i valori, le priorità, gli obiettivi e così via. Per cui a seconda del momento di vita, della persona e di molti altri elementi, potremmo sentire il bisogno di un partner così come la necessità di camminare da soli.

Si può essere felici anche da single?

La felicità è un’emozione, per cui di durata limitata. Ciò che ci dovremmo chiedere è se possiamo essere sereni anche da single e la risposta è sì, anzi, sappiamo che la serenità è una condizione senza la quale diminuisce molto la probabilità di riuscire a costruire una relazione stabile, duratura e che ci porti benessere. La costruzione di una relazione è parte dei valori che compongono la vita di una persona, non l’unico valore però. Per cui accentrare il proprio valore, la propria autostima e la propria serenità, sul fatto di avere o meno un partner, rischia di portarci a quelle credenze, quei pensieri disfunzionali sopra descritti, incrementando la nostra sofferenza

Inoltre, la ricerca “forzata” di un partner per San Valentino, per la paura del giudizio degli altri, per il timore di restare soli per sempre o perché pensiamo che una relazione sia l’unica soluzione per poter stare meglio, rischia di portare ad un effetto paradosso. Molti di noi avranno sperimentato relazioni nate in periodi di vulnerabilità emotiva e finite quindi nel breve termine. 

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Negli ultimi anni l’uso dei social media (come Instagram, Snapchat, Twitter o Tiktok) da parte dei ragazzi è aumentato in modo significativo. Basta guardarsi intorno: la maggior parte degli adolescenti è continuamente connessa ad internet e questo potrebbe arrivare a delinearsi come una vera e propria dipendenza dal proprio smartphone e dalla dimensione dei social

Se da una parte i social network hanno offerto per molti l’opportunità di interagire con altri (per esempio, durante il lockdown imposto dalle misure restrittive per il COVID-19), hanno aumentato il senso di comunità e di appartenenza, aiutando il singolo – attraverso il supporto tra pari e la condivisione- ad affrontare determinate situazioni di malessere, dall’altro questi strumenti possono contribuire ad un abbassamento della qualità di vita associato a sofferenza psicologica, sentimenti di solitudine, senso di esclusione e abbassamento dell’umore, e, nei casi più gravi, a comportamenti autolesivi e all’ideazione suicidaria.

Ce ne parla il dott.  Pietro Ramella, Psicologo e Psicoterapeuta di PsicoCare.

Che ruolo hanno i social nel disagio giovanile?

La letteratura scientifica riconosce l’uso dei social media da parte degli adolescenti come un fattore di rischio positivo per il suicidio. Senza voler qui prendere una posizione morale ed etica contro i social network, i dati ci dicono che:

·  i social network forniscono una piattaforma online favorenti le dinamiche del cosiddetto cyberbullismo, il quale può portare la persona “bersagliata”, ma non solo, ad un forte abbassamento dell’umore, fino allo stato depressivo, problemi comportamentali, abbassamento dell’autostima, abuso di sostanze, autolesività, pensieri e tentativi suicidari, sia per la vittima che per l’autore del reato;

·  le pubblicità sui social media aumentano l’esposizione degli adolescenti all’uso di alcol, droga e tabacco;

·  gli adolescenti sui social media sono maggiormente esposti al rischio di essere vittime di crimini sessuali poiché gli autori di reati possono utilizzare queste piattaforme per attirarli a sé;

·  i social media definiscono un ideale “magro” di bellezza che non corrisponde alla realtà e che spesso può portare a sentimenti di inadeguatezza a loro volta potenzialmente collegati a comportamenti autolesivi o pensieri e ideazione di morte nel peggiore dei casi;

·  le piattaforme web espongono maggiormente a sfide online, confronti sociali ed emulazioni;

·  l’uso intenso dei social media può causare disturbi del sonno, con ripercussioni importanti sullo stato di salute dell’individuo durante l’arco della giornata (concentrazione, umore, disregolazione emotiva, calo delle performance giornaliere). 

Chi sono i soggetti più a rischio di autolesività?

Non esiste un’unica categoria di persone ascrivibile a questo rischio. Sicuramente l’abbassamento dell’umore, la disregolazione emotiva, un contesto di vita sfavorevole, l’età, differenti disturbi psichiatrici o di personalità, eventi traumatici, sono alcuni tra gli elementi che presi singolarmente o in relazione tra loro possono aumentare il rischio che si presentino ideazione e comportamenti autolesivi.

Come si riconoscono i comportamenti autolesivi?

L’adolescente con comportamenti autolesivi tende a farsi del male: tagliandosi, bruciandosi o colpendosi; tuttavia, senza l’intenzione di morire. Questa è comunemente chiamata autolesività non suicidaria (NSSI).

Qual è il confine tra NSSI e pensiero suicida?

Spesso il comportamento autolesivo viene utilizzato come mezzo (sebbene inefficace a lungo termine/disfunzionale) di regolazione emotiva. L’atto in sé, il dolore provato e altri elementi contribuiscono ad aiutare la persona a spostare l’attenzione dall’emozione intensa provata in quel momento aiutandola, paradossalmente, a regolarla. In questo caso spesso si innesca un circolo vizioso che si autorinforza ogni qual volta un gesto autolesivo appare efficace nel regolare quel momento di crisi emotiva, senza che però vi sia come obiettivo quello di porre fine alla propria vita.

Un pensiero suicidario può delinearsi su un continuum, da meno a più strutturato, dalla fantasia suicidaria che può servire temporaneamente per pensare a una potenziale via di fuga, fino a un pensiero più strutturato dove la persona si trova a pensare mezzi, modi e tempi per raggiungere l’obiettivo di spegnere definitivamente la propria sofferenza tramite il decesso.  

