L’eccessivo tempo trascorso davanti agli schermi potrebbe risultare particolarmente dannoso per bambini e adolescenti. L’esposizione a contenuti e relazioni inadeguati per la loro età e la sovrastimolazione sensoriale continua, causata da notifiche, messaggi, ecc, possono rendere i giovani particolarmente vulnerabili all’uso degli smartphone (Kwon et al. 2013; Mitchell e Hussain, 2018). L’uso precoce (sotto i 12 anni) e non controllato dello smartphone può, infatti, compromettere i risultati scolastici e portare ad un uso patologico del dispositivo. Gli effetti non sono gli stessi per tutti gli adolescenti: colpiscono maggiormente coloro che presentano difficoltà e problemi già esistenti, peggiorando ulteriormente tali condizioni. 

Ce ne parla la dott.ssa Giorgia Sanvito, psicologa di PsicoCare.

Quali sono i pericoli e gli effetti collaterali?

L’eccessivo tempo trascorso davanti agli schermi può essere dannoso per bambini e adolescenti per diverse ragioni, sia fisiche che psicologiche. Ecco alcune delle principali problematiche legate all’uso eccessivo dei dispositivi elettronici:

  • Problemi di vista: l’esposizione prolungata agli schermi può causare affaticamento visivo, secchezza oculare e miopia. L’American Optometric Association (2022), ha rilevato un aumento dei casi di miopia tra i giovani che passano molto tempo davanti agli schermi.
  • Disturbi del sonno: la luce blu emessa dagli schermi può interferire con il ciclo sonno-veglia naturale, sopprimendo la produzione di melatonina. La National Sleep Foundation (2023) ha evidenziato come l’uso dei dispositivi elettronici prima di andare a dormire riduce la qualità e la durata del sonno nei bambini e negli adolescenti.
  • Obesità: il tempo trascorso seduti davanti a schermi è associato a una diminuzione dell’attività fisica, che può contribuire all’aumento di peso e all’obesità. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (2024) ha collegato l’inattività fisica e l’uso prolungato degli schermi all’incremento dei tassi di obesità infantile.
  • Problemi psicologici: l’uso eccessivo dei social media e dei videogiochi è stato associato a livelli più alti di ansia, depressione e bassa autostima. Uno studio pubblicato su JAMA Pediatrics (2018) ha rilevato che gli adolescenti che passano più tempo sui social media riportano un maggior grado di insoddisfazione e problemi di salute mentale.
  • Riduzione delle capacità sociali: passare molto tempo online può ridurre le opportunità di interazioni sociali faccia a faccia, cruciali per lo sviluppo delle competenze sociali nei bambini. La American Academy of Pediatrics (2016) ha suggerito che l’eccessivo uso dei dispositivi elettronici può influenzare negativamente le abilità di comunicazione e le relazioni interpersonali.
  • Impatto sullo sviluppo cognitivo e sul rendimento scolastico: una ricerca pubblicata su The Lancet Child & Adolescent Health (Walsh et al. 2018) ha trovato che i bambini che trascorrono più di due ore al giorno davanti agli schermi hanno risultati peggiori nei test cognitivi rispetto ai loro coetanei che passano meno tempo sugli schermi. 
  • Assottigliamento prematuro della corteccia cerebrale: dai risultati di uno studio statunitense (Wiederhold 2019) emerge che i bambini di età compresa tra 9 e 10 anni con un alto livello di esposizione a smartphone, tablet o videogiochi mostrano un differente lo sviluppo della struttura cerebrale.

Come possono i genitori sapere qual è la quantità di tempo ‘sana’?

Determinare la quantità “sana” di tempo che bambini e adolescenti dovrebbero passare davanti agli schermi può essere complesso, ma esistono linee guida e raccomandazioni che possono aiutare i genitori.

  • American Academy of Pediatrics: raccomanda che i bambini di età inferiore ai 18 mesi evitino l’uso degli schermi, ad eccezione delle videochiamate. Per i bambini dai 18 ai 24 mesi, l’uso degli schermi dovrebbe essere limitato e supervisionato dai genitori, assicurandosi che i contenuti siano di alta qualità. Per i bambini dai 2 ai 5 anni, è consigliabile limitare l’uso degli schermi a un’ora al giorno di contenuti di qualità. Dai 6 anni in su, i genitori dovrebbero stabilire limiti coerenti sul tempo passato davanti agli schermi, assicurandosi che questo non interferisca con il sonno, l’attività fisica e altre attività essenziali per la salute.
  • Organizzazione Mondiale della Sanità: suggerisce che i bambini sotto i 2 anni non siano esposti agli schermi e che i bambini dai 2 ai 4 anni non superino la soglia di un’ora. Inoltre, sottolinea l’importanza di attività fisica e sonno adeguato.

In generale, è fondamentale prestare attenzione ai segnali, osservando come il tempo trascorso davanti agli schermi influisce sui bambini e adolescenti. Se si nota che l’uso degli schermi interferisce con il sonno, il rendimento scolastico, le interazioni sociali o la salute fisica, potrebbe essere necessario ridurre il tempo sugli smartphone.

