Con il passaggio dall’ora solare a quella legale le giornate iniziano dopo ma durano di più. Tuttavia, la minore esposizione alla luce del mattino (associata ad una maggiore esposizione alla luce serale), potrebbe provocare, specie nei primi giorni, perdita di sonno e sonnolenza diurna.

Inoltre, secondo alcuni studi, il cambio dell’ora primaverile è associato ad un aumento del rischio di malattie cardiovascolari, come l’infarto del miocardio, l’ictus ischemico e la fibrillazione atriale, oltre a disturbi dell’umore e pensieri suicidari.

Dal punto di vista biologico, invece, il passaggio all’ora legale potrebbe alterare i ritmi dell’orologio biologico circadiano. Questo ritmo è fondamentale per il benessere, poiché regola una serie di processi biologici, tra cui le risposte immunitarie, lo stress ossidativo e l’infiammazione[1].

Ce ne parlano la dott.ssa Gabriella Comerio, cardiologa presso l’ambulatorio Humanitas Medical Care Domodossola a Milano e il dott. Alessandro Spiti, psichiatra di Humanitas PsicoCare.

Quali sono le cause degli eventi cardiovascolari durante il cambio dell’ora?

“Il sistema cardiovascolare è strutturato per affrontare oscillazioni nell’arco della giornata; il ritmo circadiano è importante per il benessere dell’individuo perché regola numerosi processi biologici, tra i quali lo stress ossidativo, i processi infiammatori, la risposta immune ed altri”, commenta la dott.ssa Comerio.

“Alcune malattie cardiovascolari”, continua la specialista, “si manifestano in particolari momenti della giornata: ad esempio, l’incidenza degli infarti miocardici, di eventi ischemici cerebrovascolari, rottura di aneurismi aortici, di fibrillazione atriale ed altri sembra essere più alta al mattino.

Questo fenomeno può essere giustificato da meccanismi fisiologici che avvengono alle prime ore della mattina, come ad esempio l’incremento della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca dell’attività simpaticomimetica, della secrezione di ormoni vasoattivi ed anche della aggregabilità piastrinica.

Il cambio dell’ora causa una variazione del ritmo circadiano e non tutti i soggetti sono in grado di affrontare questa variazione senza effetti sul proprio organismo.

Precedenti pubblicazioni avevano osservato un incremento di eventi cardiovascolari nei giorni successivi al cambio dell’ora; lavori scientifici più recenti ed una interessante metanalisi  (Manfredini et al.) hanno confermato un modesto incremento del rischio di infarto miocardico nella settimana successiva al cambio dell’ora in primavera, senza una sostanziale differenza tra i due sessi; tuttavia l’interpretazione di questa osservazione non sarebbe forse da attribuire univocamente al cambio dell’ora.

È necessario anche sottolineare che gli studi analizzati presentano differenze di popolazione osservata (aree geografiche e cronobiologiche diverse, es. USA ed Europa) e diversi criteri di inclusione di eventi cardiovascolari (es. infarti miocardici con e senza interventi di angioplastica)”, conclude la specialista.

Chi sono le persone più a rischio di eventi cardiovascolari durante il cambio dell’ora?

“Sembra che siano più suscettibili ad eventi sfavorevoli, non solo di tipo cardiovascolare, i soggetti più anziani (>75 anni), i soggetti in condizioni di salute più fragile e coloro che hanno più patologie”, risponde la dott.ssa Comerio; “negli Stati Uniti un recente studio osservazionale ha segnalato come più a rischio di eventi sfavorevoli anche i soggetti caucasici non ispanici e i coloro che vivono nelle zone con fuso orario orientale[2]”.

Quali effetti può avere la privazione del sonno legata all’ora legale?

“Le persone che non riescono a dormire a sufficienza hanno maggior difficoltà a prendere decisioni e sono meno creative ” commenta il dott. Spiti. “Inoltre, sono più inclini a provare stati d’animo negativi; hanno maggiori probabilità di sperimentare angoscia , manifestando un minor coinvolgimento nella dimensione lavorativa con prestazioni al di sotto delle aspettative personali e del team.

Le persone con alterazioni del pattern ipnico corrono un rischio maggiore di mettere in atto comportamenti pericolosi che possono determinare infortuni ed incidenti automobilistici[3].

Inoltre, una componente importante di molti disturbi dell’umore, d’ansia e psicotici è proprio l’interruzione del ciclo sonno-veglia [4] (alcuni disturbi del sonno, in particolare della fase REM, sono stati osservati nel disturbo bipolare (BD) e nella schizofrenia [5]. 

I disturbi del sonno e le alterazioni circadiane sono associati anche a disturbi del neuro-sviluppo, come il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), i disturbi dello spettro autistico (ASD), la sindrome di Prader-Willi (PWS) e la sindrome di Smith-Magenis (SMS) [6],conclude lo psichiatra.

Come alleviare i sintomi del cambiamento dell’ora? 

“Il cambio dell’ora può avere un impatto sul nostro benessere e sulla routine quotidiana”, continua il dott. Spiti. “Per attenuare i sintomi di questo cambiamento, è possibile adottare alcune strategie pratiche. 

In primis, è consigliabile iniziare gradualmente a prepararsi al nuovo orario, modificando leggermente la propria routine del sonno e altri ritmi biologici qualche giorno prima del cambio effettivo, andando a letto dieci minuti prima e anticipando leggermente il risveglio. Questa piccola modifica, assieme al mantenimento di una routine costante, inclusi gli orari di sonno e dei pasti, può aiutare il corpo a stabilizzarsi più facilmente. 

Un altro consiglio è limitare il consumo di sostanze stimolanti come la caffeina che nelle ore precedenti il riposo possono alterare il profilo del sonno, determinando fenomeni nel giorno successivo quali astenia, irritabilità e problemi di concentrazione. Infine, l’esposizione alla luce solare durante il giorno favorisce l’attivazione di alcune regioni del cervello, come l’ipotalamo, che sono fondamentali per regolare positivamente l’adattamento del nostro organismo al nuovo orario.

Se si riscontra una difficoltà significativa nell’adattamento al nuovo orario o se i sintomi persistono, è opportuno considerare il supporto di un professionista della salute mentale”, conclude lo specialista.

Le giornate più lunghe aiutano l’umore? 

“La correlazione positiva tra esposizione alla luce solare (foto-esposizione) e miglioramento dell’umore ormai è dimostrata e confermata da numerosi studi scientifici [7;8;9]”, aggiunge il dott. Spiti. “Le variazioni del fotoperiodo, ovvero della durata del periodo di illuminazione giornaliera, possono incidere sensibilmente sullo stato d’animo delle persone, soprattutto di quelle che sono suscettibili maggiormente allo sviluppo di veri e propri disturbi dell’umore. Solitamente, infatti, questo tipo di persone soffrono di episodi depressivi stagionali, nella fase in cui il fotoperiodo si accorcia nel passaggio dalla stagione autunnale a quella invernale. Al contrario, nei mesi in cui il fotoperiodo si allunga, nel passaggio dall’inverno ai mesi caldi, si assiste a un graduale incremento delle energie, con progressivo recupero del piacere durante le attività quotidiane e scomparsa dei sintomi depressivi

Il meccanismo biologico che media queste variazioni si basa sull’interazione tra varie aree del nostro cervello.