Cosa devo fare se ho pensieri autolesivi o suicidari?

Il primo passo è sicuramente quello di chiedere supporto psicologico. Dato che spesso e comprensibilmente non ce la si sente di parlarne con amici e familiari, lo Psicologo-Psicoterapeuta o lo Psichiatra sono le figure più competenti riguardo a questo tipo di sofferenza psicologica.  

Che tipo di percorso terapeutico è indicato per l’autolesività e i pensieri/impulsi suicidari?

Dato che questo tipo di elementi può essere associato a differenti tipi di sofferenza psicologica, il primo passo è sicuramente quello di fare una prima valutazione con Psicologo/Psichiatra che valuteranno così la tipologia di presa in carico. Quest’ultima può proseguire nell’ambito psicoterapico ambulatoriale, con eventuale supporto farmacologico da parte dello psichiatra, fino ad un eventuale valutazione di un ricovero (di lunghezza variabile e in contesti differenti) nei casi di livelli di sofferenza psicologica di più elevata intensità.

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I ricercatori dell’Università di Tel Aviv (Tau), in uno studio pubblicato sulla rivista Journal of Clinical Medicine che ha coinvolto 227 bambini tra i 4 e i 12 anni, sostengono che esiste un’alta probabilità che a causa di molte diagnosi errate, tanti pazienti che soffrono di disturbi del sonno ricevono farmaci per il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Adhd). Quali possono essere le conseguenze e come è possibile distinguere questi disturbi?

Ce ne parlano le dott.sse Elisa Morrone e Marcella Mauro di PsicoCare, insieme il dottor Alberto Braghiroli, pneumologo presso gli ambulatori Humanitas Medical Care e coordinatore del Centro di Medicina del Sonno di Humanitas Mater Domini. 

Che cosa evidenzia lo studio?

Lo studio evidenzia che:

·  i bambini che soffrono di disturbi respiratori durante il sonno ricevono farmaci per l’iperattività con una frequenza sette volte superiore rispetto ai piccoli che non soffrono di problemi respiratori notturni;

·  vi è una correlazione tra il disturbo e i sintomi del sonno discontinuo, risultato sei volte superiore rispetto ai bimbi senza diagnosi di Adhd;

·  respirare dalla bocca è un’abitudine presente con una frequenza cinque volte maggiore;

·  il russare appare triplicato tra i piccoli pazienti che hanno ricevuto una diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

Da cosa è caratterizzato l’Adhd e come viene diagnosticato?

“La diagnosi di ADHD”, spiega la dott.ssa Marcella Mauro, “si concentra principalmente sui fenomeni osservabili durante la veglia. In breve, il bambino manifesta tipicamente disattenzione e/o  iperattività/impulsività, ma non solo. Altri sintomi comuni nell’Adhd sono:

·      Irritabilità e temperamento caldo

·      Scarsa capacità di gestione del tempo

·      Problemi a seguire o completare un’attività

·      Ridotta tolleranza allo stress

·      Disorganizzazione

·      Problemi di concentrazione

·      Disattenzione

Questi sintomi hanno un impatto importante nell’ambito educativo: scarso rendimento scolastico, difficoltà sociali, di relazione. 

Inoltre, in fase adolescenziale, il disturbo è associato a disturbi dell’umore, ansia e abuso di sostanze.

La mancanza di sonno influisce su una parte del cervello chiamata corteccia prefrontale. Questa regione è responsabile di importanti funzioni di apprendimento come la memoria di lavoro. Quando non si dorme abbastanza, il cervello non funziona bene e si fa fatica a prestare attenzione e a elaborare le informazioni”.

Qual è la correlazione tra disturbi del sonno e Adhd?

“La sintomatologia dell’ADHD”, spiega la dott.ssa Elisa Morrone, “può disturbare il sonno del bambino che può far fatica ad addormentarsi, avere una scarsa qualità del sonno o non riuscire a dormire ore sufficienti per riuscire a riposarsi. Fattori che a loro volta possono provocare sintomi molto simili all’ADHD durante il corso della giornata. 

Contrariamente agli adulti, un bambino assonnato o privato del sonno può mostrare comportamenti iperattivi, impulsivi, disattenti e distruttivi. È sempre importante indagare con i genitori quali sono le abitudini di sonno del bambino, quante ore dorme per notte, se russa, se dorme con la bocca aperta, se è proprio alla sera che diventa più faticoso da gestire, perchè sono tutti campanelli d’allarme che devono portarci a sospettare anche un disturbo del sonno. Dobbiamo ricordare anche che durante la notte produciamo l’ormone della crescita, fondamentale soprattutto per i bambini: i bambini che dormono poco, che hanno un problema respiratorio avranno un ritardo nella crescita in termini di altezza ma anche una maturazione cerebrale più lenta”. 

Come vengono diagnosticati i disturbi del sonno nei bambini con Adhd?

“La diagnosi dei disturbi del sonno nei bambini”, spiega il Dott. Alberto Braghiroli,  parte da una accurata anamnesi fatta insieme ai genitori e si conclude con la scelta dello strumento più adeguato per la diagnosi, il più delle volte la poligrafia che permette di identificare la gravità del russamento, la presenza di apnee durante la notte e quindi avere un quadro completo del disturbo. 

La poligrafia è un esame semplice che il bimbo esegue a casa con la sorveglianza dei genitori che devono semplicemente fare attenzione che i sensori non si stacchino o si muovano nel corso della notte”. 

Come vengono trattati i disturbi del sonno nei bambini con Adhd?