Come regolare il tempo trascorso sullo schermo?

Regolare il tempo che bambini e adolescenti trascorrono davanti agli schermi richiede un approccio consapevole e strutturato. Ecco alcuni suggerimenti utili:

  • Sviluppare un piano familiare per l’uso dei media: l’American Academy of Pediatrics (2021) consiglia di stabilire regole chiare su quando e dove è permesso l’uso degli schermi, includendo limiti di tempo appropriati per ogni fascia d’età. Il piano può essere personalizzato per adattarsi alle esigenze e agli interessi della famiglia e dovrebbe essere rivisitato e aggiornato regolarmente.
  • Stabilire zone e tempi senza schermi: definire aree e momenti della giornata in cui l’uso degli schermi non è consentito può promuovere abitudini più sane. Ad esempio, vietando l’uso degli schermi durante i pasti, in bagno e un’ora prima di andare a letto. 
  • Creare “zone senza schermi”: l’Organizzazione Mondiale della Sanità (2019) suggerisce di incoraggiare interazioni sociali e attività fisiche. Giochi all’aperto, lettura, hobby creativi e giochi da tavolo sono ottime alternative.
  • Genitori come modello di comportamento positivo: i bambini tendono a imitare il comportamento degli adulti. Limitare il proprio tempo davanti agli schermi e mostrare interesse per altre attività può avere un effetto positivo su di loro.
  • Monitorare e selezionare i contenuti: assicurarsi che i contenuti a cui i bambini hanno accesso siano appropriati per la loro età e di alta qualità,  utilizzando software di controllo parentale (per monitorare e limitare l’accesso a contenuti inappropriati) e impostando filtri per proteggere i bambini online.
  • Coinvolgere i bambini nella creazione delle regole: discutere apertamente dei motivi per cui è importante limitare il tempo davanti agli schermi può favorire una maggiore cooperazione.
  • Osservare e adattare le regole in base alle necessità di ogni bambino: monitorare il comportamento, il rendimento scolastico, la qualità del sonno e le interazioni sociali per capire se le regole sono efficaci o se devono essere modificate.

Come gestire la resistenza o le obiezioni dei bambini ai limiti di tempo sugli schermi?

Gestire la resistenza dei bambini quando si impongono limiti di tempo davanti agli schermi può essere una sfida. Ecco alcuni suggerimenti utili:

  • Avere una comunicazione aperta: spiegare chiaramente ai bambini il motivo per cui si stanno imponendo i limiti di tempo sugli schermi può aiutarli a comprendere meglio le ragioni dietro le regole e a sentirsi più partecipi nel processo decisionale.  
  • Coinvolgere dei bambini nella creazione delle regole riguardanti: chiedere loro di suggerire idee su come possono bilanciare il tempo sugli schermi con altre attività li farà sentire ascoltati e parte attiva nel processo.
  • Essere disposti a negoziare e adattare le regole in base alle circostanze e alle esigenze dei bambini: ascoltare i loro feedback e fare modifiche ragionevoli può dimostrare che le loro opinioni sono prese in considerazione.
  • Mostrare coerenza nell’applicazione delle regole: stabilire chiaramente le regole e le aspettative riguardanti l’uso degli schermi, assicurandosi che i bambini sappiano quando e per quanto tempo possono usare i dispositivi elettronici.
  • Offrire alternative interessanti e coinvolgenti: promuovere attività che non prevedano l’uso degli schermi, come sport, giochi all’aperto, lettura, progetti artistici, hobby e giochi da tavolo può aiutare a distrarre i bambini dallo smartphone.
  • Modellare comportamenti positivi: dimostrare un uso equilibrato degli schermi e mostrare interesse per altre attività può influenzare positivamente i bambini che tendono a imitare il comportamento degli adulti.
  • Premiare il comportamento positivo: offrire ricompense come elogi, adesivi, punti premio o tempo extra per un’attività che amano.
  • Integrare il tempo sugli schermi in una routine quotidiana strutturata: può aiutare a rendere più prevedibile e accettabile il momento in cui si utilizzano i dispositivi elettronici. Ad esempio, stabilire un periodo specifico della giornata per l’uso degli schermi, seguito da altre attività pianificate.
  • Mantenere la calma e non reagire in modo eccessivo: quando si affrontano resistenze o conflitti, è importante discutere le preoccupazioni e trovare soluzioni insieme può aiutare a risolvere i conflitti in modo costruttivo.
    Implementare queste strategie può aiutare i genitori a gestire meglio la resistenza dei bambini e a stabilire un uso sano e bilanciato degli schermi.

Raccomandazioni sul tempo trascorso sullo schermo per le diverse fasce d’età

Diverse organizzazioni sanitarie, tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità (2019) e l’American Academy of Pediatrics (2016, 2021) hanno fornito linee guida per aiutare i genitori a gestire l’uso dei dispositivi elettronici:

Neonati (0-18 mesi): evitare l’uso degli schermi, ad eccezione delle videochiamate per mantenere i contatti con familiari e amici.