La luce solare penetra attraverso la retina dell’occhio e attiva le cellule fotosensibili, che trasmettono segnali al nucleo soprachiasmatico nell’ipotalamo, coinvolto nella regolazione del ritmo circadiano. Questo nucleo ipotalamico invia segnali a diverse regioni cerebrali coinvolte nella produzione di monoamine. La serotonina è sintetizzata principalmente nel nucleo del rafe, la noradrenalina nel locus coeruleus e la dopamina nel sistema dopaminergico. L’esposizione alla luce solare stimola l’attività di queste regioni, promuovendo la produzione e il rilascio di serotonina, noradrenalina e dopamina nel cervello.Questi neurotrasmettitori svolgono ruoli distinti ma interconnessi nella regolazione dell’umore, delle emozioni e della motivazione. La serotonina è spesso associata al benessere emotivo, la noradrenalina alla risposta allo stress e all’attenzione, mentre la dopamina al sistema di ricompensa e al piacere. In sintesi, l’esposizione alla luce solare, può attivare la produzione di monoamine nel cervello, contribuendo così a migliorare l’umore e il benessere emotivo attraverso l’azione combinata di serotonina, noradrenalina e dopamina”, conclude lo specialista.

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BIBLIOGRAFIA

[1] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC10921520/

[2] Circadian Mechanisms in Medicine; R. Allada et al;  N Eng J Med 2021; 384: 550-61 – Daylight Saving Time and acute myocardial infarction: a meta-analysis; R. Manfredini et al; Journal Clinical Medicine; 2019, 8, 404 – Daylight saving Time does not seem to be associated with number of percutaneous coronary interventions for acute myocardial infarction in the Netherlands; L.Derks et al; Neth Heart J 2021; 29: 427-432 – All cause and cause specific mortality associated with transition to daylight saving time in US: nationwide, time series, observational study; Shi Zao et al; BMJmedicine  2024; 3: e000771

[3] Kilgore, Balkin e Wesensten, 2006; Harrison e Horne, 1999; Dinges et al., 1997; Glozier et al., 2010; Lanaj, Johnson e Barnes, 2014; Drake et al., 2001; Barnes & Wagner, 2009; Drake et al., 2010

[2]https://www.nejm.org/doi/10.1056/NEJMc0807104?url_ver=Z39.88-2003&rfr_id=ori:rid:crossref.org&rfr_dat=cr_pub%20%200pubmed

[3] https://www.humanitas-care.it/news/la-privazione-del-sonno-influisce-sulla-salute-del-cuore/

[4] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6338075/

[5] https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/20686197/

[6] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6338075/

[7] Siemann, J. K., Grueter, B. A., & McMahon, D. G. (2021). Rhythms, reward, and blues: consequences of circadian photoperiod on affective and reward circuit function. Neuroscience, 457, 220-234.  https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S030645222030779X

[8] Majrashi, N. A., Alyami, A. S., Shubayr, N. A., Alenezi, M. M., & Waiter, G. D. (2022). Amygdala and subregion volumes are associated with photoperiod and seasonal depressive symptoms: A cross‐sectional study in the UK Biobank cohort. European Journal of Neuroscience, 55(5), 1388-1404.  https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/ejn.15624

[9] Partonen, T. (2020). Seasons, Clocks and Mood. Neuroendocrine Clocks and Calendars, 177-187. https://link.springer.com/chapter/10.1007/978-3-030-55643-3_9

Il termine “alessitimia” deriva dal greco [a (no) – lexis (parole) – timos (emozione)] e significa letteralmente “nessuna parola per le emozioni”. A coniarlo per la prima volta è stato lo psicoterapeuta Peter Emanuel Sifneos, nel tentativo di descrivere alcuni suoi pazienti che presentavano difficoltà a identificare ed esprimere i propri sentimenti, e quindi a distinguere tra le emozioni. Soprattutto, questo tratto, era identificabile nei soggetti con disturbi psicosomatici dove le emozioni non riconosciute o non espresse tendevano a manifestarsi attraverso sintomi fisici corporei.

L’alessitimia, nei decenni declinata in molteplici definizioni, è frequentemente identificata come una caratteristica presente in pazienti in molte patologie mediche e in diversi disturbi psichiatrici risultando in grado di influenzare l’esordio, il decorso e il percorso terapeutico.

Ce ne parla il dott. Francesco Cuniberti, medico psichiatra di Humanitas Psicocare, specialista in disturbi depressivi, d’ansia, di panico e ossessivo-compulsivo.

Quali possono essere le cause dell’alessitimia?

L’alessitimia è una condizione piuttosto comune nei pazienti con ansia e depressione. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono la prevalenza di questa condizione nei disturbi del neurosviluppo (suggerendo quindi l’esistenza di una componente sia genetica che ambientale), come nel disturbo dello spettro autistico.

L’alessitimia può essere anche acquisita: insorta a seguito di una lesione cerebrale (per esempio, a causa di un incidente automobilistico o ad un infortunio sportivo), a malattie neurovascolari o ad altri disturbi neurodegenerativi, come il Parkinson o l’ictus cerebrale nell’emisfero destro. Inoltre, livelli elevati di alessitimia sono stati riscontrati anche in pazienti affetti da sclerosi multipla, demenza semantica e frontotemporale, malattia di Alzheimer e malattia di Huntington.

Come si manifesta l’alessitimia?

Molto spesso alcuni fenomeni legati alle emozioni (come la soppressione dei propri sentimenti, l’inibizione, l’isolamento, la negazione e la repressione), vengono confusi con l’alessitimia. Tuttavia, queste strategie, consce o inconsce, si riferiscono a processi difensivi che la persona utilizza per ridurre l’esperienza o l’espressione di emozioni eccessive e disturbanti , mentre l’alessitimia è considerata un deficit o una carenza piuttosto che una strategia di difesa

Le persone con alessitimia sperimentano continui problemi a elaborare le proprie emozioni, sviluppando una condizione psichiatrica caratterizzata da una disregolazione affettiva (la persona ha difficoltà a regolare le proprie emozioni in modo efficace, affinché non diventino eccessive o inappropriatamente espresse). Inoltre, l’alessitimia è risultata essere anche legata a un deficit di empatia con una difficoltà nel comprendere non solo le proprie emozioni ma anche quelle altrui. 

L’alessitimia risulta quindi influire sulle relazioni interpersonali e sulla qualità della vita di chi ne soffre.

In letteratura, sono state descritte cinque caratteristiche principali di alessitimia:

1. riduzione o incapacità di provare emozioni

2. riduzione o incapacità di verbalizzare le emozioni

3. riduzione o incapacità di fantasticare

4. assenza di tendenze a pensare alle proprie emozioni

5. difficoltà nell’identificare le emozioni

Come viene diagnosticata l’alessitimia?

L’alessitimia viene diagnosticata attraverso una valutazione psichiatrica o psicologica approfondita. Si può ricorrere anche all’uso di questionari auto-somministrati, che possono aiutare il clinico nell’identificazione di questi aspetti e a comprendere meglio le difficoltà che l’individuo incontra nell’identificare, descrivere e gestire le proprie emozioni. 

La valutazione clinica deve includere un approfondimento sulla presenza di eventuali patologie psichiatriche concomitanti, come la depressione e i disturbi d’ansia, e su come l’individuo gestisce le proprie relazioni interpersonali, affronta situazioni di stress e risolve i conflitti.

Come può essere trattata l’alessitimia?

Nell’ambito di un progetto di cura personalizzato, basato sulle caratteristiche uniche del paziente, si procede a lavorare nel percorso di psicoterapia con lo scopo di aiutare l’individuo a sviluppare una maggiore consapevolezza delle proprie emozioni e migliorare la capacità di identificarle, esprimerle e gestirle. È un percorso che necessita di tempo perché ha l’obiettivo di modificare diversi aspetti personali del paziente e può richiedere, quando presenti sintomatologie concomitanti, anche l’intervento medico con una visita psichiatrica.

