L’attacco di panico è un episodio improvviso caratterizzato da un intenso disagio, ansia o paura che la persona sperimenta accompagnati da almeno 4 sintomi somatici e/o cognitivi sottoelencati:

  • Cognitivi: paura di morire; paura di impazzire o di perdere il controllo; sentimenti di irrealtà, estraneità (derealizzazione), o distacco da sé (depersonalizzazione):
  • Somatici: dolore o fastidio al petto; vertigini, sensazione di instabilità o svenimento; sensazione di soffocamento; vampate o brividi; nausea o dolori addominali; intorpidimento o sensazioni di formicolio; palpitazioni o aumento della frequenza cardiaca; sensazione di respiro corto o di soffocamento; sudorazione; tremore.

Si parla di “disturbo di panico” in presenza di episodi ricorrenti e inaspettati, accompagnati dalla paura di un futuro attacco (molto spesso la persona arriva a adottare strategie di evitamento, facendo di tutto per non ritrovarsi in determinate situazioni che precedentemente hanno causato un attacco di panico, per paura che il disturbo si ripresenti mettendolo in pericolo) che possono compromettere in modo importante la qualità di vita della persona.

Tuttavia, numerosi studi confermano che la terapia cognitivo comportamentale sui disturbi di panico può essere molto efficace per gestire la sintomatologia acuta e il mantenimento dei successi ottenuti durante il follow up. Ce ne parla la dott.ssa Monica Piccinni, psicoterapeuta cognitivo comportamentale di PsicoCare.

Come funziona la terapia cognitivo comportamentale?

La terapia cognitivo comportamentale (Cognitive-Behaviour Therapy, CBT) è attualmente considerata uno degli interventi non farmacologici più affidabili ed efficaci per il trattamento del disturbo da attacchi di panico. Tale approccio evidenzia una complessa relazione tra emozioni, pensieri e comportamenti, sottolineando come i problemi emotivi siano il prodotto di credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo, a dispetto della sofferenza che la persona sperimenta e delle possibilità di cambiarli, a causa dei meccanismi di mantenimento. 

La CBT agisce prevalentemente sui sintomi sperimentati dalla persona, cercando di indebolire progressivamente e gradualmente i legami tra gli stimoli ansiogeni e la percezione dell’ansia. Si propone di aiutare il paziente ad individuare i propri pensieri catastrofici e angoscianti, formati a causa del disturbo, e gli schemi disfunzionali di ragionamento e a riconoscerne l’irrealtà, provando a modificarli attraverso il cambiamento del comportamento.

Quali sono i benefici della terapia cognitivo comportamentale sul Disturbo da attacchi da panico?

Attraverso il percorso di trattamento e la costruzione di un programma comportamentale specifico e strutturato, l’aspetto comportamentale prevede di esporsi gradualmente alle situazioni ritenute pericolose o minacciose dalla persona, provando a ridurre gradualmente le condotte di evitamento fobico e di conseguenza l’ansia anticipatoria associata alla paura di poter ri-sperimentare un attacco di panico in situazioni uguali o simili a quelle temute. Una parte essenziale di questo approccio risulta infatti essere l’interazione e la collaborazione tra paziente e terapeuta attraverso dei compiti da svolgere insieme e/o in autonomia al domicilio e l’acquisizione di tecniche specifiche per la gestione dell’ansia (tecniche respiratorie e di rilassamento). L’intervento cognitivo punta invece a modificare le convinzioni, i vissuti emotivi negativi e le distorsioni cognitive formate a causa del disturbo, stimolando le risorse interne della persona che può gradualmente tornare a ‘funzionare’ e a riprendersi la libertà di azione perduta.

Quanto dura la terapia cognitivo comportamentale per il trattamento del Disturbo da attacchi da panico?

La durata della terapia cognitivo comportamentale è chiaramente determinata da vari fattori (la motivazione del paziente, lo stabilirsi di una buona relazione terapeutica, l’adesione al programma stabilito) ed è strettamente connessa alla gravità del disturbo presente e del livello di malfunzionamento. La CBT è considerata comunque un trattamento di breve/media durata perché è centrata sul problema e ha come obiettivo quello di fornire soluzioni dirette e a breve termine e tendenzialmente può variare dai sei ai dodici mesi. 

La terapia cognitivo comportamentale ha dei limiti per il trattamento del Disturbo da attacchi da panico?

Nel trattamento cognitivo comportamentale si possono creare delle resistenze da parte del paziente a causa della paura di affrontare le situazioni temute ritenute troppo difficili e impossibili da modificare o della difficoltà a raggiungere velocemente gli obiettivi concordati, le quali, in alcuni casi, possono portare ad un precoce abbandono della cura.

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Consegnare un dispositivo elettronico in mano ad un bambino può calmare i capricci e dare una pausa agli adulti. Ma quali sono le conseguenze?

Qualche anno fa la Società Italiana di Pediatria ha pubblicato delle linee guida, sconsigliando smartphone e tablet prima dei due anni, durante i pasti e prima di andare a dormire, limitandone l’utilizzo a un massimo di un’ora al giorno, per i bambini di età compresa tra i 2 e i 5 anni; e a un massimo di 2 ore, per quelli di età compresa tra i 5 e gli 8 anni.

Quali sono i rischi e cosa succede se vengono superati i limiti di utilizzo? Ce ne parla la dott.ssa Dora Siervo, psicoterapeuta di PsicoCare.

Abuso dispositivi elettronici, quali sono gli effetti sui bambini?

La prima ad essere perduta, è la capacità manuale. Questa “gabbia neuronale” a cui vengono sottoposti i bambini quando gli viene consegnato un dispositivo elettronico, li mette in una condizione di passività che non ha nulla a che vedere con tutte quelle cose che invece farebbero bene alla loro età, come disegnare, colorare, fare costruzioni, lavoretti che richiedono manualità, come anche cucinare sporcandosi le mani.

Cosa causa questa diminuita capacità manuale?

Oltre ad una minor capacità di fare le cose, si genera anche una diminuita motricità (al computer e al cellulare si sta da fermi e ci si muove davvero poco per quell’età), accanto ad una forte diminuzione del grado di attenzione che poi, negli anni successivi, si tradurrà in difficoltà a riuscire a seguire con la dovuta continuità le lezioni scolastiche. Infine, viene a mancare anche la cosiddetta motricità fine, quella che servirà, ad esempio, quando cominceranno a scrivere alle scuole elementari.

Cosa provoca questa diminuzione del grado di attenzione?

Questi dispositivi, da un lato hanno un effetto ipnotico, dall’altro bombardano il cervello con continue informazioni che si accavallano una sull’altra in tempi ristrettissimi.

La mente dei bambini (ma lo stesso accade anche con gli adulti) viene bombardata da continui stimoli che a lungo andare provocano una difficoltà di concentrazione protratta nel tempo.

Tanti insegnanti riferiscono che i bambini, fin dalle prime classi, hanno bisogno di essere stimolati in continuazione perché sono incapaci di seguire un unico discorso anche solo per alcuni minuti. Questo provoca in loro una certa irrequietezza, difficile da gestire per chi deve tenere ben salda l’attenzione dei venti e più bambini riuniti in una singola classe.

È giusto che i bambini si annoino?

Stimolarli è importante; tuttavia, è anche vero che non bisogna oberarli di attività, per non rischiare l’effetto contrario, quello che poi porta all’iperattività.