Il trattamento possiamo dire dipende dall’età del bambino, ma generalmente il primo trattamento è di tipo chirurgico, mirato a togliere le tonsille e le adenoidi. Nei bimbi un po’ più grandi si può pensare a dei dispositivi che modificano la conformazione del palato, quindi della bocca, per facilitare il passaggio dell’aria.  

“È importante, spiega la dott.ssa Mauro, “intervenire inoltre sullo stile alimentare e di vita. In primo luogo, stabilire delle buone abitudini in modo che il bambino possa riposare a sufficienza ogni notte. Ad esempio: 

  • Stabilire un orario regolare per andare a letto e per studiare, 
  • Definire dei limiti al tempo trascorso sullo schermo. I bambini di tutte le età, ma anche gli adulti, dovrebbero interrompere l’uso dello smartphone o del tablet almeno un’ora prima di andare a letto. 
  • Creare un ambiente tranquillo per il sonno: rendere le camere da letto fresche, buie e silenziose per favorire un sonno riposante.
  • Seguire una buona alimentazione e fare esercizio fisico. Una dieta sana e un’attività fisica regolare possono migliorare il sonno e aiutare il bambino a concentrarsi a scuola. Gli studenti dovrebbero anche ridurre la caffeina”.

Come si manifestano generalmente i disturbi respiratori durante il sonno?

Questi disturbi si manifestano principalmente con il russare (tra l’8% e il 27%) e/o le apnee. Condizioni che causano una mancanza transitoria di ossigeno nel sangue, con conseguenze importanti per il bambino: compromettono i processi di crescita e sviluppo che avvengono durante il sonno; causano disturbi cognitivi e comportamentali durante la veglia (come difficoltà di apprendimento, iperattività, stanchezza e mancanza di concentrazione), molto simili alle caratteristiche dell’Adhd, il che porta spesso a una diagnosi errata e al trattamento con farmaci inefficaci e con effetti collaterali piuttosto conclamati.

Per questo i ricercatori invitano “i genitori di bambini che russano o che hanno difficoltà respiratorie durante il sonno, scarsi livelli di vigilanza durante il giorno e problemi di comportamento, a chiedere al proprio medico di fiducia di svolgere ulteriori accertamenti per giungere ad una corretta diagnosi”.

In che modo questa diagnosi errata può peggiorare la situazione?

“La diagnosi corretta deve essere la base per la scelta del trattamento”, spiegano le dott.sse Elisa Morrone e Marcella Mauro e il dottor Alberto Braghiroli, “una diagnosi errata o una diagnosi ‘a metà’ non aiuterà il bambino a crescere nel modo corretto. Il sonno è fondamentale per il nostro organismo, e a maggior ragione per l’organismo di un piccolo che è nella fase di crescita; non trattare un disturbo del sonno significa chiedere al bambino di vivere con metà delle capacità che può avere: fatica nel raggiungere gli obiettivi, stigma sociale perchè bambino difficile e complicato,  rischio di ritiro sociale e disturbi dell’umore da grande”, concludono gli specialisti.

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Lo psicologo svedese Dan Olweus, esperto in materia, definiva il bullismo come comportamento aggressivo intenzionaleazioni “vessatorie” persistenti nel tempo; uno squilibrio di forza/potere nella relazione, dove la vittima è incapace di difendersi.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto superiore di Sanità, in Italia, circa il 15% degli adolescenti ne è stato vittima almeno una volta nella vita. Di cosa si tratta e quali conseguenze può avere?

Ne abbiamo parlato con la dott.ssa Ylenia Canavesio, psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva di PsicoCare.

Come si può manifestare il bullismo?

Il bullismo può manifestarsi in diversi modi e verificarsi ovunque (a scuola, nei centri di aggregazione, a casa o sul web), tramite:

·  attacchi fisici (calci, percosse e spintoni)

·  attacchi verbali (insulti, prese in giro, minacce e altre forme di intimidazione o esclusione)

·  vessazioni indirette (diffondere voci ed esclusione sociale)

Generalmente, il bullo tende ad agire di nascosto, lontano dagli occhi e dal controllo degli adulti, anche se spesso cerca degli spettatori (i pari) che possano ammirare la sua condotta.

Cosa si intende per cyberbullismo?

Il cyberbullismo è una nuova forma di bullismo che utilizza Internet e le tecnologie digitali per manifestarsi con un impatto ancor più forte.

Una volta, infatti, il bullo era confinato soprattutto a scuola, oggi invece, grazie alle potenzialità e alle risorse offerte dalle app di messaggistica e dai social media, può arrivare ovunque, in qualsiasi momento, con un accesso costante alle vittime, senza limiti di tempo e spazio.

Inoltre, il cyberbullismo fornisce l’anonimato al bullo, allenta molti freni inibitori, indebolendo le remore etiche e amplificando la ferocia dell’aggressione (i bulli non possono vedere le reazioni delle loro vittime, per questo c’è meno rimorso e risulta più facile infliggere dolore e sofferenza agli altri).

Chi è più a rischio di bullismo?

Gli studi recenti affermano che il bullismo raggiunge un picco tra gli 11 e i 13 anni (coinvolgendo entrambi i sessi allo stesso modo) per poi diminuire man mano che i ragazzi crescono.

Quali sono le cause del bullismo?

Le cause che portano al bullismo non sono sempre facili da individuare e nella maggior parte dei casi hanno un’origine profonda. Possono essere legate a sentimenti di gelosia, invidia o inadeguatezza da parte dell’autore di questi gesti, derivare da problemi di gestione della rabbia o da una difficoltà a controllare gli impulsi.