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Tutti noi trascorriamo un terzo della nostra vita dormendo. In tanti pensano che sia una perdita di tempo; tuttavia, questo aspetto è fondamentale per la salute cognitiva e mentale.

La quantità e la qualità del sonno hanno infatti un profondo impatto sull’apprendimento e sulla memoria. Dormire consente al nostro organismo di recuperare tutte le energie necessarie per la sopravvivenza mentale: migliora l’apprendimento, la memoria e l’intuizione.

Per questo, non dormire a sufficienza, senza rispettare il proprio fabbisogno in numero di ore e qualità di sonno, può aumentare il rischio di disturbi fisici e mentali: in primis, per i bambini e i ragazzi e, di riflesso, per le loro famiglie, poiché le conseguenze possono influire sul benessere di tutti i membri del nucleo familiare, oltre ad avere effetti sul giovane stesso, come iperattività diurna e calo del rendimento scolastico (dovuto principalmente alla difficoltà di rimanere attenti e mantenere la concentrazione); irritabilità e problemi comportamentali (a causa della privazione del sonno).

Ne parliamo con la dottoressa Marcella Mauro e la dottoressa Elisa Morrone, specialiste di Humanitas PsicoCare.

Quali ripercussioni ha la mancanza di sonno sull’apprendimento?

La mancanza di sonno può avere diverse ripercussioni sull’apprendimento:

  • Porta a una riduzione della vigilanza e della concentrazione: quando si è assonnati, si possono dimenticare e smarrire più facilmente le cose. Inoltre, è più difficile concentrarsi e prestare attenzione a ciò che, per esempio,  accade a scuola.
  • Compromette le capacità della memoria: le connessioni nervose che creano i nostri ricordi si rafforzano proprio mentre dormiamo (durante il sonno il nostro cervello sceglie cosa memorizzare e cosa invece eliminare). Diversi meccanismi legati alla memoria e soprattutto al consolidamento si attivano solo di notte e soprattutto con il sonno profondo, dormire meno e male non permette l’attivazione di tali meccanismi.
  • Pregiudica la capacità di giudizio: prendere decisioni (valutando rischi e benefici ma anche ciò che è giusto e ciò che sbagliato) è più difficile perché non si riesce a valutare bene le situazioni e a scegliere il comportamento adeguato a quella situazione. Dormendo poco e/o male si diventa più impulsivi, si valuta in modo diverso la scelta, si è meno propensi a considerare le eventuali perdite, concentrandosi solo sulle ricompense.
  • Produce cambiamenti non solo nel metabolismo cerebrale, nella cognizione, ma anche nelle emozioni e nel comportamento: quando si dorme poco anche l’umore tende a flettersi, incidendo anche sulla comprensione delle proprie e altrui emozioni, provocando incomprensioni, conflitti, litigi sia a casa che a scuola, con gli amici.
  • Dormire poco e male influenza in negativo anche le prestazioni sportive, aumenta il rischio di incidenti e infortuni. 

Quali fattori possono influire sul sonno?

I fattori che possono incidere sul sonno sono comportamentali, fisicipsicologici. Ne sono un esempio: uso dei device, videogiochi, social, telefono, ansia da prestazione, stress legato agli esami e alle interrogazioni, maggiore propensione alla tristezza, calo dell’umore, problemi di respirazione di notte, come il russamento o le apnee, movimenti delle gambe notturne, irregolarità nella funzionalità della tiroide.

Come aiutare bambini e ragazzi a dormire meglio?

Per creare un ambiente favorevole al sonno, è consigliabile:

  • Dormire in un ambiente familiare
  • Prendere un letto confortevole
  • Mantenere una temperatura corretta nella stanza (molti bambini/ragazzi si svegliano di notte perché hanno troppo caldo o troppo freddo)
  • Mantenere la stanza buia e silenziosa
  • Spegnere luce di pc, cellulari e tablet
  • Non associare al sonno un’emozione negativa (ad esempio, andare a letto per punizione) 
  • Andare a letto solo quando si è assonnati e a orari regolari. 

Inoltre, occorre evitare alcune abitudini che potrebbero compromettere il sonno, come:

  • Sonnellini eccessivi o tardivi, dopo le 16, durante il giorno
  • Giochi e videogiochi dopo le 18 di sera (per evitare un’eccessiva eccitazione vicino al momento di andare a letto)
  • Esercizio fisico a tarda sera
  • Bevande contenenti caffeina o zuccheri a fine giornata
  • Pensare ai problemi e ai progetti prima di andare a letto.

Quando il problema è cronico e incide sulla qualità di vita del bambino/ragazzo è opportuno chiedere l’aiuto di uno specialista.

I farmaci possono aiutare i bambini/ragazzi a dormire meglio?

Alcuni genitori ricorrono spesso all’uso della melatonina per aiutare i propri bambini/ragazzi a dormire meglio. Tuttavia, a oggi non ci sono studi scientifici che ne dimostrino la reale efficacia sul sonno e sul lungo termine. Sicuramente, la prima cosa da fare è la diagnosi, capire perché il bambino non dorme o dorme male, per poi scegliere la terapia migliore.  Per l’insonnia e i disturbi del ritmo circadiano, il trattamento più adeguato e funzionale è quello psicoterapeutico cognitivo/comportamentale mirato al sonno. Un neuropsichiatra, un pediatra o lo specialista psicoterapeuta del sonno potranno fornirvi maggiori informazioni.

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Sono molti gli atleti che prima di una gara soffrono di ansia da prestazione. Le competizioni sportive, infatti, specie se praticate ad alti livelli, possono portare a pensieri disfunzionali, come la paura di sbagliare o non ricordarsi cosa fare. Tante volte, gli sportivi, prima di accedere alla competizione vedono una sorta di nebbia dettata dal timore di essere giudicati negativamente. Dalla famiglia, dal coach o dalla propria squadra. 

In un momento come questo, in cui molti atleti stanno già iniziando a prepararsi per i Giochi olimpici, è fondamentale provare a spiegare come imparare a gestire questi stati d’ansia, poiché più l’atleta sale di livello, più forte sarà l’agitazione e più sarà difficile controllarla.

Per gestire questi sentimenti che oltre a provocare disagio, possono anche precludere l’esito stesso della gara, è necessario adottare una serie di strategie che possono aiutare lo sportivo ad affrontare la prova al meglio. Ma da dove cominciare?

Il consiglio che potrebbe sembrare più banale è anche quello più importante: ovvero imparare a respirare.

Ce ne parla la dott.ssa Dora Siervo, psicoterapeuta di PsicoCare.

Perché gli atleti soffrono spesso di ansia da prestazione?

Molti gli atleti che vedono lo sport come una sorta di riscatto da una vita che magari non è andata esattamente come si sarebbero aspettati. Inoltre, molto spesso, accanto allo sportivo c’è una forte pressione sociale e familiare che porta la persona a giocarsi tutto in quel momento. Per cui l’idea di sbagliare, di non ricordarsi (tipici dell’ansioso), possono provocare l’ansia da prestazione.

Come possono superare l’ansia da prestazione agonistica?

Tutti gli sportivi dovrebbero essere seguiti da un coach che li possa aiutare e sostenere nei momenti che precedono una gara. Uno degli strumenti più importanti che abbiamo per gestire l’ansia è la respirazione. Con una respirazione adeguata, che prevede l’uso del diaframma, è infatti possibile controllare tutti i sintomi tipici dell’ansia (freddo, battito aumentato, tremori).

Per capire quanto incide la respirazione pensiamo all’equitazione: il cavallo percepisce la tensione del cavaliere da come respira, perché le conseguenze di una cattiva respirazione trasmettono una sorta di vibrazione che l’animale riesce a percepire, irrigidendosi e ribellandosi al cavaliere.