Molto spesso i bambini ricercano i dispositivi elettronici per non annoiarsi o perché non sanno cosa fare. Ed è proprio questo il punto: la noia, nell’età evolutiva, è fondamentale perché può spingerti ad immaginare e creare delle cose stupende. Se ti annoi sei portato a inventarti giochi, a costruire oggetti con quello che hai a disposizione, a disegnare, a dedicarti alla musica, anche se in modo abbozzato, vista la tenera età.

Cosa possono fare i genitori?

Mettere fin dall’inizio dei limiti, dei paletti precisi, oltre cui non si può andare. In questo modo sarà più facile, poi, pretendere che il bambino li rispetti. Intervenire quando ormai è troppo tardi e il piccolo si è già abituato a ritmi non adatti, renderà il tutto più complicato.

Come fare? Ad esempio, si possono stabilire delle fasce orarie: “puoi usarlo solo dalle 14 alle 15” oppure “puoi usarlo un’ora al giorno, decidi tu quando”.

In genere il bambino si lamenta, ma poi si abitua a seguire le indicazioni. Tuttavia, è fondamentale che poi anche gli adulti diano il buon esempio, non passando troppo tempo davanti ai dispositivi elettronici.

Infine, è importante stimolare l’attenzione dei bambini (e in seguito dei ragazzi), invitandoli a leggere, portandoli a visitare musei, mostre, concerti, o a fare qualche passeggiata (in città, in campagna, nei parchi, in montagna, sulla spiaggia) ma soprattutto, ascoltandoli. I bambini hanno bisogno di essere guardati, devono sentire l’attenzione degli adulti che hanno di fronte. A volte può bastare fermarsi, sedersi al loro fianco, guardarli negli occhi per conquistare la loro attenzione. Non è sempre facile, perché siamo sempre presi da mille impegni, ma in alcuni momenti è proprio importante dire al proprio figlio: “Ok, sono qui vicino a te e ti ascolto con attenzione”.

E lo stesso vale anche per i preadolescenti: tante problematiche che si sviluppano a quell’età nascono dell’idea che il ragazzo si fa di non interessare ai propri genitori, che mostrano di avere sempre altre cose per la testa. Quante volte vi è capitato di sentirvi dire: “Hai capito?” oppure ripetere più volte lo stesso concetto? È proprio perché hanno l’impressione che tu non l’abbia ascoltato a dovere. Per questo è importante fermarsi – anche fisicamente – e ascoltare i propri figli.

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La maggior parte di noi vede la rabbia come qualcosa di negativo, pensa che per essere bravi e buoni non dovrebbe mai arrabbiarsi ma mantenere la calma e controllare l’aggressività; tuttavia, il primo errore è proprio questo: dare per scontato che rabbia ed aggressività siano la stessa cosa. Che cos’è dunque la rabbia e come possiamo imparare a gestirla?

Ce ne parla il dott. Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Che cos’è la rabbia e a cosa serve?

La rabbia fa parte dell’esperienza umana, è un’emozione universale (indipendentemente dall’età, dalla cultura e dall’etnia di appartenenza) e svolge un ruolo fondamentale nella nostra vita perché segnala la violazione dei propri diritti o la presenza di un ostacolo al raggiungimento dei nostri obiettivi. Pertanto, dovrebbe essere intesa come un campanello di allarme che avvisa chi la sperimenta, che qualcosa o qualcuno potrebbe arrecargli un danno, impedirgli di raggiungere un obiettivo o esporlo ad un’ingiustizia.

Ma non solo, la rabbia può essere anche una reazione fisiologica all’impotenza sperimentata di fronte a contesti immodificabili (come un lutto o una diagnosi oncologica) o assolvere alla funzione di preparare all’azione, predisponendo l’individuo ad organizzare comportamenti mirati alla rimozione dell’ingiustizia e/o del danno. Infatti, anche la sola comunicazione verbale e non-verbale (mimica facciale e postura) della propria rabbia può esercitare una certa influenza sul comportamento degli altri.

La rabbia coincide con il forte sentimento di malessere; l’aggressività con l’attacco fisico e verbale. La rabbia può sfociare in comportamenti aggressivi (come urlare o lanciare oggetti) o aumenta la probabilità di metterli in atto.

Le persone che sperimentano livelli elevati di rabbia hanno infatti una probabilità maggiore di compiere azioni ostili (come discussioni accese, distruzione di proprietà o aggressioni fisiche); tuttavia, la rabbia non sfocia sempre in azioni violente e aggressive, così come la violenza e l’aggressione possono verificarsi anche in assenza di rabbia (per esempio nel caso di una rapina dove l’aggressione è puramente strumentale).

Esistono infatti, azioni aggressive depurate dalla rabbia e azioni rabbiose che non possono essere definite aggressive. Si può essere aggressivi pur non essendo arrabbiati (motivati, per esempio, dalla volontà di esprimere dominanza o sottolineare la propria superiorità in un determinato contesto), e si può manifestare rabbia senza essere aggressivi (stringendo i pugni, urlando o digrignando i denti). 

Inoltre, la rabbia, se ben gestita, può avere un’importante funzione anche all’interno delle relazioni e dei rapporti interpersonali: ascoltare e validare la rabbia ci permette di individuare i nostri “confini” relazionali, evitando così di sentirci invasi o calpestati dal partner, da un amico o un familiare.

Come si può gestire la rabbia?

Gestire la rabbia non significa controllarla o inibirla, ma modularne la risposta emotiva, adeguandola allo specifico contesto. Dobbiamo fare pulizia iniziale e cominciare a liberare questo sentimento dal concetto di giusto e sbagliato, smettendo di associarla all’aggressività, riconoscendo la giusta dimensione emotiva di questa emozione che, come tutte le altre, deve poter fluire nel modo adeguato

Reprimerla porterebbe solo all’esplosione della rabbia attinta da vari contesti (in ufficio, nel traffico, con il/la partner o i figli) in una situazione che presa singolarmente non giustificherebbe quel comportamento, portandoci ad esplodere per un nonnulla, con crisi di violenza e aggressività senza limiti, con una doppia ripercussione negativa che potrebbe gli altri a pensare che siamo troppo aggressivi o che ci accendiamo per una sciocchezza e noi ad avere un senso di colpa per il nostro comportamento.

Di seguito, alcuni suggerimenti che potrebbero aiutarci a gestirla nel modo giusto:

·  Respira: quando la rabbia ci sta “accecando”, la probabilità di mettere in atto agiti impulsivi aumenta; prendiamoci un attimo per “deattivarci” attraverso la tecnica del respiro lento e permetterci di avere una prospettiva più lucida sull’evento che ha scatenato l’emozione della rabbia;

·  Cambia prospettiva (perspective taking): invece di andare subito all’attacco di chi ha prodotto un danno, proviamo a chiederci quali siano le sue motivazioni. Magari non era sua intenzione fare del male o farci arrabbiare;

·  Comunica in maniera assertiva: affronta esplicitamente quella che pensi possa essere una concausa della rabbia. Quando la rabbia è ormai sbollita, vai e chiarisci con calma i motivi della tua rabbia. Coltiva la tua assertività, imparando a rispettare gli altri senza calpestarli e soprattutto impara a rispettare te stesso, senza farti calpestare.

·  Chiedi aiuto a specialisti che possano darti una mano a gestire la tua rabbia. Esprimere la rabbia non significa distruggere o distruggersi.