Generalmente, il bullo è un soggetto fragile, sofferente, il cui comportamento è il riflesso di questa fragilità.

I ragazzi possono fare i bulli per differenti ragioni:

·   per sentirsi potenti e avere il controllo della situazione e stabilire un dominio sociale;

·   per affrontare sentimenti di rabbia o paura;

·   per assecondare la pressione dei pari;

·   perché hanno poche competenze sociali e capacità di autocontrollo;

·   per affrontare problemi di autostima e fiducia;

·   perché sono stati essi stessi vittime di bullismo o di violenza.

Che differenze ci sono tra bulli maschi e femmine?

La differenza principale tra maschi e femmine è nel modo in cui viene messo in atto il comportamento disfunzionale: i ragazzi sono per lo più protagonisti di aggressioni dirette e fisiche; le ragazze, invece, tendono a ferire gli altri attraverso la prevaricazione e la violenza psicologica, colpendo così la sfera più intima della vittima.

 Chi sono i bullizzati?

Bambini insicuri che acconsentono facilmente alle richieste del bullo e che non sempre sono in grado di farsi valere o denunciare: secondo le statistiche di Indicators of School Crime and Safety (2018), solo il 20% dei bullizzati denuncia gli episodi di bullismo scolastico per vergogna, timore di sentirsi deboli o paura di peggiorare la situazione.

Cosa possono fare i genitori?

La prima cosa che un genitore può fare è quella di prestare attenzione ad eventuali segnali di cambiamento nel bambino, sia dal punto di vista fisico che psicologico e comportamentale. Essere vittima di bullismo, infatti, può portare a ripercussioni e vissuti psicologici profondi, specie per chi soffre in silenzio, tenendosi tutto dentro, per paura di denunciare l’accaduto. Un malessere che in certi casi può condurre alla comparsa di sintomi psicosomatici (come risposta fisica ad un disagio psicologico) o ad una sintomatologia più importante a lungo termine.

La vittima di bullismo può manifestare:

·   maggior stress o ansia, come agitazione, difficoltà legate al sonno, disattenzione o scoppi d’ira

·   veri e propri sintomi fisici, come cefalea, vomito e mal di pancia senza che sia presente un reale riscontro medico di malattia

·   calo improvviso del rendimento e a un impoverimento delle relazioni con i compagni (a scuola)

Tuttavia, non sempre le vittime di bullismo mostrano esplicitamente il disagio vissuto.

Tale sofferenza non è però unidirezionale. Secondo uno studio condotto dall’Association for Psychological Science i danni psicologici che si ripercuotono sulle vittime di bullismo spesso riguardano anche i bulli che hanno maggiori probabilità di soffrire durante l’età adulta.

Come si può contrastare il bullismo?

La famiglia e gli educatori rivestono un ruolo chiave nella lotta contro il bullismo. Il primo passo potrebbe essere quello di:

·   allenare le abilità sociali e relazionali e i comportamenti prosociali dei bambini (per esempio, insegnando l’empatia e la cooperazione tra pari ma anche assertività, gestione dei conflitti e delle paure relazionali);

·   aiutare i bambini di sviluppare fiducia nelle proprie capacità, rinforzando le loro qualità, insegnandogli ad accettare le loro fragilità e insicurezze come fatti normali e non diminutivi;

·   condividere in famiglia un sistema di valori basato sull’ascolto, sul rispetto dell’altro e sulla valorizzazione delle differenze.

Sono risultati fondamentali i progetti di prevenzione a supporto di quei bambini che già alla scuola dell’infanzia sono a rischio di isolamento e vittimizzazione.

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I trattamenti aggressivi, il dolore, i sintomi avversi, le limitazioni funzionali, l’incertezza sul futuro, sono solo alcuni degli aspetti che accompagnano la diagnosi di cancro. 

Nei pazienti allo stadio iniziale, subentra anche il timore di recidiva e metastasi; mentre nei soggetti che si trovano già in stadi avanzati, la certezza che la loro vita stia per finire.

Così, oltre alla malattia subentrano disturbi dell’umore e da stress post-traumatico, ansia, depressione, angoscia. “Perché proprio a me?” è una delle prima domande che sorge spontanea. Accettare questa diagnosi non è sempre facile, anzi, non lo è per niente. Tuttavia, l’accettazione del cancro gioca un ruolo fondamentale nell’adattamento psicologico alla malattia. Ce ne parla il dott. Giacomo Calvi Parisetti, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Quali sono gli stravolgimenti che porta con sé la diagnosi di cancro?

Il cancro è uno degli eventi più traumatici e stressanti con il quale può confrontarsi una persona, in quanto si tratta di un processo incontrollabile che invade il corpo e la mente, li trasforma e li conduce, in vari casi, alla morte (Grassi e al., 2003).

Gli effetti della malattia oncologica sono diversi e possono inficiare il paziente a diversi livelli tra loro interconnessi. Nello specifico, i principali effetti del cancro sull’individuo sono i seguenti:

  • A livello fisico: il corpo del malato subisce trasformazioni e modifiche anche violente per gli effetti delle terapie (dolore, mutilazioni, nausea, vomito, perdita di capelli, debolezza). Questi cambiamenti possono compromettere la qualità della vita quotidiana, rendendo l’individuo dipendente dall’aiuto degli altri e facendolo sentire impossibilitato nel vivere a pieno la vita in autonomia.
  • A livello psicologico: la persona si sente insicura, instabile, limitata nella propria libertà, teme la sofferenza, la morte e l’ignoto. La malattia modifica oltre al corpo anche la mente del paziente, costringendolo a un adattamento forzato alla nuova situazione.
  • A livello relazionale: nel paziente viene intaccato e minacciato il senso di appartenenza ai sistemi sociali (micro, come la famiglia e la cerchia di amici stretti, e macro, come il lavoro e la vita di comunità).
  • A livello spirituale: a questo livello, s’intende il senso dato dall’individuo alla vita e alla propria esistenza, questo è sperimentato con un forte coinvolgimento e molte domande vengono autoimposte, in un gioco di dolore, colpa e morte (Frankl, 1984).