I diversi modi di respirare

La frequenza respiratoria dell’uomo adulto è normalmente compresa tra 15 e 18 atti respiratori al minuto. Tuttavia, la respirazione può non essere sempre uguale. Il ritmo può essere lento o veloce (a seconda dello stato in cui si trova la persona) con effetti molto diversi sui parametri fisiologici e psicologici.

Il ritmo lento può apportare benefici agli atleti in vari modi (non solo fisicamente ma anche mentalmente): 

·  migliorando la forma cardiovascolare

·  riducendo lo stress e l’ansia

·  migliorando la salute e il benessere generale

·  aiutando gli atleti a mantenere attenzione e concentrazione durante l’allenamento e la competizione. 

Il ritmo veloce, normale durante l’allenamento fisico e la competizione, al di fuori dell’allenamento, può causare:

·  sentimenti di ansia e panico

·  vertigini e stordimento

·  risposta allo stress nel corpo (influenzando la qualità della vita dell’atleta)

Che cos’è il diaframma?

Il diaframma è un grande muscolo che separa la cavità toracica da quella addominale. La sua contrazione determina l’espansione della cavità toracica che consente l’ingresso del flusso di aria necessario all’atto inspiratorio.

Si tratta di un muscolo che è possibile contrarre volontariamente attraverso una respirazione guidata che viene definita respirazione diaframmatica e che può essere utilizzata sia per cercare di ridurre l’ansia e lo stress, sia per aumentare l’espansione polmonare e migliorare l’efficacia della ventilazione.

Come si fa a respirare con il diaframma?

Posizionarsi seduti su una sedia oppure supini su una superficie piana, con le ginocchia piegate e i piedi appoggiati a terra, oppure con un cuscino sotto le ginocchia.


Appoggiare entrambe le mani sull’addome ed eseguire una profonda inspirazione, cercando di gonfiare l’addome contando mentalmente 1001, 1002 1003. Durante l’espirazione l’addome si svuota naturalmente, accompagnare lo svuotamento con una piccola contrazione dei muscoli addominali contando mentalmente 1004, 1005, 1006.

In caso di necessità è possibile praticare la respirazione diaframmatica in qualsiasi posizione anche in piedi respirando “con la pancia”.

In quali altri modi è possibile combattere l’ansia da prestazione agonistica?

Esiste anche una tecnica di rilassamento, il cosiddetto “luogo sicuro”, dove il soggetto può “immergersi” prima della competizione. Il luogo sicuro è un posto dove siamo stati bene, di cui conserviamo dei bei ricordi e che anche solo immaginarlo permette al nostro cervello di riprodurre le stesse sensazioni positive già vissute, aiutandoci a calmarci.

Fondamentale è anche la presenza della famiglia che deve sostenere la passione dell’atleta al di là del risultato ottenuto in gara. Il compito dei familiari, insieme a quello del coach, è quello di credere nel ragazzo o nella ragazza, sia dal punto di vista sportivo che prestazionale.

Tuttavia, la cosa più importante, resta la fiducia che ogni sportivo deve avere in sé stesso. Ti sei allenato tanto e duramente? Ce la puoi fare. 

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L’attacco di panico è un episodio improvviso caratterizzato da un intenso disagio, ansia o paura che la persona sperimenta accompagnati da almeno 4 sintomi somatici e/o cognitivi sottoelencati:

  • Cognitivi: paura di morire; paura di impazzire o di perdere il controllo; sentimenti di irrealtà, estraneità (derealizzazione), o distacco da sé (depersonalizzazione):
  • Somatici: dolore o fastidio al petto; vertigini, sensazione di instabilità o svenimento; sensazione di soffocamento; vampate o brividi; nausea o dolori addominali; intorpidimento o sensazioni di formicolio; palpitazioni o aumento della frequenza cardiaca; sensazione di respiro corto o di soffocamento; sudorazione; tremore.

Si parla di “disturbo di panico” in presenza di episodi ricorrenti e inaspettati, accompagnati dalla paura di un futuro attacco (molto spesso la persona arriva a adottare strategie di evitamento, facendo di tutto per non ritrovarsi in determinate situazioni che precedentemente hanno causato un attacco di panico, per paura che il disturbo si ripresenti mettendolo in pericolo) che possono compromettere in modo importante la qualità di vita della persona.

Tuttavia, numerosi studi confermano che la terapia cognitivo comportamentale sui disturbi di panico può essere molto efficace per gestire la sintomatologia acuta e il mantenimento dei successi ottenuti durante il follow up. Ce ne parla la dott.ssa Monica Piccinni, psicoterapeuta cognitivo comportamentale di PsicoCare.

Come funziona la terapia cognitivo comportamentale?

La terapia cognitivo comportamentale (Cognitive-Behaviour Therapy, CBT) è attualmente considerata uno degli interventi non farmacologici più affidabili ed efficaci per il trattamento del disturbo da attacchi di panico. Tale approccio evidenzia una complessa relazione tra emozioni, pensieri e comportamenti, sottolineando come i problemi emotivi siano il prodotto di credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo, a dispetto della sofferenza che la persona sperimenta e delle possibilità di cambiarli, a causa dei meccanismi di mantenimento. 

La CBT agisce prevalentemente sui sintomi sperimentati dalla persona, cercando di indebolire progressivamente e gradualmente i legami tra gli stimoli ansiogeni e la percezione dell’ansia. Si propone di aiutare il paziente ad individuare i propri pensieri catastrofici e angoscianti, formati a causa del disturbo, e gli schemi disfunzionali di ragionamento e a riconoscerne l’irrealtà, provando a modificarli attraverso il cambiamento del comportamento.

Quali sono i benefici della terapia cognitivo comportamentale sul Disturbo da attacchi da panico?

Attraverso il percorso di trattamento e la costruzione di un programma comportamentale specifico e strutturato, l’aspetto comportamentale prevede di esporsi gradualmente alle situazioni ritenute pericolose o minacciose dalla persona, provando a ridurre gradualmente le condotte di evitamento fobico e di conseguenza l’ansia anticipatoria associata alla paura di poter ri-sperimentare un attacco di panico in situazioni uguali o simili a quelle temute. Una parte essenziale di questo approccio risulta infatti essere l’interazione e la collaborazione tra paziente e terapeuta attraverso dei compiti da svolgere insieme e/o in autonomia al domicilio e l’acquisizione di tecniche specifiche per la gestione dell’ansia (tecniche respiratorie e di rilassamento). L’intervento cognitivo punta invece a modificare le convinzioni, i vissuti emotivi negativi e le distorsioni cognitive formate a causa del disturbo, stimolando le risorse interne della persona che può gradualmente tornare a ‘funzionare’ e a riprendersi la libertà di azione perduta.

Quanto dura la terapia cognitivo comportamentale per il trattamento del Disturbo da attacchi da panico?

La durata della terapia cognitivo comportamentale è chiaramente determinata da vari fattori (la motivazione del paziente, lo stabilirsi di una buona relazione terapeutica, l’adesione al programma stabilito) ed è strettamente connessa alla gravità del disturbo presente e del livello di malfunzionamento. La CBT è considerata comunque un trattamento di breve/media durata perché è centrata sul problema e ha come obiettivo quello di fornire soluzioni dirette e a breve termine e tendenzialmente può variare dai sei ai dodici mesi. 

La terapia cognitivo comportamentale ha dei limiti per il trattamento del Disturbo da attacchi da panico?

Nel trattamento cognitivo comportamentale si possono creare delle resistenze da parte del paziente a causa della paura di affrontare le situazioni temute ritenute troppo difficili e impossibili da modificare o della difficoltà a raggiungere velocemente gli obiettivi concordati, le quali, in alcuni casi, possono portare ad un precoce abbandono della cura.