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Quante volte ci è capitato di essere compassionevoli verso gli altri, prenderci cura di loro, trattarli con amore e cura quando ne avevano più bisogno per poi essere duri e critici con noi stessi magari nel momento in cui affrontavamo la stessa difficoltà? Perché proviamo compassione per gli altri e per noi no? Sono stati gli psicologi Kristin Neff e Chris Germer i primi a rispondere a questa domanda, creando un percorso per insegnare alle persone la gentilezza e la compassione verso sé stesse, intuendo quanto sia difficile farlo, specie in una società che ci vuole sempre più perfetti.

Ce ne parla il dott. Giacomo Calvi Parisetti, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Cosa si intende per auto compassione?

Prima di parlare di self compassion è fondamentale comprendere che cos’è la compassione. Tante volte, nella nostra società, questo concetto assume una valenza sgradevole, specie se è indirizzato verso di noi. Questo accade perché molto frequentemente tendiamo a confondere la compassione con la pena.

La differenza essenziale risiede nel fatto che spesso la persona che prova pena viene avvertita un gradino sopra la persona che è invece oggetto di pena (che si trova quindi su un gradino più basso) con una “differenza di rango”. Al contrario, la compassione implica una posizione “paritaria”, “allo stesso livello” in cui il vissuto viene condiviso empaticamente e con una funzione di cura.

Possiamo riassumere la compassione con una semplice equazione:

Compassione = Empatia (capacità di riconoscere le emozioni e i vissuti altrui) + Desiderio di supportare o alleviare la sofferenza altrui o propria.

Tuttavia, Hayes (2012) definisce la compassione come “l’abilità di esperire in modo accettante emozioni difficili; di osservare in modo mindful i nostri pensieri giudicanti, senza permettere loro di dominare le nostre azioni e i nostri stati mentali; di impegnarci in modo pieno con gentilezza e autovalidazione verso direzioni di vita ricche di valore; e di cambiare in modo flessibile la nostra prospettiva verso un più ampio senso di sé” (Hayes, 2012; Dahl, e coll. 2009).

Kristin Neff, pioniera nella pratica e nello sviluppo delle abilità di compassione, ne ha invece, identificate tre componenti: gentilezza verso sé stessi (ovvero essere gentili con noi stessi quando soffriamo o sbagliamo, piuttosto che giudicarci duramente), umanità comune (ricordandoci che tutti a volte soffrono o sbagliano e che non siamo gli unici ad affrontare momenti così difficili) e consapevolezza (non dobbiamo farci sopraffare dai pensieri negativi: va bene riconoscerli come dolorosi, ma sono solo pensieri, non uno stato d’animo).

A cosa serve l’auto compassione?

L’auto compassione ci consente di alleviare il disagio mentale (e volerci più bene) e ci aiuta a sviluppare e accrescere le nostre capacità e il nostro benessere.

Contrariamente a quanto si possa pensare, l’auto compassione non ci priva della motivazione a migliorare (“Se non mi autocritico quando sbaglio, sarò comunque in grado di imparare dai miei errori?”). Lo conferma una ricerca condotta nell’Università della California a Berkeley, dove ad alcuni studenti è stato chiesto di sostenere un esame accademico estremamente impegnativo, che nessuno è riuscito a superare bene.

Gli studenti erano stati divisi in tre gruppi, ognuno dei quali aveva ricevuto un annuncio diverso dopo il test. Ad un gruppo è stato dato un messaggio di autocompassione: “Se hai avuto difficoltà con il test che hai appena sostenuto, non sei solo. È normale che gli studenti abbiano difficoltà con un esame come questo”. Un altro gruppo ha ricevuto una spinta all’autostima: “Devi essere intelligente se entri a Berkeley!”.

Quindi i ricercatori hanno dato a tutti gli studenti la possibilità di studiare per tutto il tempo che ritenevano necessario per sostenere un nuovo test. Il gruppo dell’auto-compassione ha studiato più a lungo, mostrando la maggiore motivazione a migliorare dopo un fallimento iniziale (e segnando anche un punteggio leggermente più alto).

Questa motivazione al miglioramento si estende anche all’ambito interpersonale.

Gli stessi ricercatori hanno scoperto che le persone più auto compassionevoli hanno maggiori probabilità di chiedere scusa e fare pace con gli altri quando sbagliano, riconoscendo più facilmente i propri errori, perché non si sentono così psicologicamente schiaccianti da quest’ultimi. Ciò gli consente di assumersi più responsabilità per le proprie azioni e la sicurezza di dire: “Ok, ho fallito. Mi sento così male. Bene, è umano. Le persone fanno errori. Come posso ripararlo?”.

La self compassion è utile anche per molti disturbi mentali o situazioni di sofferenza emotiva, spesso riconducibili alla presenza del cosiddetto “Giudice interiore”, che attraverso processi di pensiero e meta-pensiero, come il rimuginio o la ruminazione, favorisce l’instaurarsi di circoli viziosi e il cronicizzarsi di vissuti di ansia e depressione. La self-compassion, in quest’ottica, funge proprio da antidoto,  configurandosi proprio come l’opposto benevolo del “Giudice interiore” .

A tal proposito, negli ultimi anni è stata sviluppata un nuovo approccio psicoterapeutico, che prende il nome di Compassion Focused Therapy (CFT) (Terapia basata sulla Compassione) e fa parte delle psicoterapie Cognitivo Comportamentali basate sulla Mindfulness.

Si tratta di una terapia messa a punto dal Prof. Paul Gilbert (2005), presso l’Università di Derby nel Regno Unito, psicologo e psicoterapeuta impegnato da molti anni nella ricerca clinica e scientifica sul senso di colpa, sulla vergogna e sull’autocritica, i quali sono elementi cardine di molti disturbi psicologici, dalla depressione alle psicosi.

Come fare self compassion?

È fondamentale allenare la propria consapevolezza: imparare a riconoscere il proprio giudice interiore, quella voce che ci dice “non sei stata abbastanza”, “potevi fare di più”, “ti sei visto così fai schifo”. Il semplice gesto di notare questa voce è il primo passo.

Anche la meditazione può essere un grande alleato; in particolare, la pratica mindfulness può aiutarci a sviluppare ed allenare la nostra consapevolezza. Allo stesso tempo, dobbiamo anche allenarci e sviluppare un dialogo compassionevole e comprensivo con noi stessi, allenando quella voce non giudicante, calda e accogliente che tiene conto dei nostri bisogni e delle nostre difficoltà (“Capisco e riconosco che questo sia molto faticoso per me”, “Posso concedermi di sbagliare”, “Cosa posso fare per prendermi cura di me stesso in questo momento?”).

Anche qui la meditazione è importante, offrendoci numerose pratiche di compassione e consapevolezza come, ad esempio, la Meditazione Metta e la Meditazione dell’auto-perdono.

Infine, in presenza di forte sofferenza fisica o del desiderio di approfondire maggiormente questo argomento, è sempre utile rivolgersi ad un esperto o ad una persona con esperienza nel campo, in questo caso può essere lo psicologo-psicoterapeuta con formazione specifica oppure una figura professionale (nutrizionisti, medici, istruttori di meditazione) che ha svolto una formazione in questo ambito.

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L’obesità viene considerata oggi uno dei più gravi problemi di sanità pubblica globale (il 39% degli adulti di età pari o superiore a 18 anni è in sovrappeso, il 13% è obeso). Solo in Italia sono più di 6 milioni le persone che ne soffrono e la sua prevalenza è ancora in aumento.