Il passaggio dalla salute alla malattia va compreso per ogni singola persona, supportandone l’elaborazione nel tempo rispettandone la naturale evoluzione a livello emotivo: nella maggior parte dei casi si osservano infatti, una fase di allarme pre-diagnostico, una fase acuta ed una fase elaborativa, seguite o dalla guarigione, oppure dalla recidiva, fino agli esiti infausti (Grassi et al., 2003).

Come ci si può sentire dopo la diagnosi di cancro?

Subito dopo la fase di diagnosi e comunicazione della stessa, i pazienti affrontano la “fase terapeutica” in cui inizia il percorso di cura medica effettiva.

In questa fase, il paziente entra in ospedale e può vivere una sensazione di perdita della propria identità personale, fondendosi e cristallizzandosi con la malattia in atto (Torta & Mussa, 2014): oltre all’impatto con la struttura ospedaliera, la persona deve confrontarsi anche con gli effetti delle diverse terapie, che hanno conseguenze psicologiche differenti le une dalle altre.

L’intervento chirurgico viene vissuto sia come fonte di speranza, sia con un sentimento di ansia ed angoscia per le possibili conseguenze a livello di alterazioni dell’immagine corporea e per le mutilazioni che può comportare; la chemioterapia, d’altra parte, viene vista in modo ambivalente come portatrice di speranza di guarigione, oppure come un segnale di incertezza di un risultato positivo (Casali e Licitra, 2002).

È importante che il paziente venga informato sugli aspetti positivi e quelli negativi di ogni terapia e che possa partecipare alle decisioni che lo riguardano con consapevolezza.

Come si può reagire alla malattia?

Successivamente alla fase terapeutica, ed in generale, rispetto alla malattia oncologica, si possono osservare diverse reazioni.

Il paziente, in risposta alla malattia è mosso a cercare nuovi significati relativi sia a sé stesso sia alla malattia passando spesso attraverso periodi di attesa ed incertezza, come in un limbo, dal momento che egli non ha la certezza di essere salvo: alcuni individui adottano un atteggiamento difensivo razionale non manifestando ciò che provano (“thinkers”), altri adottano uno stile centrato sul confronto diretto (“confronters”), altri ancora si lasciano invadere da quello che provano (“feelers”) ed altri invece cercano di sfuggire al problema (“avoiders”) (Parkes, & altri, 1996).

Per quanto riguarda le modalità di reazione dei pazienti alla malattia (stili di coping), possiamo osservare cinque tipologie diverse (Greer et al., 1979; Morris et al. 1985; Greer & Watson, 1987):

  • Spirito combattivo: risposte di confronto, affrontano la malattia come una sfida; ansia e demoralizzazione congrue alla situazione; alta compliance ed adesione alle terapie;
  • Fatalismo: bassi livelli di ansia e depressione, scarso controllo percepito sugli eventi, rassegnazione;
  • Preoccupazione ansiosa: alti livelli di ansia, ricerca costante di rassicurazioni, ricerca di pareri medici o, al contrario, fuga da essi;
  • Disperazione-inermità: alti livelli di ansia e depressione, scarse strategie cognitive e controllo sugli eventi, scarsa compliance, rinuncia;
  • Evitamento: scarsi livelli di ansia e depressione, concentrazione su altri aspetti della vita, scarso confronto, ridotta compliance.

Perché accettare la malattia e quali sono le differenze tra accettazione e rassegnazione?

Rassegnarsi alla diagnosi di cancro significa considerare la malattia come un destino già scritto, che non si può cambiare o controllare, significa arrendersi e non lottare più per una vita appagante, scegliendo di vivere la malattia in modo passivo, rimanendo impotenti di fronte ad essa. Accettarla, al contrario, è la base per il cambiamento e l’adattamento alla malattia. Implica un atteggiamento attivo in cui aumentiamo la nostra consapevolezza e prendiamo maggiormente coscienza della nostra situazione e ciò che ne consegue in tutte le sue sfaccettature dall’ambito medico, a quello psicologico ed emotivo, passando per quello familiare, sociale e lavorativo. L’accettazione, come presa di coscienza di una situazione nuova, per quanto difficile ed avversa possa essere, favorisce in maniera esponenziale un cambiamento pro-attivo, con numerosi benefici relativi al miglioramento della qualità di vita, all’iter terapeutico e all’aderenza alle cure.

Che aiuto può offrirmi lo psicologo psicoterapeuta?

La letteratura scientifica è concorde nell’affermare che, nei pazienti oncologici, il supporto psicologico e sociale porti a un migliore della qualità di vita e del loro decorso della malattia e che, al contrario, la presenza di problematiche emotive conduca ad un peggioramento del quadro clinico del paziente (Boere et. al, 1999; Chida et. al, 2008).

Il paziente oncologico necessita di una presa in carico globale, con interventi diretti ad obiettivi differenti: centrale è l’intervento sul paziente, per contenere il suo stato di sofferenza, aiutarlo a sviluppare comportamenti più adattivi, favorire le comunicazioni tra soggetto, medico e famiglia, restituire al paziente ed alla sua famiglia il senso del futuro e spiegare il peso delle variabili psicologiche sullo sviluppo e la manifestazione delle malattie fisiche (Torta, 2007). Collocandosi nel campo del supporto specialistico, gli interventi psico-oncologici, inducono significative riduzione dei livelli di ansia, depressione e distress, migliorando così la qualità della vita dei pazienti (Kissane et al., 2004; Linden et al., 2011).