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Consegnare un dispositivo elettronico in mano ad un bambino può calmare i capricci e dare una pausa agli adulti. Ma quali sono le conseguenze?

Qualche anno fa la Società Italiana di Pediatria ha pubblicato delle linee guida, sconsigliando smartphone e tablet prima dei due anni, durante i pasti e prima di andare a dormire, limitandone l’utilizzo a un massimo di un’ora al giorno, per i bambini di età compresa tra i 2 e i 5 anni; e a un massimo di 2 ore, per quelli di età compresa tra i 5 e gli 8 anni.

Quali sono i rischi e cosa succede se vengono superati i limiti di utilizzo? Ce ne parla la dott.ssa Dora Siervo, psicoterapeuta di PsicoCare.

Abuso dispositivi elettronici, quali sono gli effetti sui bambini?

La prima ad essere perduta, è la capacità manuale. Questa “gabbia neuronale” a cui vengono sottoposti i bambini quando gli viene consegnato un dispositivo elettronico, li mette in una condizione di passività che non ha nulla a che vedere con tutte quelle cose che invece farebbero bene alla loro età, come disegnare, colorare, fare costruzioni, lavoretti che richiedono manualità, come anche cucinare sporcandosi le mani.

Cosa causa questa diminuita capacità manuale?

Oltre ad una minor capacità di fare le cose, si genera anche una diminuita motricità (al computer e al cellulare si sta da fermi e ci si muove davvero poco per quell’età), accanto ad una forte diminuzione del grado di attenzione che poi, negli anni successivi, si tradurrà in difficoltà a riuscire a seguire con la dovuta continuità le lezioni scolastiche. Infine, viene a mancare anche la cosiddetta motricità fine, quella che servirà, ad esempio, quando cominceranno a scrivere alle scuole elementari.

Cosa provoca questa diminuzione del grado di attenzione?

Questi dispositivi, da un lato hanno un effetto ipnotico, dall’altro bombardano il cervello con continue informazioni che si accavallano una sull’altra in tempi ristrettissimi.

La mente dei bambini (ma lo stesso accade anche con gli adulti) viene bombardata da continui stimoli che a lungo andare provocano una difficoltà di concentrazione protratta nel tempo.

Tanti insegnanti riferiscono che i bambini, fin dalle prime classi, hanno bisogno di essere stimolati in continuazione perché sono incapaci di seguire un unico discorso anche solo per alcuni minuti. Questo provoca in loro una certa irrequietezza, difficile da gestire per chi deve tenere ben salda l’attenzione dei venti e più bambini riuniti in una singola classe.

È giusto che i bambini si annoino?

Stimolarli è importante; tuttavia, è anche vero che non bisogna oberarli di attività, per non rischiare l’effetto contrario, quello che poi porta all’iperattività.

Molto spesso i bambini ricercano i dispositivi elettronici per non annoiarsi o perché non sanno cosa fare. Ed è proprio questo il punto: la noia, nell’età evolutiva, è fondamentale perché può spingerti ad immaginare e creare delle cose stupende. Se ti annoi sei portato a inventarti giochi, a costruire oggetti con quello che hai a disposizione, a disegnare, a dedicarti alla musica, anche se in modo abbozzato, vista la tenera età.

Cosa possono fare i genitori?

Mettere fin dall’inizio dei limiti, dei paletti precisi, oltre cui non si può andare. In questo modo sarà più facile, poi, pretendere che il bambino li rispetti. Intervenire quando ormai è troppo tardi e il piccolo si è già abituato a ritmi non adatti, renderà il tutto più complicato.

Come fare? Ad esempio, si possono stabilire delle fasce orarie: “puoi usarlo solo dalle 14 alle 15” oppure “puoi usarlo un’ora al giorno, decidi tu quando”.

In genere il bambino si lamenta, ma poi si abitua a seguire le indicazioni. Tuttavia, è fondamentale che poi anche gli adulti diano il buon esempio, non passando troppo tempo davanti ai dispositivi elettronici.

Infine, è importante stimolare l’attenzione dei bambini (e in seguito dei ragazzi), invitandoli a leggere, portandoli a visitare musei, mostre, concerti, o a fare qualche passeggiata (in città, in campagna, nei parchi, in montagna, sulla spiaggia) ma soprattutto, ascoltandoli. I bambini hanno bisogno di essere guardati, devono sentire l’attenzione degli adulti che hanno di fronte. A volte può bastare fermarsi, sedersi al loro fianco, guardarli negli occhi per conquistare la loro attenzione. Non è sempre facile, perché siamo sempre presi da mille impegni, ma in alcuni momenti è proprio importante dire al proprio figlio: “Ok, sono qui vicino a te e ti ascolto con attenzione”.

E lo stesso vale anche per i preadolescenti: tante problematiche che si sviluppano a quell’età nascono dell’idea che il ragazzo si fa di non interessare ai propri genitori, che mostrano di avere sempre altre cose per la testa. Quante volte vi è capitato di sentirvi dire: “Hai capito?” oppure ripetere più volte lo stesso concetto? È proprio perché hanno l’impressione che tu non l’abbia ascoltato a dovere. Per questo è importante fermarsi – anche fisicamente – e ascoltare i propri figli.

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La maggior parte di noi vede la rabbia come qualcosa di negativo, pensa che per essere bravi e buoni non dovrebbe mai arrabbiarsi ma mantenere la calma e controllare l’aggressività; tuttavia, il primo errore è proprio questo: dare per scontato che rabbia ed aggressività siano la stessa cosa. Che cos’è dunque la rabbia e come possiamo imparare a gestirla?

Ce ne parla il dott. Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Che cos’è la rabbia e a cosa serve?

La rabbia fa parte dell’esperienza umana, è un’emozione universale (indipendentemente dall’età, dalla cultura e dall’etnia di appartenenza) e svolge un ruolo fondamentale nella nostra vita perché segnala la violazione dei propri diritti o la presenza di un ostacolo al raggiungimento dei nostri obiettivi. Pertanto, dovrebbe essere intesa come un campanello di allarme che avvisa chi la sperimenta, che qualcosa o qualcuno potrebbe arrecargli un danno, impedirgli di raggiungere un obiettivo o esporlo ad un’ingiustizia.

Ma non solo, la rabbia può essere anche una reazione fisiologica all’impotenza sperimentata di fronte a contesti immodificabili (come un lutto o una diagnosi oncologica) o assolvere alla funzione di preparare all’azione, predisponendo l’individuo ad organizzare comportamenti mirati alla rimozione dell’ingiustizia e/o del danno. Infatti, anche la sola comunicazione verbale e non-verbale (mimica facciale e postura) della propria rabbia può esercitare una certa influenza sul comportamento degli altri.

La rabbia coincide con il forte sentimento di malessere; l’aggressività con l’attacco fisico e verbale. La rabbia può sfociare in comportamenti aggressivi (come urlare o lanciare oggetti) o aumenta la probabilità di metterli in atto.

Le persone che sperimentano livelli elevati di rabbia hanno infatti una probabilità maggiore di compiere azioni ostili (come discussioni accese, distruzione di proprietà o aggressioni fisiche); tuttavia, la rabbia non sfocia sempre in azioni violente e aggressive, così come la violenza e l’aggressione possono verificarsi anche in assenza di rabbia (per esempio nel caso di una rapina dove l’aggressione è puramente strumentale).

Esistono infatti, azioni aggressive depurate dalla rabbia e azioni rabbiose che non possono essere definite aggressive. Si può essere aggressivi pur non essendo arrabbiati (motivati, per esempio, dalla volontà di esprimere dominanza o sottolineare la propria superiorità in un determinato contesto), e si può manifestare rabbia senza essere aggressivi (stringendo i pugni, urlando o digrignando i denti). 