Come rispondere a questa emergenza sociale? L’approccio per il suo trattamento è di tipo multifattoriale che, indipendentemente dal tipo di intervento scelto dal paziente (farmacologico è chirurgico), si appoggia anche ad un percorso psicologico che si è rilevato fondamentale nell’accompagnare la persona durante tutte le fasi di cura.

Ce ne parla la dott.ssa Paola Mosini, psicologa presso il centro Psico Medical Care di Humanitas.

Che cos’è l’obesità e da cosa è causata?

Con obesità si intende un aumento della percentuale di massa grassa in relazione alla massa magra, dovuto ad uno squilibrio tra calorie assunte ed ossidate. Le cause sono spesso riconducibili a cattive abitudini alimentari (dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo), e scarsa attività. Tuttavia, esistono fattori genetici che influenzano la tendenza all’incremento ponderale e fenomeni di adattamento biologico che ostacolano la perdita di peso e il suo mantenimento.

Come viene valutata l’obesità?

Il sistema più utilizzato per valutare l’obesità è il calcolo dell’indice di massa corporea, (IMC o BMI), un valore numerico che si ottiene dividendo il peso (espresso in Kg) per il quadrato dell’altezza (espressa in metri).

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, vengono identificati come:

Normopeso = IMC da uguale a 18.5 fino a 24.99

Sovrappeso = IMC da uguale o superiore a 25 fino a 29.99

Obesità = IMC uguale o superiore a 30

Inoltre, l’obesità può essere ulteriormente suddivisa in:

Lieve o di 1° grado (B.M.I.= 30-34.9; con eccesso ponderale del 20-40%)

Media o di 2° grado (B.M.I.= 35-39.9; con eccesso ponderale del 41-100%)

Grave o di 3° grado o patologica (B.M.I. ≥40; eccesso ponderale oltre il 100%)

Quali sono le complicanze più frequenti associate all’obesità?

L’obesità, oltre ad avere un impatto importante sulla vita del paziente, dal punto di vista sociale, economico e psicologico, rappresenta un importante fattore di rischio per diverse patologie, come:

·  sindrome metabolica

·  ipertensione

·  dislipidemia

·  aumento del rischio cardiovascolare

·  diabete mellito di tipo II

·  reflusso gastroesofageo

·  apnee notturne (OSAS)

·  disturbi del sistema riproduttivo (come infertilità o basso livello di testosterone)

·  tumori

·  artrosi e artropatia

·  disturbi tendinei e fasciali

·  infezioni della pelle

Chi sono i soggetti più a rischio?

Secondo gli ultimi dati riportati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2022), in Europa l’obesità colpisce quasi il 60% degli adulti e il 30% dei soggetti in età pediatrica, con numeri in continua crescita. Oggi, infatti, l’obesità viene considerata tra le principali cause di morte e disabilità in Europa con più di 1.2 milioni di decessi all’anno.

In Italia, riguarda un minore su quattro, raggiungendo il 46.1% della popolazione tra le persone dai 18 anni in su con una prevalenza tra i 65- 74 anni.

Come può essere curata l’obesità?

Il trattamento per l’obesità prevede un lavoro di tipo multidisciplinare tra psicologo- nutrizionista- endocrinologo (ed eventualmente uno psichiatra), per aiutare il paziente a modificare il proprio stile di vita e l’approccio al cibo. Dal punto di vista psicologico, le linee guida raccomandano interventi di vario tipo che oltre a dieta ed esercizio fisico, includono la terapia cognitivo – comportamentale (CBT), da sola o in combinazione con la farmacoterapia e la chirurgia bariatrica, che consente un miglioramento più immediato delle condizioni psicologiche del paziente (benessere soggettivo, problemi psicologici, funzionamento della vita, autolesionismo), aiutandolo a promuovere uno stile di vita sano attraverso il coping, la risoluzione dei problemi, il controllo degli stimoli e il miglioramento dell’autoefficacia, l’ACT ha un obiettivo più a lungo termine che comprende:

–   apertura, ovvero la volontà di sviluppare un atteggiamento aperto e accettabile verso sé stessi, le proprie emozioni e i propri pensieri

–   consapevolezza verso sé stessi

–   impegno verso un nuovo stile di vita

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La Discalculia fa parte dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) e corrisponde a difficoltà nella comprensione del sistema dei numeri e del calcolo. Così come gli altri DSA non è dovuta ad un danno organico, ma un diverso neuro funzionamento del cervello, che non impedisce la realizzazione della specifica abilità (lettura, scrittura, numerazione o altro), ma necessita di tempi più lunghi e carichi attentivi maggiori.

Spesso si accompagna ad altri disturbi (come problemi di linguaggio, scrittura o lettura) che rendono più facile diagnosticarla nei bambini. Tuttavia, alcune caratteristiche della discalculia fanno sì che la diagnosi arrivi solo in età adulta, causando criticità maggiori.

Una diagnosi e un intervento precoci sono infatti fondamentali per evitare che il disturbo diventi più severo.

Ce ne parla la dott.ssa Marcella Mauro, psicologa dell’apprendimento di PsicoCare.

Perché è importante la diagnosi precoce di discalculia?

La diagnosi precoce di discalculia è importante perché la mancanza delle basi della matematica può rendere difficile andare avanti con il programma scolastico, portando frustrazione e atteggiamenti negativi degli studenti non solo nei confronti di questa materia ma anche di tutte le altre.

Il bambino a cui non viene riconosciuta la discalculia, crederà di essere meno intelligente rispetto ai compagni o verrà bollato da insegnanti e genitori come “svogliato”, “pigro” o “ senza logica”, etichette che lo porteranno con il tempo a perdere fiducia nelle proprie capacità.

Al contrario, un bambino che riceve precocemente una diagnosi corretta, imparerà ad accettare la sua diversità di apprendimento e ad adottare delle tecniche che lo aiuteranno nel suo percorso formativo.

Quando la diagnosi di Discalculia  arriva tardivamente, in adolescenza,  la situazione diventa più difficile in quanto possono svilupparsi sentimenti di scarsa efficacia, vissuti  di inadeguatezza e molto probabilmente  un disinvestimento nella materia

Quando può  essere fatta la diagnosi di discalculia?

La diagnosi può essere posta dalla fine della classe terza primaria, per non incorrere in “falsi positivi”, ovvero quei bambini che hanno semplicemente un ritmo di apprendimento più lento.

Quali sono i segnali che non andrebbero sottovalutati?

In età prescolare, il bambino può presentare:

·     scarsa capacità di riconoscere i simboli numerici (es. sette al simbolo “7”) e di associare correttamente il numero alla quantità;

·     fatica nel ricordare l’ordine numerico;

·    difficoltà nel confrontare piccole quantità e grandezze;

·     difficoltà ed evitamento dei giochi che implicano l’uso dei numeri, del conteggio e di altri concetti numerici.

Durante la scuola primaria i bambini con difficoltà specifiche nelle abilità matematiche:

·  tendono a usare unicamente le dita per effettuare semplici calcoli (faticano nel calcolo a mente);

·  non riescono a ricordare e automatizzare le procedure di calcolo o ad individuare l’operazione aritmetica richiesta per la risoluzione dei problemi;

·  non memorizzano le tabelline.