Gli obiettivi degli interventi psicologici in ambito oncologico sono (Fawzy, 1995):

  • Diminuzione del vissuto di isolamento, del senso di impotenza, della perdita di speranza;
  • Riduzione della preoccupazioni relative al trattamento;
  • Riduzione dei livelli di ansia e depressione;
  • Consulenza per il chiarimento relativo a dubbi e/o informazioni errate;
  • Responsabilizzazionè nei confronti dei processi di cure e di guarigione;
  • Miglioramento della compliance;
  • Miglioramento della qualità di vita;
  • Creazione e ottimizzazione di strategie di coping adattive.

Gli interventi psicologici si dividono quindi in counseling e psicoterapie (a livello individuale, familiare o di gruppo), principalmente con approccio cognitivo-comportamentale e/o psicodinamico; inoltre sono ampiamente utilizzati interventi di tipo psicoeducazionale, i quali hanno l’obiettivo di chiarire ed informare i pazienti sulle proprie condizioni fisiche, i trattamenti e gli effetti collaterali, spiegare le reazioni emozionali più frequenti ed i problemi che possono essere incontrati nei vari ambiti di vita (Torta, & Mussa, 2014) ed incoraggiare la comunicazione rispetto alla malattia ed al disagio emotivo.

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Il primo venerdì di febbraio viene celebrata la Giornata dei calzini spaiati, una ricorrenza – nata in una scuola elementare di Terzo di Aquileia (Udine) da un’idea della maestra Sabrina Flapp – in cui vengono celebrate le diversità, l’accettazione degli altri, il rispetto reciproco, l’inclusività e la solidarietà. Chiunque può aderire. Per farlo è sufficiente indossare un paio di calzini spaiati. A scuola, a casa, al lavoro.

Ce ne parla il dott. Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Cosa significa mettere i calzini spaiati?

Nessun paio di calzini è perfettamente uguale all’altro, così come nessuno di noi è esattamente uguale agli altri. Indossare calzini spaiati, è una metafora delle diversità che in questo caso vuole sottolineare come piccole differenze di una calza – colore, fantasia, tessuto o lunghezza – non siano comunque sufficienti ad alterarne la natura: in qualsiasi modo la indosseremo rimarrà sempre e comunque un calzino.

Proprio come i calzini sono disponibili in vari colori, stili o modelli, anche le persone possono essere differenti tra loro, pur rimanendo delle persone. Il gesto di indossare due calze differenti ci incoraggia così ad abbracciare queste piccole differenze, spingendoci ad una maggiore accettazione degli altri.

Si tratta di un atteggiamento che contribuisce inoltre a creare un mondo in cui ogni persona può essere orgogliosa delle proprie caratteristiche e peculiarità, senza avere la paura di essere giudicata o discriminata perché diversa da un’altra. È un modo per celebrare l’unicità del singolo individuo in quanto elemento di arricchimento.

Perché è importante accettare le diversità?

Il concetto di diversità include accettazione e rispetto. Significa comprendere che ogni persona è unica, significa riconoscere le differenze individuali (etnia, genere, aspetto fisico, orientamento sessuale, credenze religiose o politiche, stato socioeconomico, etc) andando oltre la semplice tolleranza, per abbracciare e celebrare la diversità di ogni singolo individuo, costruendo alleanze (caratterizzate da rispetto reciproco) al di là delle differenze, lavorando insieme per sradicare tutte le forme di discriminazione.

Perché è importante l’inclusione?

L’inclusività è essenziale in quanto significa, primariamente, il riconoscimento delle differenze: il soggetto non viene totalmente assorbito da una “media” di funzionamento della popolazione generale: tali differenze e peculiarità, se lette in maniera corretta, divengono elementi di arricchimento per il gruppo di riferimento e/o per la società; il soggetto acquisisce quindi la stessa dignità dei soggetti che lo hanno incluso, ma senza necessariamente diventare simile a loro.

Cosa ci impedisce di accettare la diversità e l’inclusione?

Sicuramente un possibile ostacolo all’inclusione è il costrutto del pregiudizio, una rete di idee “precostruite” e rigide che fungono da muro, non permettendo di interagire con una realtà diversa da quella “prototipica” o attesa. Il pregiudizio non è altro che il tentativo di protezione nei confronti della paura e dello smarrimento che è possibile sperimentare una volta travalicato il muro del pregiudizio

Vi è poi la sperimentazione della fatica del “come fare” ad essere inclusivi, una volta superato l’ostacolo del pregiudizio; la difficoltà attuativa di un atteggiamento inclusivo presenta una serie di ostacoli o “nodi” che, per essere travalicati, richiedono pazienza, perseveranza e consapevolezza.

Perché bisognerebbe celebrare la Giornata dei calzini spaiati?

Celebrare la giornata dei calzini spaiati, specialmente a scuola, significa costruire un sistema educativo che insegni e rispetti la diversità individuale, garantendo al tempo stesso che la diversità sia inclusa il più possibile.

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Dopo la vittoria agli Australian Open, le prima parole del tennista italiano Jannik Sinner sono state di gratitudine verso la sua famiglia: “auguro a tutti di avere genitori come i miei, che non mi hanno mai messo sotto pressione anche quando giocavo ad altri sport, e auguro a tutti i bambini la libertà che ho avuto io grazie ai miei genitori”.