Inoltre, la rabbia, se ben gestita, può avere un’importante funzione anche all’interno delle relazioni e dei rapporti interpersonali: ascoltare e validare la rabbia ci permette di individuare i nostri “confini” relazionali, evitando così di sentirci invasi o calpestati dal partner, da un amico o un familiare.

Come si può gestire la rabbia?

Gestire la rabbia non significa controllarla o inibirla, ma modularne la risposta emotiva, adeguandola allo specifico contesto. Dobbiamo fare pulizia iniziale e cominciare a liberare questo sentimento dal concetto di giusto e sbagliato, smettendo di associarla all’aggressività, riconoscendo la giusta dimensione emotiva di questa emozione che, come tutte le altre, deve poter fluire nel modo adeguato

Reprimerla porterebbe solo all’esplosione della rabbia attinta da vari contesti (in ufficio, nel traffico, con il/la partner o i figli) in una situazione che presa singolarmente non giustificherebbe quel comportamento, portandoci ad esplodere per un nonnulla, con crisi di violenza e aggressività senza limiti, con una doppia ripercussione negativa che potrebbe gli altri a pensare che siamo troppo aggressivi o che ci accendiamo per una sciocchezza e noi ad avere un senso di colpa per il nostro comportamento.

Di seguito, alcuni suggerimenti che potrebbero aiutarci a gestirla nel modo giusto:

·  Respira: quando la rabbia ci sta “accecando”, la probabilità di mettere in atto agiti impulsivi aumenta; prendiamoci un attimo per “deattivarci” attraverso la tecnica del respiro lento e permetterci di avere una prospettiva più lucida sull’evento che ha scatenato l’emozione della rabbia;

·  Cambia prospettiva (perspective taking): invece di andare subito all’attacco di chi ha prodotto un danno, proviamo a chiederci quali siano le sue motivazioni. Magari non era sua intenzione fare del male o farci arrabbiare;

·  Comunica in maniera assertiva: affronta esplicitamente quella che pensi possa essere una concausa della rabbia. Quando la rabbia è ormai sbollita, vai e chiarisci con calma i motivi della tua rabbia. Coltiva la tua assertività, imparando a rispettare gli altri senza calpestarli e soprattutto impara a rispettare te stesso, senza farti calpestare.

·  Chiedi aiuto a specialisti che possano darti una mano a gestire la tua rabbia. Esprimere la rabbia non significa distruggere o distruggersi.

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Quante volte ci è capitato di essere compassionevoli verso gli altri, prenderci cura di loro, trattarli con amore e cura quando ne avevano più bisogno per poi essere duri e critici con noi stessi magari nel momento in cui affrontavamo la stessa difficoltà? Perché proviamo compassione per gli altri e per noi no? Sono stati gli psicologi Kristin Neff e Chris Germer i primi a rispondere a questa domanda, creando un percorso per insegnare alle persone la gentilezza e la compassione verso sé stesse, intuendo quanto sia difficile farlo, specie in una società che ci vuole sempre più perfetti.

Ce ne parla il dott. Giacomo Calvi Parisetti, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Cosa si intende per auto compassione?

Prima di parlare di self compassion è fondamentale comprendere che cos’è la compassione. Tante volte, nella nostra società, questo concetto assume una valenza sgradevole, specie se è indirizzato verso di noi. Questo accade perché molto frequentemente tendiamo a confondere la compassione con la pena.

La differenza essenziale risiede nel fatto che spesso la persona che prova pena viene avvertita un gradino sopra la persona che è invece oggetto di pena (che si trova quindi su un gradino più basso) con una “differenza di rango”. Al contrario, la compassione implica una posizione “paritaria”, “allo stesso livello” in cui il vissuto viene condiviso empaticamente e con una funzione di cura.

Possiamo riassumere la compassione con una semplice equazione:

Compassione = Empatia (capacità di riconoscere le emozioni e i vissuti altrui) + Desiderio di supportare o alleviare la sofferenza altrui o propria.

Tuttavia, Hayes (2012) definisce la compassione come “l’abilità di esperire in modo accettante emozioni difficili; di osservare in modo mindful i nostri pensieri giudicanti, senza permettere loro di dominare le nostre azioni e i nostri stati mentali; di impegnarci in modo pieno con gentilezza e autovalidazione verso direzioni di vita ricche di valore; e di cambiare in modo flessibile la nostra prospettiva verso un più ampio senso di sé” (Hayes, 2012; Dahl, e coll. 2009).

Kristin Neff, pioniera nella pratica e nello sviluppo delle abilità di compassione, ne ha invece, identificate tre componenti: gentilezza verso sé stessi (ovvero essere gentili con noi stessi quando soffriamo o sbagliamo, piuttosto che giudicarci duramente), umanità comune (ricordandoci che tutti a volte soffrono o sbagliano e che non siamo gli unici ad affrontare momenti così difficili) e consapevolezza (non dobbiamo farci sopraffare dai pensieri negativi: va bene riconoscerli come dolorosi, ma sono solo pensieri, non uno stato d’animo).

A cosa serve l’auto compassione?

L’auto compassione ci consente di alleviare il disagio mentale (e volerci più bene) e ci aiuta a sviluppare e accrescere le nostre capacità e il nostro benessere.

Contrariamente a quanto si possa pensare, l’auto compassione non ci priva della motivazione a migliorare (“Se non mi autocritico quando sbaglio, sarò comunque in grado di imparare dai miei errori?”). Lo conferma una ricerca condotta nell’Università della California a Berkeley, dove ad alcuni studenti è stato chiesto di sostenere un esame accademico estremamente impegnativo, che nessuno è riuscito a superare bene.

Gli studenti erano stati divisi in tre gruppi, ognuno dei quali aveva ricevuto un annuncio diverso dopo il test. Ad un gruppo è stato dato un messaggio di autocompassione: “Se hai avuto difficoltà con il test che hai appena sostenuto, non sei solo. È normale che gli studenti abbiano difficoltà con un esame come questo”. Un altro gruppo ha ricevuto una spinta all’autostima: “Devi essere intelligente se entri a Berkeley!”.

Quindi i ricercatori hanno dato a tutti gli studenti la possibilità di studiare per tutto il tempo che ritenevano necessario per sostenere un nuovo test. Il gruppo dell’auto-compassione ha studiato più a lungo, mostrando la maggiore motivazione a migliorare dopo un fallimento iniziale (e segnando anche un punteggio leggermente più alto).

Questa motivazione al miglioramento si estende anche all’ambito interpersonale.

Gli stessi ricercatori hanno scoperto che le persone più auto compassionevoli hanno maggiori probabilità di chiedere scusa e fare pace con gli altri quando sbagliano, riconoscendo più facilmente i propri errori, perché non si sentono così psicologicamente schiaccianti da quest’ultimi. Ciò gli consente di assumersi più responsabilità per le proprie azioni e la sicurezza di dire: “Ok, ho fallito. Mi sento così male. Bene, è umano. Le persone fanno errori. Come posso ripararlo?”.

La self compassion è utile anche per molti disturbi mentali o situazioni di sofferenza emotiva, spesso riconducibili alla presenza del cosiddetto “Giudice interiore”, che attraverso processi di pensiero e meta-pensiero, come il rimuginio o la ruminazione, favorisce l’instaurarsi di circoli viziosi e il cronicizzarsi di vissuti di ansia e depressione. La self-compassion, in quest’ottica, funge proprio da antidoto,  configurandosi proprio come l’opposto benevolo del “Giudice interiore” .