Nella scuola secondaria (medie superiori), grazie a strumenti come calcolatrici e formulari, i bambini con discalculia riescono a migliorare nei calcoli ma continuano ad avere difficoltà nella risoluzione dei problemi e nel memorizzare e applicare concetti di matematica alla vita quotidiana. Inoltre, mostrano:

·  difficoltà di automatizzazione degli aspetti legati alla lettura e alla scrittura di numeri;

·  difficoltà nel calcolo a mente;

·  confusione tra simboli numerici, mancata comprensione di termini o di segni aritmetici o difficoltà ad eseguire semplici operazioni aritmetiche e comprendere problemi matematici;

·  disorganizzazione spaziale dei calcoli, a causa degli errori nell’incolonnamento e nel processamento dei numeri (distinzione di unità, decine, centinaia etc);

·  incapacità ad apprendere e memorizzare le tabelline.

Quali sono le ripercussioni può avere la discalculia nella vita quotidiana?

La discalculia può avere diverse ripercussioni nella vita quotidiana, portando la persona a:

·  avere problemi a calcolare il resto quando acquista qualcosa o capire a quanto equivale una certa percentuale di sconto su una merce, nella lettura dell’orologio analogico, dell’orario dell’autobus da prendere, nell’esecuzione di ricette culinarie che contengono proporzioni, equivalenze o altre trasformazioni numeriche

·  ritardare agli appuntamenti per difficoltà a calcolare i tempi necessari per andare in un posto

·  aver bisogno di scrivere immediatamente un numero di telefono per ricordarlo e controllarlo più volte

·  far fatica a tenere il punteggio nei giochi

·  non ricordare date o i fatti importanti

·  far fatica a imparare passi di danza o qualsiasi cosa che implichi una sequenza motoria

·  avere ansia al pensiero di dover fare compiti di matematica sul lavoro

·  avere difficoltà a gestire il denaro o a tenere traccia delle finanze

·  non riuscire a comprendere grafici o diagrammi

·  saltare i numeri quando si legge un lungo elenco o un foglio elettronico

·  trovare difficile usare Excel

·  usare le dita per contare o segnare le pagine con segni di conteggio per tenere traccia dei numeri

Come viene trattata la discalculia nei bambini?

La discalculia può essere presente in modo diverso da individuo a individuo, pertanto i metodi per il trattamento devono essere valutati caso per caso.

Nel bambino, pur non eliminando il disturbo, l’obiettivo è quello di intervenire sulle abilità/competenze non funzionali (a differenza degli adulti dove si cerca di lavorare sulle strategie e sugli strumenti di compenso che supportano le aree deficitarie), tenendo conto del contesto in cui vive, creando una sinergia con la famiglia e la scuola, tenendo in considerazione aspetti meta cognitivi, emotivi e motivazionali, assicurandosi, grazie a continui follow-up, che i progressi si mantengano nel tempo, estendendosi anche ad ambiti di vita quotidiana (oltre che alla scuola).

Strumenti dispensativi (come calcolatrice, computer), insieme alle misure compensative suggerite dalla recente legge 170/2010 (Disposizioni per favorire l’inserimento lavorativo e sociale di persone con disturbi specifici di apprendimento) e alle Linee guida ad essa allegate, possono fornire un altro supporto importante.

Alcune attività e giochi divertenti da fare in famiglia che possono aiutare il bambino discalculico sono:

·  Cucinare insieme, seguendo insieme una ricetta e chiedendo al bambino di gestire la preparazione gli ingredienti necessari per la ricetta che si sta preparando.

·  Andare al supermercato, facendosi aiutare a fare la spesa (ad esempio, chiedendo al bambino di tenere a mente il numero di cose che si devono comprare, identificare i prodotti e confrontare i prezzi)

·  Giocare a indovinare le quantità di mucchi (ad esempio, facendo dei mucchi di pietre, legnetti o legumi e giocare a capire quale ne ha di più e quale meno o quanti oggetti ci sono in un mucchio, avvicinandosi alla quantità con un numero approssimativo)

·  Giocare a contare (ad esempio, mentre si passeggia si possono contare le macchine bianche che si incontrano per la strada o i gradini di una scala)

·  Trovare i numeri (mentre si cammina, si può giocare a trovare numeri civici delle case pari o dispari,o i numeri delle targhe)

·  Distribuire quantità e giocare ad apparecchiare la tavola, distribuendo piatti, posate, bicchieri, etc. per capire che è importante che ad ognuno corrisponda un set completo

Come si può trattare la discalculia in età adulta?

Nell’adulto, come nel bambino, il primo passo è prendere coscienza del disturbo e richiedere una diagnosi presso uno specialista psicologo, neuropsicologo o  neurologo specializzato

Una volta arrivati alla diagnosi, è possibile intervenire sugli eventuali effetti psicologici provocati dalla discalculia, come ansia, bassa autostima, abbassamento del tono dell’umore.

A livello pratico, possono essere utili tablet, smartphone, computer, agende elettroniche e calendari digitali, su cui segnare scadenze e appuntamenti, sfruttando sveglie e promemoria; utilizzare parole chiave, colori e immagini, per evitare di perdere materiali importanti o saltare appuntamenti.

Si può ricorrere anche all’utilizzo di calcolatrici con ritorno vocale o fogli di calcolo (Google Fogli) per verificare l’eventuale presenza di errori; registratori di cassa in grado di calcolare autonomamente il resto; applicazioni dedicate alla creazione di elenchi e schemi procedurali che aiutino a mettere in evidenza i diversi step o le procedure da seguire durante un particolare lavoro.

Tuttavia, gli strumenti di aiuto vanno selezionati sulla base dei risultati ai test, del profilo funzionale, del metodo di studio, delle preferenze soggettive e delle difficoltà pratiche del singolo.

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Dal 1999, ogni 21 febbraio viene celebrata la Giornata Mondiale della Lingua Madre. Una ricorrenza importante che ci permette di rimettere al centro dell’attenzione l’istruzione, sia dal punto di vista educativo che didattico, perché le differenze linguistiche degli studenti, non siano più viste come un punto di svantaggio ma uno strumento di inclusione scolastica, in cui la lingua e la cultura di uno studente straniero rappresentano una risorsa piuttosto che un ostacolo, diventando ricchezza per l’intera classe.

Tuttavia, quando un bambino bilingue presenta difficoltà di linguaggio si tende a credere che sia colpa del bilinguismo. Ma è davvero così?

Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Laura Stella, logopedista di PsicoCare.

Che cos’è il bilinguismo?

Il bilinguismo è un fenomeno molto vario: difficilmente troviamo bambini bilingue che presentano le stesse caratteristiche.

Un bambino nato in una famiglia dove si parla sia italiano che inglese, che viene inserito in una scuola bilingue, avrà una competenza ed un uso diverso del linguaggio rispetto ad un bimbo esposto all’inglese fino ai 3 anni e poi inserito in una scuola italiana.

Il grado di competenza, infatti, non può essere lo stesso. È necessario considerare il momento della prima esposizione, il contesto di esposizione e il grado di competenza

Nel momento della prima esposizione possiamo distinguere:

1. il bilinguismo precoce, se il bambino è esposto a due lingue fin dalla nascita (per esempio quando i genitori hanno una lingua madre diversa)

2. il bilinguismo tardivo se il bambino viene esposto alla seconda lingua dopo i primi 2/3 anni di vita (ad esempio un bimbo che a casa parla francese e viene inserito in un asilo italiano)

Nel contesto di esposizione riconosciamo:

1. il bilinguismo familiare, quando le due lingue vengono parlate in famiglia

2. il bilinguismo scolastico, quando la seconda lingua viene parlata solo a scuola

Questi fattori incidono sul grado di competenza che il bambino avrà nelle due lingue. Per acquisire una lingua, infatti, è necessario che il bambino venga esposto ai suoni del linguaggio fin dalla nascita (momento in cui il suo cervello è estremamente ricettivo rispetto ai suoni del linguaggio), con un’esposizione costante e informale (ovvero senza che ci sia una spiegazione delle regole e della struttura della lingua).