Parole importanti che sottolineano l’importanza dei genitori nello sport praticato dai propri figli. Ce ne parla la dott.ssa Elena Campanini, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

Qual è il ruolo dei genitori nello sport?

“Le parole di Sinner sono un distillato di quello che i genitori dovrebbero fare per aiutare i propri figli a vivere l’esperienza dello sport in maniera costruttiva.

Lasciare libero un figlio nella pratica di uno sport significa “lasciarlo essere” ovvero essere libero di autodeterminarsi e di farcela da solo senza troppi aiuti e intrusioni genitoriali. Si comincia  essendo dei buoni accompagnatori sia di nome che di fatto, partecipi, ma non intrusivi; è buona cosa rimanere sempre un passo indietro nel rispetto del raggio di azione del figlio, lasciandolo sulla soglia dello spogliatoio, luogo assai significativo, libero di potersi spogliare, farsi la doccia, vestirsi da solo, rapportarsi con i compagni, per poi poter andare in campo non necessariamente per vincere, ma per giocarsela tutta. Che sia in occasione di un allenamento o di una competizione non vi dovrebbe essere differenza.

Il genitore deve essere il primo tifoso del figlio, senza però scadere in fanatismi sia di glorificazione che di denigrazione e deve astenersi da valutazioni e commenti tecnici; per quello c’è l’allenatore. Il genitore deve essere un portavoce esplicito di “fair play” ovvero di correttezza a partire da come sta in tribuna, a come si rapporta con i tecnici, gli allenatori, gli altri atleti e gli altri genitori; significa inoltre insegnare e dare il buono esempio nel competere in virtù del rispetto delle regole e senza imbrogli, dei limiti propri ed altrui, nel non considerare l’avversario come un nemico, nell’accettare la sconfitta con dignità e che l’errore sia visto come uno sprone per crescere e per migliorarsi e non si traduca in un motivo per sentirsi dei falliti.

Vanno inoltre ricordati alcuni doveri fondamentali dei genitori fra cui lasciare che il figlio possa essere libero di scegliere il proprio sport in nome della propria soddisfazione e del proprio divertimento, ma soprattutto  senza che senta l’obbligo di diventare un campione; che siano inoltre dei vigili attenti a che la pratica sportiva avvenga in sicurezza e sia funzionale alla sua educazione; che lo sport sia un valore aggiunto e assai peculiare per la sua crescita psicofisica e culturale; che sport e scuola possano essere tranquillamente compatibili e addirittura di aiuto l’uno con l’altro, basta volerlo. Che ci sia un avviamento allo sport, specie se agonistico, graduale e senza una precoce specializzazione e che lo sforzo richiesto sia in linea e rispettoso del suo sviluppo psicofisico”.

Quali sono gli sbagli che si tendono a fare più spesso?

“Gli errori più frequenti nascono tutti da una stessa radice malsana, che è quella di vivere le esperienze dei figli senza soluzione di continuità. È un errore educativo che si ritrova in molti ambiti a partire da quello scolastico. Le conseguenze sono quelle di vivere il figlio come un proprio prolungamento, una sorta di appendice da cui si pretende la soddisfazione di esigenze o bisogni personali spesso reconditi, ma agiti all’interno della relazione educativa. 

I più comuni fra questi sono la visibilità e l’eccellenza ad ogni costo e in tempi non congrui con le reali capacità psicofisiche del giovane atleta, fra cui anche quella di gestire l’eventuale notorietà e successo. E qui risuona forte il significato profondo del ringraziamento di Sinner ai propri genitori per averlo lasciato libero. 

Le conseguenze per il figlio possono spesso essere deleterie: in primis che lo sport diventi l’ennesimo dovere a cui far fronte senza alcuna personale soddisfazione se non quella di far piacere al genitore esigente e di non deluderlo in caso di sconfitta. 

È noto che alcuni genitori usino premi, talvolta anche in denaro, e punizioni a suggello dell’andamento delle prestazioni dei piccoli atleti a fronte di attività agonistiche praticate a livello amatoriale. Mi sento di affermare che lo sport fatto così fa male ed è purtroppo il prodotto della cultura del narcisismo in cui viviamo e di cui lo sport è tristemente teatro.

Non è un caso che nel 1992 la Commissione del Tempo Libero dell’O.N.U. abbia redatto la Carta dei Diritti allo Sport in cui fra i dieci articoli da cui è composto, oltre che dichiarare in prima battuta che ogni bambino ha il diritto di praticare sport e attività motoria, si puntualizza il diritto di giocare e di divertirsi e di non essere sempre un campione. Gli atleti di vertice in tal senso ci insegnano che non si può vincere sempre e che il divertimento è la motivazione fondamentale per sopportare la fatica, il peso e la pressione di essere un vincente. Nessun cachet anche se assai profumato ha la stessa valenza!”.

Che aiuto può fornire ai genitori uno Psicologo dello Sport?

“La Psicologia dello Sport è una branca della psicologia che si occupa di studiare il comportamento umano legato all’attività sportiva, intervenendo sugli aspetti psicologici, sociali, pedagogici e psico-fisiologici, nonché sul benessere psicofisico di chi pratica attività sportiva e motoria in ogni età. Nello sport professionistico o di vertice lo psicologo lavora con l’atleta sulla performance, intervenendo su variabili come motivazione, attivazione, abilità cognitive etc. avendo sempre come focus principale la persona/atleta in un’ottica di ottimizzazione tra benessere e rendimento.