A tal proposito, negli ultimi anni è stata sviluppata un nuovo approccio psicoterapeutico, che prende il nome di Compassion Focused Therapy (CFT) (Terapia basata sulla Compassione) e fa parte delle psicoterapie Cognitivo Comportamentali basate sulla Mindfulness.

Si tratta di una terapia messa a punto dal Prof. Paul Gilbert (2005), presso l’Università di Derby nel Regno Unito, psicologo e psicoterapeuta impegnato da molti anni nella ricerca clinica e scientifica sul senso di colpa, sulla vergogna e sull’autocritica, i quali sono elementi cardine di molti disturbi psicologici, dalla depressione alle psicosi.

Come fare self compassion?

È fondamentale allenare la propria consapevolezza: imparare a riconoscere il proprio giudice interiore, quella voce che ci dice “non sei stata abbastanza”, “potevi fare di più”, “ti sei visto così fai schifo”. Il semplice gesto di notare questa voce è il primo passo.

Anche la meditazione può essere un grande alleato; in particolare, la pratica mindfulness può aiutarci a sviluppare ed allenare la nostra consapevolezza. Allo stesso tempo, dobbiamo anche allenarci e sviluppare un dialogo compassionevole e comprensivo con noi stessi, allenando quella voce non giudicante, calda e accogliente che tiene conto dei nostri bisogni e delle nostre difficoltà (“Capisco e riconosco che questo sia molto faticoso per me”, “Posso concedermi di sbagliare”, “Cosa posso fare per prendermi cura di me stesso in questo momento?”).

Anche qui la meditazione è importante, offrendoci numerose pratiche di compassione e consapevolezza come, ad esempio, la Meditazione Metta e la Meditazione dell’auto-perdono.

Infine, in presenza di forte sofferenza fisica o del desiderio di approfondire maggiormente questo argomento, è sempre utile rivolgersi ad un esperto o ad una persona con esperienza nel campo, in questo caso può essere lo psicologo-psicoterapeuta con formazione specifica oppure una figura professionale (nutrizionisti, medici, istruttori di meditazione) che ha svolto una formazione in questo ambito.

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L’obesità viene considerata oggi uno dei più gravi problemi di sanità pubblica globale (il 39% degli adulti di età pari o superiore a 18 anni è in sovrappeso, il 13% è obeso). Solo in Italia sono più di 6 milioni le persone che ne soffrono e la sua prevalenza è ancora in aumento.

Come rispondere a questa emergenza sociale? L’approccio per il suo trattamento è di tipo multifattoriale che, indipendentemente dal tipo di intervento scelto dal paziente (farmacologico è chirurgico), si appoggia anche ad un percorso psicologico che si è rilevato fondamentale nell’accompagnare la persona durante tutte le fasi di cura.

Ce ne parla la dott.ssa Paola Mosini, psicologa presso il centro Psico Medical Care di Humanitas.

Che cos’è l’obesità e da cosa è causata?

Con obesità si intende un aumento della percentuale di massa grassa in relazione alla massa magra, dovuto ad uno squilibrio tra calorie assunte ed ossidate. Le cause sono spesso riconducibili a cattive abitudini alimentari (dal punto di vista sia quantitativo che qualitativo), e scarsa attività. Tuttavia, esistono fattori genetici che influenzano la tendenza all’incremento ponderale e fenomeni di adattamento biologico che ostacolano la perdita di peso e il suo mantenimento.

Come viene valutata l’obesità?

Il sistema più utilizzato per valutare l’obesità è il calcolo dell’indice di massa corporea, (IMC o BMI), un valore numerico che si ottiene dividendo il peso (espresso in Kg) per il quadrato dell’altezza (espressa in metri).

Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, vengono identificati come:

Normopeso = IMC da uguale a 18.5 fino a 24.99

Sovrappeso = IMC da uguale o superiore a 25 fino a 29.99

Obesità = IMC uguale o superiore a 30

Inoltre, l’obesità può essere ulteriormente suddivisa in:

Lieve o di 1° grado (B.M.I.= 30-34.9; con eccesso ponderale del 20-40%)

Media o di 2° grado (B.M.I.= 35-39.9; con eccesso ponderale del 41-100%)

Grave o di 3° grado o patologica (B.M.I. ≥40; eccesso ponderale oltre il 100%)

Quali sono le complicanze più frequenti associate all’obesità?

L’obesità, oltre ad avere un impatto importante sulla vita del paziente, dal punto di vista sociale, economico e psicologico, rappresenta un importante fattore di rischio per diverse patologie, come:

·  sindrome metabolica

·  ipertensione

·  dislipidemia

·  aumento del rischio cardiovascolare

·  diabete mellito di tipo II

·  reflusso gastroesofageo

·  apnee notturne (OSAS)

·  disturbi del sistema riproduttivo (come infertilità o basso livello di testosterone)

·  tumori

·  artrosi e artropatia

·  disturbi tendinei e fasciali

·  infezioni della pelle

Chi sono i soggetti più a rischio?

Secondo gli ultimi dati riportati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (2022), in Europa l’obesità colpisce quasi il 60% degli adulti e il 30% dei soggetti in età pediatrica, con numeri in continua crescita. Oggi, infatti, l’obesità viene considerata tra le principali cause di morte e disabilità in Europa con più di 1.2 milioni di decessi all’anno.

In Italia, riguarda un minore su quattro, raggiungendo il 46.1% della popolazione tra le persone dai 18 anni in su con una prevalenza tra i 65- 74 anni.

Come può essere curata l’obesità?

Il trattamento per l’obesità prevede un lavoro di tipo multidisciplinare tra psicologo- nutrizionista- endocrinologo (ed eventualmente uno psichiatra), per aiutare il paziente a modificare il proprio stile di vita e l’approccio al cibo. Dal punto di vista psicologico, le linee guida raccomandano interventi di vario tipo che oltre a dieta ed esercizio fisico, includono la terapia cognitivo – comportamentale (CBT), da sola o in combinazione con la farmacoterapia e la chirurgia bariatrica, che consente un miglioramento più immediato delle condizioni psicologiche del paziente (benessere soggettivo, problemi psicologici, funzionamento della vita, autolesionismo), aiutandolo a promuovere uno stile di vita sano attraverso il coping, la risoluzione dei problemi, il controllo degli stimoli e il miglioramento dell’autoefficacia, l’ACT ha un obiettivo più a lungo termine che comprende:

–   apertura, ovvero la volontà di sviluppare un atteggiamento aperto e accettabile verso sé stessi, le proprie emozioni e i propri pensieri

–   consapevolezza verso sé stessi

–   impegno verso un nuovo stile di vita

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La Discalculia fa parte dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) e corrisponde a difficoltà nella comprensione del sistema dei numeri e del calcolo. Così come gli altri DSA non è dovuta ad un danno organico, ma un diverso neuro funzionamento del cervello, che non impedisce la realizzazione della specifica abilità (lettura, scrittura, numerazione o altro), ma necessita di tempi più lunghi e carichi attentivi maggiori.

Spesso si accompagna ad altri disturbi (come problemi di linguaggio, scrittura o lettura) che rendono più facile diagnosticarla nei bambini. Tuttavia, alcune caratteristiche della discalculia fanno sì che la diagnosi arrivi solo in età adulta, causando criticità maggiori.

Una diagnosi e un intervento precoci sono infatti fondamentali per evitare che il disturbo diventi più severo.

Ce ne parla la dott.ssa Marcella Mauro, psicologa dell’apprendimento di PsicoCare.

Perché è importante la diagnosi precoce di discalculia?

La diagnosi precoce di discalculia è importante perché la mancanza delle basi della matematica può rendere difficile andare avanti con il programma scolastico, portando frustrazione e atteggiamenti negativi degli studenti non solo nei confronti di questa materia ma anche di tutte le altre.