Se la lingua viene appresa a scuola in un contesto formale per un’ora a settimana non si può parlare di bilinguismo ma di apprendimento di una lingua.

Nel grado di competenza possiamo invece identificare:

1. il bilinguismo bilanciato, quando la competenza è simile nelle due lingue,

2. il bilinguismo dominante, quando il bambino è più competente in una delle due lingue.

Il bilinguismo può causare un ritardo di linguaggio?

Non esiste una correlazione tra bilinguismo e difficoltà di linguaggio. 

I bambini bilingue raggiungono le stesse tappe di sviluppo linguistico (negli stessi tempi) degli altri bimbi (la lallazione tra i 6-10 mesi, le prime parole intorno all’anno e le prime combinazioni di parole intorno ai due anni). 

Talvolta può sembrare che i bambini bilingue abbiano un vocabolario ridotto in entrambe le lingue. Tuttavia, per valutare il vocabolario in presenza di bilinguismo è necessario considerare la competenza complessiva del bimbo, ovvero il vocabolario della prima lingua e il vocabolario della seconda lingua: se il bambino conosce, utilizza e comprende la parola “home” ma non “casa” questa fa comunque parte del suo vocabolario complessivo.

Il bilinguismo può confondere il bambino?

Succede spesso che un bambino (ma anche un adulto) bilingue utilizzi due lingue nella stessa frase (ad esempio, “voglio tornare at home”). Tuttavia, si tratta di un fenomeno fisiologico molto comune chiamato “code-mixing” (e non di un disturbo del linguaggio): una strategia comunicativa positiva e adeguata dove il bambino colma la lacuna che ha in una lingua con quella per lui predominante.

Perché è importante mantenere entrambe le lingue?

Eliminare la lingua madre (favorendo quella utilizzata nella scuola ad esempio) costringe i genitori del bambino a parlare in una lingua in cui non sono pienamente competenti, con il rischio di dare al bambino un modello scorretto che renderà più complessa l’acquisizione.

Vari studi confermano come la presenza del bilinguismo a livello cognitivo sia una risorsa per il bambino e per l’adulto. Ma non solo: includere le differenze linguistiche nell’ambito scolastico, consente una maggiore inclusione degli studenti stranieri che non partiranno più svantaggiati e si sentiranno meno esclusi dalla classe.

Cosa devo fare se un bambino bilingue mostra difficoltà nel linguaggio?

Se vengono notate delle difficoltà nel raggiungimento delle tappe di sviluppo del linguaggio è importante rivolgersi ad uno specialista per valutare il caso specifico e l’esposizione che il bambino ha avuto: il bambino acquisisce una lingua sentendo l’adulto parlare. Se l’esposizione non è stata sufficiente (sia come tempi sia come qualità) il bimbo potrebbe non aver acquisito adeguatamente la lingua.

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Il bed rotting (che letteralmente significa “marcire a letto”), ovvero lo stare a letto per tante ore, mangiando, bevendo, guardando film, giocando o semplicemente rimanendo ad occhi chiusi, è il nuovo fenomeno di Tik Tok che negli ultimi mesi è diventato virale sul web. Ma che cos’è esattamente? Relax o sintomo di depressione? Voglia di staccare da tutti o isolamento sociale? Prendersi cura di sé o il contrario?

Ne parliamo dott.ssa Elisa Morrone, psicologa e psicoterapeuta, esperta in disturbi del sonno, di PsicoCare.

Che cos’è il bed rotting?

Il Bed rotting è il nuovo fenomeno legato ai social, soprattutto Tiktok, che prevede lo stare a letto in isolamento da tutto il resto. Mangiare, bere, studiare, parlare, giocare sempre e solo a letto. Interessa soprattutto la fascia degli adolescenti, che hanno risentito di più del lockdown e della mancanza di possibilità di sviluppare abilità sociali, ma inizia a diffondersi anche negli adulti, specialmente tra chi lavora in smartworking.

Perché il bed rotting è così frequente? 

Il periodo pandemico ha velocizzato lo sviluppo della tecnologia, ma ci ha privato della socialità, della condivisione, ci ha insegnato che queste sono attività che possiamo fare anche online e spesso proprio dal letto, a volte anche per mancanza di spazio. A volte ciò accade perché ci sembra più comodo, altre volte, invece, cela una difficoltà nell’interazione con gli altri, un sintomo di un disturbo dell’umore, una poca attenzione a prendersi cura di sé stessi.

Perché potrebbe essere un sintomo di depressione o fobia sociale?

Il nostro organismo e la nostra mente hanno bisogno di stimoli, di interazione per crescere e mantenersi attivi, lo stare a letto porta a rallentare le nostre connessioni cerebrali e ad aumentare anche il rischio di difficoltà cognitive, ma non solo. Una delle caratteristiche della depressione è la mancanza di piacere nel fare le cose che prima ci rendevano felici, il paziente smette di fare qualsiasi cosa (persino lavarsi e prendersi cura di se stesso) ed è proprio per questo che il bed rotting non va sottovalutato o giustificato. Più si sta a letto, più si fa fatica ad uscire dal letto e riprendere in mano la propria vita. Il bed rotting può anche essere un sintomo di fobia sociale, ovvero la paura di interagire con gli altri, la paura del giudizio che possono condurre fino al ritiro o ad un isolamento sociale vero e proprio. Non a caso infatti, sono proprio i pazienti con fobia sociale ad aver vissuto meglio il periodo di lockdown: erano giustificati ad evitare le situazioni temute.

Il bed rotting ha effetto anche sul sonno?

Purtroppo, anche per il sonno il bed rotting non è positivo: primo perché uno dei meccanismi che controlla il nostro sonno è legato alle attività che facciamo durante il giorno (più ci stanchiamo e più stiamo svegli, più abbiamo probabilità di dormire bene di notte). Inoltre, numerose ricerche scientifiche ci hanno dimostrato che il nostro cervello riposa in modo diverso durante la notte con delle differenza anche tra le varie aree dell’encefalo proprio sulla base delle attività che svolgiamo durante il giorno; per esempio, se durante la giornata siamo impegnati in compiti di attenzione e programmazione, durante la notte le aree del cervello che controllano queste attività dedicheranno molto più tempo al sonno profondo. Al contrario, se durante il giorno passiamo molto tempo in modo passivo, inattivo, utilizziamo poco il mio cervello e di notte dormiremo male. 

Il bed rotting porta anche a dormicchiare durante la giornata e anche questo influisce negativamente sul sonno, perché non solo non ci si stanca ma si ruba anche una parte del sonno notturno implicando insonnia o ritardo a fase di addormentamento con sviluppo di circoli viziosi patologici o poco funzionali.

Quindi il bed rotting è da evitare in assoluto?

Direi che non c’è bisogno di evitarlo in assoluto, può essere anche un momento per recuperare, rilassarsi, coccolarsi ma se diventa routine, se incide sulla nostra socialità, sul nostro sonno o umore, allora va interpretato come un campanello di allarme. Meglio chiedere aiuto ad uno specialista al fine di capire se è sintomo di un disturbo e quindi intervenire con trattamenti adeguati.