Nello sport dilettantistico o nell’ambito dell’agonismo in età evolutiva lo psicologo dello sport si occupa principalmente del buon funzionamento delle organizzazioni sportive e del benessere degli atleti, apportando competenze e capacità tipiche del suo profilo declinate attraverso interventi di counseling individuale e di collaborazione a livello organizzativo.

Le motivazioni che possono giustificare un consulto possono essere molte e in linea con quanto detto. Alcune spie di disagio da tener presenti sono: 

  • insonnia
  • stanchezza 
  • demotivazione
  • minaccia di abbandono precoce
  • over training
  • manifestazioni somatiche di ansia 
  • infortuni ricorrenti
  • approccio al cibo non sereno
  • conflitti con la propria immagine corporea 

In questi casi lo psicologo dello sport ha le competenze peculiari per fare una diagnosi differenziale e intervenire su ciò che vi è alla base del disagio, ma come in altri ambiti della salute, anche in questo caso è meglio prevenire che curare.


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L’ansia è uno stato emotivo che rappresenta una risposta fisiologica a situazioni di pericolo, o meglio ritenute come tali. Si genera da stimoli interni ed è una sorta di sistema di allarme per difendersi, legato alla sopravvivenza.

L’ansia rende infatti più sensibili, più reattivi e potenzia la capacità di difesa; se però è vissuta in maniera negativa o se condiziona la quotidianità in maniera importante, può diventare un problema anche invalidante.

Ma perché i disturbi d’ansia riguardano solo alcune persone? Come può un familiare o una persona cara aiutare chi ne soffre? E, soprattutto, dall’ansia si può guarire?

Ne parliamo con il dottor Francesco Cuniberti, psichiatra presso Humanitas Medical Care Principe Oddone a Torino e specialista del centro PsicoCare.

Perché alcune persone soffrono di ansia e altre no?

L’ansia è una funzione del cervello, necessaria per affrontare le ‘emergenze’ che spaventano o preoccupano. Se è vero che l’eccesso di ansia può paralizzarci, dobbiamo ricordare che anche una sua totale assenza causerebbe altrettanti problemi. 

In generale le persone possono diventare ansiose sia perché sono predisposte costituzionalmente che per esperienze di vita negative ripetute che hanno condizionato lo sviluppo di una sensazione di precarietà e fragilità.

Nel caso specifico degli attacchi di panico dobbiamo partire dal concetto che ci sono persone che hanno un sistema di controllo delle funzioni di base del corpo, come la respirazione, il cuore e l’equilibrio, più fragili del normale: questa percezione di ‘fragilità’ fa scattare il nostro sistema d’allarme interno in maniera inappropriata, portando a sensazioni di malessere somatico che possono arrivare a veri e propri attacchi di panico.

Come comportarsi se una persona cara soffre di disturbi d’ansia?

Non tutti coloro che soffrono di disturbi d’ansia accettano un aiuto esterno.

È dunque molto importante attuare alcuni accorgimenti ed evitare atteggiamenti che l’interessato potrebbe interpretare come nocivi. Innanzitutto i disturbi d’ansia sono numerosi e multiformi, informarsi è un buon modo per avvicinarsi all’interessato. Mostrare empatia è ugualmente importante: bisogna riconoscere che la persona sta soffrendo e che la sua sofferenza è reale e difficile da sopportare. Fondamentale è abolire i comportamenti giudicanti: quelli che possono sembrare piccole difficoltà possono essere percepite come insormontabili per chi soffre di questo disturbo.  

Mai banalizzare o negare l’esperienza ansiosa e avere un approccio sprezzante: soluzioni, consigli semplicistici e fai-da-te non sono sufficienti, e suggerire di provarci con più convinzione può essere svilente e indurre vergogna nella persona che soffre. 

Molto meglio offrire un aiuto concreto e supporto, ad esempio nel fare qualche commissione quotidiana: l’ansia può compromettere infatti la vita di tutti i giorni e offrirsi di fare qualcosa di specifico, assicurandosi di aver ottenuto il consenso della persona stessa, sarà sicuramente un gesto apprezzato. 

Si può poi incoraggiare il proprio caro a rivolgersi a uno specialista, magari aiutandolo a trovare il professionista adeguato e di accompagnarlo a un primo colloquio.

Infine, un consiglio per sé stessi. Aiutare chi soffre di un disturbo d’ansia può essere difficile e può provocare frustrazione e stress. Per questo non bisogna trascurarsi, ma essere consapevoli di quanto aiuto possiamo offrire e di quali siano i nostri limiti, mantenendo un equilibrio anche emotivo. 

E quando da soli non si riesce a supportare e a sopportare la sofferenza della persona cara, chiedere aiuto anche per sé stessi non deve essere considerato un fallimento o una vergogna.

Si può guarire dall’ansia?

Gli ultimi dati dicono che oltre 300 milioni di persone nel mondo soffrono per un disturbo d’ansia che è il disturbo mentale che colpisce più persone al mondo. Gli studi ci dicono che meno di 1 paziente su 10 riceve cure corrette diventando spesso cronico e vedendo la propria qualità di vita compromessa.

È bene sapere che ad oggi il successo della terapia è garantita in quasi tutti i casi, quando si curano i disturbi d’ansia e di panico seguendo le principali linee guida internazionali per scelta della terapia. La terapia combinata con specifici farmaci ad azione sulla serotonina/noradrenalina e una psicoterapia breve cognitivo-comportamentale risulta essere la via più valida per permettere alla persona che soffre di ritrovare la serenità e la libertà quotidiana perdute e tornare ad avere una buona qualità di vita.

Per maggiori info chiama il numero 011 0416060

Humanitas Medical Care Principe Oddone – corso Principe Oddone, 30 (Torino)

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