Il bambino a cui non viene riconosciuta la discalculia, crederà di essere meno intelligente rispetto ai compagni o verrà bollato da insegnanti e genitori come “svogliato”, “pigro” o “ senza logica”, etichette che lo porteranno con il tempo a perdere fiducia nelle proprie capacità.

Al contrario, un bambino che riceve precocemente una diagnosi corretta, imparerà ad accettare la sua diversità di apprendimento e ad adottare delle tecniche che lo aiuteranno nel suo percorso formativo.

Quando la diagnosi di Discalculia  arriva tardivamente, in adolescenza,  la situazione diventa più difficile in quanto possono svilupparsi sentimenti di scarsa efficacia, vissuti  di inadeguatezza e molto probabilmente  un disinvestimento nella materia

Quando può  essere fatta la diagnosi di discalculia?

La diagnosi può essere posta dalla fine della classe terza primaria, per non incorrere in “falsi positivi”, ovvero quei bambini che hanno semplicemente un ritmo di apprendimento più lento.

Quali sono i segnali che non andrebbero sottovalutati?

In età prescolare, il bambino può presentare:

·     scarsa capacità di riconoscere i simboli numerici (es. sette al simbolo “7”) e di associare correttamente il numero alla quantità;

·     fatica nel ricordare l’ordine numerico;

·    difficoltà nel confrontare piccole quantità e grandezze;

·     difficoltà ed evitamento dei giochi che implicano l’uso dei numeri, del conteggio e di altri concetti numerici.

Durante la scuola primaria i bambini con difficoltà specifiche nelle abilità matematiche:

·  tendono a usare unicamente le dita per effettuare semplici calcoli (faticano nel calcolo a mente);

·  non riescono a ricordare e automatizzare le procedure di calcolo o ad individuare l’operazione aritmetica richiesta per la risoluzione dei problemi;

·  non memorizzano le tabelline.

Nella scuola secondaria (medie superiori), grazie a strumenti come calcolatrici e formulari, i bambini con discalculia riescono a migliorare nei calcoli ma continuano ad avere difficoltà nella risoluzione dei problemi e nel memorizzare e applicare concetti di matematica alla vita quotidiana. Inoltre, mostrano:

·  difficoltà di automatizzazione degli aspetti legati alla lettura e alla scrittura di numeri;

·  difficoltà nel calcolo a mente;

·  confusione tra simboli numerici, mancata comprensione di termini o di segni aritmetici o difficoltà ad eseguire semplici operazioni aritmetiche e comprendere problemi matematici;

·  disorganizzazione spaziale dei calcoli, a causa degli errori nell’incolonnamento e nel processamento dei numeri (distinzione di unità, decine, centinaia etc);

·  incapacità ad apprendere e memorizzare le tabelline.

Quali sono le ripercussioni può avere la discalculia nella vita quotidiana?

La discalculia può avere diverse ripercussioni nella vita quotidiana, portando la persona a:

·  avere problemi a calcolare il resto quando acquista qualcosa o capire a quanto equivale una certa percentuale di sconto su una merce, nella lettura dell’orologio analogico, dell’orario dell’autobus da prendere, nell’esecuzione di ricette culinarie che contengono proporzioni, equivalenze o altre trasformazioni numeriche

·  ritardare agli appuntamenti per difficoltà a calcolare i tempi necessari per andare in un posto

·  aver bisogno di scrivere immediatamente un numero di telefono per ricordarlo e controllarlo più volte

·  far fatica a tenere il punteggio nei giochi

·  non ricordare date o i fatti importanti

·  far fatica a imparare passi di danza o qualsiasi cosa che implichi una sequenza motoria

·  avere ansia al pensiero di dover fare compiti di matematica sul lavoro

·  avere difficoltà a gestire il denaro o a tenere traccia delle finanze

·  non riuscire a comprendere grafici o diagrammi

·  saltare i numeri quando si legge un lungo elenco o un foglio elettronico

·  trovare difficile usare Excel

·  usare le dita per contare o segnare le pagine con segni di conteggio per tenere traccia dei numeri

Come viene trattata la discalculia nei bambini?

La discalculia può essere presente in modo diverso da individuo a individuo, pertanto i metodi per il trattamento devono essere valutati caso per caso.

Nel bambino, pur non eliminando il disturbo, l’obiettivo è quello di intervenire sulle abilità/competenze non funzionali (a differenza degli adulti dove si cerca di lavorare sulle strategie e sugli strumenti di compenso che supportano le aree deficitarie), tenendo conto del contesto in cui vive, creando una sinergia con la famiglia e la scuola, tenendo in considerazione aspetti meta cognitivi, emotivi e motivazionali, assicurandosi, grazie a continui follow-up, che i progressi si mantengano nel tempo, estendendosi anche ad ambiti di vita quotidiana (oltre che alla scuola).

Strumenti dispensativi (come calcolatrice, computer), insieme alle misure compensative suggerite dalla recente legge 170/2010 (Disposizioni per favorire l’inserimento lavorativo e sociale di persone con disturbi specifici di apprendimento) e alle Linee guida ad essa allegate, possono fornire un altro supporto importante.

Alcune attività e giochi divertenti da fare in famiglia che possono aiutare il bambino discalculico sono:

·  Cucinare insieme, seguendo insieme una ricetta e chiedendo al bambino di gestire la preparazione gli ingredienti necessari per la ricetta che si sta preparando.

·  Andare al supermercato, facendosi aiutare a fare la spesa (ad esempio, chiedendo al bambino di tenere a mente il numero di cose che si devono comprare, identificare i prodotti e confrontare i prezzi)

·  Giocare a indovinare le quantità di mucchi (ad esempio, facendo dei mucchi di pietre, legnetti o legumi e giocare a capire quale ne ha di più e quale meno o quanti oggetti ci sono in un mucchio, avvicinandosi alla quantità con un numero approssimativo)

·  Giocare a contare (ad esempio, mentre si passeggia si possono contare le macchine bianche che si incontrano per la strada o i gradini di una scala)

·  Trovare i numeri (mentre si cammina, si può giocare a trovare numeri civici delle case pari o dispari,o i numeri delle targhe)

·  Distribuire quantità e giocare ad apparecchiare la tavola, distribuendo piatti, posate, bicchieri, etc. per capire che è importante che ad ognuno corrisponda un set completo

Come si può trattare la discalculia in età adulta?

Nell’adulto, come nel bambino, il primo passo è prendere coscienza del disturbo e richiedere una diagnosi presso uno specialista psicologo, neuropsicologo o  neurologo specializzato

Una volta arrivati alla diagnosi, è possibile intervenire sugli eventuali effetti psicologici provocati dalla discalculia, come ansia, bassa autostima, abbassamento del tono dell’umore.

A livello pratico, possono essere utili tablet, smartphone, computer, agende elettroniche e calendari digitali, su cui segnare scadenze e appuntamenti, sfruttando sveglie e promemoria; utilizzare parole chiave, colori e immagini, per evitare di perdere materiali importanti o saltare appuntamenti.

Si può ricorrere anche all’utilizzo di calcolatrici con ritorno vocale o fogli di calcolo (Google Fogli) per verificare l’eventuale presenza di errori; registratori di cassa in grado di calcolare autonomamente il resto; applicazioni dedicate alla creazione di elenchi e schemi procedurali che aiutino a mettere in evidenza i diversi step o le procedure da seguire durante un particolare lavoro.

Tuttavia, gli strumenti di aiuto vanno selezionati sulla base dei risultati ai test, del profilo funzionale, del metodo di studio, delle preferenze soggettive e delle difficoltà pratiche del singolo.

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