Il trattamento cosa prevede?

Dipende sicuramente dalla diagnosi: sarà lo specialista a decidere come intervenire; a volte può bastare un percorso rieducativo, a volte di psicoterapia altre volte anche l’assunzione di terapia farmacologica, saranno comunque gli specialisti a scegliere il miglior trattamento per il singolo paziente.

In quali altri modi possiamo rilassarci e ricaricare le batterie?

Di seguito alcune alternative al bed rotting, per rilassarsi nel modo giusto:

  1. Passare un po’ di tempo in mezzo alla natura, facendo una bella passeggiata, attività fisica o un pic nic
  2. Chiudere i dispositivi elettronici e aprire un libro, o cercare un passatempo che aiuti a “staccare” per qualche ora al giorno
  3. Fare yoga o praticare tecniche di rilassamento e meditazione per rilassare la mente e ristabilire una connessione con il corpo
  4. Cercare di passare più tempo con le persone che si amano 
  5. Cercare di mantenere una routine quotidiana stabile che preveda attività sportiva (anche solo una passeggiata)
  6. Anche se siamo in smartworking bisognerebbe prepararsi come se si dovesse andare a lavoro, prevedere delle pausa, fare un po’ di stretching tra una riunione e l’altra, cercare di stare alla luce del sole: magari facendo colazione fuori o sul balcone 
  7. Chiudere la giornata staccando totalmente il contatto con il mondo lavorativo e anche social media e dedicarsi ancora una volta ad una bella passeggiata

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Essere single il 14 Febbraio – specie quando i ristoranti e le strade sembrano essere pieni di coppie innamorate pronte a festeggiare San Valentino – può essere frustrante. Può farci sentire esclusi, arrabbiati e soli. Come possiamo affrontare questi sentimenti? Lo abbiamo chiesto al dott. Pietro Ramella, Psicologo e Psicoterapeuta di PsicoCare.

Come sentirsi meno soli a San Valentino?

Prima di rispondere a questa domanda è necessario approfondire il concetto di solitudine. Questa parola ha due origini possibili: il pronome “sé” che poi è diventato “solo” e il concetto di “sollus” (dal latino) che significa “unico”, “intero”.

Leggendola in questo senso, la solitudine può indicare più semplicemente anche una persona presa singolarmente, che sebbene in quel momento non abbia nessuno accanto a sé, rimane intera, unica. La solitudine diventa sofferenza quando si lega ad un’emozione, ovvero la tristezza.

In questo caso, le cause possono essere diverse, come:

·  il desiderio di una relazione che non riusciamo a trovare nonostante gli sforzi;

·  altri elementi di sofferenza preesistenti (come una malattia o un problema personale importante) già presenti prima di San Valentino e che proprio in quel giorno appaiono ancora più difficili da gestire proprio a causa della solitudine;

·  una relazione sentimentale finita da breve tempo (o anche da diversi mesi o anni ma, nonostante ciò, il nostro sentimento è rimasto vivo);

·  il vedere la maggior parte dei nostri amici fidanzati (provando quindi non solo tristezza ma anche talvolta invida e/o rabbia);

·  una relazione nascente che non sembra stia funzionando

Solo una volta compresa l’origine della nostra sofferenza potremmo capire meglio come gestirla. 

Cosa fare la sera di San Valentino?

Partiamo dal presupposto che non è necessario stare in compagnia la sera di San Valentino. Tuttavia, chi non vuole rimanere da solo può programmare qualunque cosa con amici o familiari (in modo da vivere questo giorno come qualsiasi altro), oppure può pianificare un’attività solitaria che lo faccia sentire bene. Accumulare emozioni positive è un’ottima strategia per regolare le emozioni negative e diminuire la nostra vulnerabilità emotiva, quell’insieme di difficoltà che possono intensificare la nostra sofferenza in un giorno particolare come quello di San Valentino.

Coltivare una buona solitudine, imparando a stare meglio da soli, a gestire il proprio tempo quando stiamo con noi stessi, decidendo consapevolmente se e quando pianificare attività e quali, o dandoci il permesso di “oziare” o di rilassarci (deciso però in modo consapevole/pianificato), potrebbe essere un buon obiettivo da prefissarci per stare bene.

Come vivere San Valentino in coppia?

Anche per chi non è solo, San Valentino può risultare complesso. Quanti di noi si sono trovati a vivere con ansia l’organizzazione di una sorpresa per il partner, la ricerca di un regalo o del ristorante dove festeggiare? Tante volte, così come avviene per il Natale, l’idea di San Valentino si disperde nelle questioni concrete, nei regali o nelle cene.

Questa festività dovrebbe invece permettere alla coppia di sfruttare l’occasione per viversi con maggior consapevolezza (mindfulness), nel qui ed ora della relazione, dedicandosi completamente a sé stessi e dandosi il permesso di mettere in standby il tran-tran della vita quotidiana, stabilendo quali siano le priorità più efficaci per il rapporto, più che quale sia il miglior ristorante o il miglior regalo.

Come gestire l’ansia di rimanere single?

L’ansia è legata al concetto di “paura” che a sua volta prevede la presenza di una potenziale minaccia. La domanda, in questo caso, sorge spontanea: qual è la minaccia? Cosa ci spaventa così tanto nel concetto di single? La risposta sta nella domanda iniziale. Il punto non è tanto quello di essere single nel giorno di San Valentino, quanto l’associazione che potrebbe capitarci di fare quel giorno, ovvero che “se sono single proprio oggi, rimarrò tale per il resto dell’anno, se non addirittura per il resto dei miei giorni/per lungo tempo”.

Questo pensiero, questo dialogo interno di cui non sempre siamo completamente consapevoli, si basa tuttavia su una logica di realtà più emotiva che razionale.

In psicoterapia si chiama “distorsione cognitiva” o “credenza disfunzionale”, ovvero un momento in cui noi cerchiamo di dare un significato alla realtà in cui viviamo (una realtà molto complessa, che non possiamo controllare in ogni suo dettaglio), cercando dei nessi causa-effetto che ci permettano di predire gli eventi, cosa che nessun di noi è in grado di fare.

Se ci riflettiamo da un punto di vista razionale e probabilistico, la probabilità di trovare/non trovare una relazione non dipende dal fatto che noi siamo soli o meno a San Valentino ma da mille altri fattori che non hanno nulla a che fare con questa giornata come la nostra personalità, il nostro stile di vita, le persone e i contesti che frequentiamo e così via.  

Per gestire quest’ansia, quindi, potrebbe essere utile andare a lavorare su tutto ciò che potrebbe favorire la costruzione di una nuova relazione, non su una minaccia che sebbene ci appaia reale, stiamo sovrastimando.

I single sono più a rischio di depressione?

Molti studi indicano un’associazione tra la situazione coniugale/sentimentale e l’insorgenza di una sintomatologia depressiva/abbassamento dell’umore. Ciò nonostante, la situazione coniugale/relazionale/sentimentale non è l’unica e/o principale causa di sintomatologia depressiva, anzi, va considerata come uno dei tanti fattori che, aggiungendosi/affiancandosi a molti altri, potrebbe favorire difficoltà legate all’umore.  

In caso di esordio di problemi legati all’umore, come tristezza/demoralizzazione/senso di vuoto (non giustificati da eventi quotidiani e quindi dalla sola giornata di San Valentino) che perdurano per la maggior parte del giorno e per più giorni (affiancati magari ad altri sintomi come abbassamento del livello di motivazione/interesse/piacere a fare le cose; cambiamenti nella qualità e durata del sonno e/o dell’appetito; ansia/stress; affaticamento e mancanza di energia/difficoltà di concentrazione non giustificati dalle attività svolte durante la giornata; senso di frustrazione/incremento dell’irritabilità; sensazione di solitudine), sarà quindi fondamentale richiedere il parere di uno psicologo o di uno psichiatra in modo da valutare la situazione nella sua specificità e prevenire un eventuale peggioramento.

Abbiamo tutti bisogno di un partner?

Non tutte le persone necessitano obbligatoriamente di un partner, e soprattutto ciò può dipendere da molteplici fattori come la nostra personalità, il periodo di vita, oltre i valori, le priorità, gli obiettivi e così via. Per cui a seconda del momento di vita, della persona e di molti altri elementi, potremmo sentire il bisogno di un partner così come la necessità di camminare da soli.

Si può essere felici anche da single?

La felicità è un’emozione, per cui di durata limitata. Ciò che ci dovremmo chiedere è se possiamo essere sereni anche da single e la risposta è sì, anzi, sappiamo che la serenità è una condizione senza la quale diminuisce molto la probabilità di riuscire a costruire una relazione stabile, duratura e che ci porti benessere. La costruzione di una relazione è parte dei valori che compongono la vita di una persona, non l’unico valore però. Per cui accentrare il proprio valore, la propria autostima e la propria serenità, sul fatto di avere o meno un partner, rischia di portarci a quelle credenze, quei pensieri disfunzionali sopra descritti, incrementando la nostra sofferenza

Inoltre, la ricerca “forzata” di un partner per San Valentino, per la paura del giudizio degli altri, per il timore di restare soli per sempre o perché pensiamo che una relazione sia l’unica soluzione per poter stare meglio, rischia di portare ad un effetto paradosso. Molti di noi avranno sperimentato relazioni nate in periodi di vulnerabilità emotiva e finite quindi nel breve termine. 

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Negli ultimi anni l’uso dei social media (come Instagram, Snapchat, Twitter o Tiktok) da parte dei ragazzi è aumentato in modo significativo. Basta guardarsi intorno: la maggior parte degli adolescenti è continuamente connessa ad internet e questo potrebbe arrivare a delinearsi come una vera e propria dipendenza dal proprio smartphone e dalla dimensione dei social

Se da una parte i social network hanno offerto per molti l’opportunità di interagire con altri (per esempio, durante il lockdown imposto dalle misure restrittive per il COVID-19), hanno aumentato il senso di comunità e di appartenenza, aiutando il singolo – attraverso il supporto tra pari e la condivisione- ad affrontare determinate situazioni di malessere, dall’altro questi strumenti possono contribuire ad un abbassamento della qualità di vita associato a sofferenza psicologica, sentimenti di solitudine, senso di esclusione e abbassamento dell’umore, e, nei casi più gravi, a comportamenti autolesivi e all’ideazione suicidaria.

Ce ne parla il dott.  Pietro Ramella, Psicologo e Psicoterapeuta di PsicoCare.

Che ruolo hanno i social nel disagio giovanile?

La letteratura scientifica riconosce l’uso dei social media da parte degli adolescenti come un fattore di rischio positivo per il suicidio. Senza voler qui prendere una posizione morale ed etica contro i social network, i dati ci dicono che:

·  i social network forniscono una piattaforma online favorenti le dinamiche del cosiddetto cyberbullismo, il quale può portare la persona “bersagliata”, ma non solo, ad un forte abbassamento dell’umore, fino allo stato depressivo, problemi comportamentali, abbassamento dell’autostima, abuso di sostanze, autolesività, pensieri e tentativi suicidari, sia per la vittima che per l’autore del reato;

·  le pubblicità sui social media aumentano l’esposizione degli adolescenti all’uso di alcol, droga e tabacco;

·  gli adolescenti sui social media sono maggiormente esposti al rischio di essere vittime di crimini sessuali poiché gli autori di reati possono utilizzare queste piattaforme per attirarli a sé;

·  i social media definiscono un ideale “magro” di bellezza che non corrisponde alla realtà e che spesso può portare a sentimenti di inadeguatezza a loro volta potenzialmente collegati a comportamenti autolesivi o pensieri e ideazione di morte nel peggiore dei casi;

·  le piattaforme web espongono maggiormente a sfide online, confronti sociali ed emulazioni;

·  l’uso intenso dei social media può causare disturbi del sonno, con ripercussioni importanti sullo stato di salute dell’individuo durante l’arco della giornata (concentrazione, umore, disregolazione emotiva, calo delle performance giornaliere). 

Chi sono i soggetti più a rischio di autolesività?

Non esiste un’unica categoria di persone ascrivibile a questo rischio. Sicuramente l’abbassamento dell’umore, la disregolazione emotiva, un contesto di vita sfavorevole, l’età, differenti disturbi psichiatrici o di personalità, eventi traumatici, sono alcuni tra gli elementi che presi singolarmente o in relazione tra loro possono aumentare il rischio che si presentino ideazione e comportamenti autolesivi.

Come si riconoscono i comportamenti autolesivi?

L’adolescente con comportamenti autolesivi tende a farsi del male: tagliandosi, bruciandosi o colpendosi; tuttavia, senza l’intenzione di morire. Questa è comunemente chiamata autolesività non suicidaria (NSSI).

Qual è il confine tra NSSI e pensiero suicida?

Spesso il comportamento autolesivo viene utilizzato come mezzo (sebbene inefficace a lungo termine/disfunzionale) di regolazione emotiva. L’atto in sé, il dolore provato e altri elementi contribuiscono ad aiutare la persona a spostare l’attenzione dall’emozione intensa provata in quel momento aiutandola, paradossalmente, a regolarla. In questo caso spesso si innesca un circolo vizioso che si autorinforza ogni qual volta un gesto autolesivo appare efficace nel regolare quel momento di crisi emotiva, senza che però vi sia come obiettivo quello di porre fine alla propria vita.

Un pensiero suicidario può delinearsi su un continuum, da meno a più strutturato, dalla fantasia suicidaria che può servire temporaneamente per pensare a una potenziale via di fuga, fino a un pensiero più strutturato dove la persona si trova a pensare mezzi, modi e tempi per raggiungere l’obiettivo di spegnere definitivamente la propria sofferenza tramite il decesso.  

Cosa devo fare se ho pensieri autolesivi o suicidari?

Il primo passo è sicuramente quello di chiedere supporto psicologico. Dato che spesso e comprensibilmente non ce la si sente di parlarne con amici e familiari, lo Psicologo-Psicoterapeuta o lo Psichiatra sono le figure più competenti riguardo a questo tipo di sofferenza psicologica.  

Che tipo di percorso terapeutico è indicato per l’autolesività e i pensieri/impulsi suicidari?

Dato che questo tipo di elementi può essere associato a differenti tipi di sofferenza psicologica, il primo passo è sicuramente quello di fare una prima valutazione con Psicologo/Psichiatra che valuteranno così la tipologia di presa in carico. Quest’ultima può proseguire nell’ambito psicoterapico ambulatoriale, con eventuale supporto farmacologico da parte dello psichiatra, fino ad un eventuale valutazione di un ricovero (di lunghezza variabile e in contesti differenti) nei casi di livelli di sofferenza psicologica di più elevata intensità.

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