Bambini piccoli (18-24 mesi): se si introduce l’uso degli schermi, farlo in modo limitato e sempre insieme a un adulto per aiutare il bambino a capire cosa sta guardando. Preferire contenuti di alta qualità educativa.

Bambini in età prescolare (2-5 anni): limitare l’uso degli schermi a un massimo di un’ora al giorno di contenuti di alta qualità. Co-visionare i contenuti con i bambini per aiutarli a capire e applicare ciò che vedono nel mondo reale.

Bambini in età scolare (6 anni e oltre): stabilire limiti coerenti sul tempo passato davanti agli schermi. Assicurarsi che il tempo trascorso sugli schermi non interferisca con il sonno, l’attività fisica e altre attività essenziali per la salute e lo sviluppo. Promuovere un uso equilibrato degli schermi e attività alternative.

Adolescenti: continuare a monitorare e limitare l’uso degli schermi, assicurandosi che gli adolescenti abbiano un tempo adeguato per il sonno, l’attività fisica, le attività scolastiche e le interazioni sociali faccia a faccia. Discutere insieme l’importanza di un uso responsabile e consapevole dei media digitali.

Quando è necessario rivolgersi al professionista?

Riconoscere quando è necessario cercare aiuto professionale per gestire l’uso degli schermi da parte dei bambini può essere fondamentale per il loro benessere. Ecco alcuni segnali che potrebbero indicare la necessità di consultare un esperto:

  1. Cambiamenti Comportamentali e Emotivi:

●  Il bambino mostra segni di dipendenza dagli schermi, come irritabilità o ansia quando non ha accesso ai dispositivi elettronici.

●  Comportamenti compulsivi o difficoltà a smettere di usare i dispositivi anche quando viene chiesto.

●  Calo significativo dell’umore, depressione o isolamento sociale dovuto all’uso eccessivo degli schermi.

  1. Difficoltà Scolastiche:

●  Calo del rendimento scolastico, difficoltà a concentrarsi sui compiti o disinteresse per le attività scolastiche.

●  Assenteismo o mancanza di partecipazione alle attività scolastiche a causa del tempo trascorso sugli schermi.

  1. Problemi di Salute Fisica:

●  Disturbi del sonno, come difficoltà ad addormentarsi o insonnia, legati all’uso eccessivo di dispositivi elettronici prima di andare a letto.

●  Affaticamento oculare, mal di testa o dolori muscolari dovuti all’uso prolungato degli schermi.

●  Aumento di peso o sedentarietà eccessiva causata dalla mancanza di attività fisica.

  1. Conflitti Familiari:

●  Discussioni frequenti o conflitti tra genitori e figli riguardo l’uso degli schermi.

●  Il bambino preferisce passare il tempo sugli schermi piuttosto che partecipare ad attività familiari o sociali.

  1. Perdita di Interesse per Attività Non Tecnologiche:

●  Disinteresse per attività che non coinvolgono dispositivi elettronici, come sport, hobby, giochi all’aperto o socializzazione con coetanei.

Consultare il pediatra può essere il primo passo per discutere delle preoccupazioni riguardanti l’uso degli schermi e ricevere consigli o essere indirizzati verso specialisti, se necessario.

Rivolgersi a uno psicologo può aiutare a identificare problemi legati all’uso degli schermi e offrire strategie per gestirli. Partecipare a gruppi di supporto per genitori consente di condividere esperienze e ricevere consigli da altri che affrontano sfide simili. Inoltre, risorse online e linee telefoniche di supporto, come quelle offerte da Telefono Azzurro, possono fornire ulteriore aiuto e consigli per i genitori alle prese con problemi legati all’uso della tecnologia da parte dei figli.

Come possono i genitori aiutare i loro figli a sviluppare abitudini sane a lungo termine per quanto riguarda il tempo trascorso sullo schermo?

I genitori possono aiutare i figli a sviluppare abitudini sane riguardo al tempo trascorso davanti agli schermi con diverse strategie:

  • Creare un piano familiare per l’uso dei media: stabilire regole chiare e limiti di tempo appropriati.
  • Definire zone e momenti senza schermi: ad esempio, durante i pasti e prima di dormire, per migliorare la qualità del sonno e le interazioni familiari.
  • Promuovere attività alternative: coinvolgere i bambini in attività non digitali.
  • Modellare comportamenti positivi
  • Monitorare i contenuti digitali
  • Coinvolgere i bambini nella creazione delle regole
  • Consultare pediatri o psicologi per ulteriori suggerimenti su come gestire l’uso degli schermi
  • Partecipare a gruppi di supporto
  • Utilizzare risorse online

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Il mind-wandering è la naturale tendenza della mente a vagare, spostando l’attenzione da un argomento all’altro in breve tempo. Questo fenomeno, parte integrante della mente umana, porta spesso a riflettere su eventi passati o a immaginare situazioni future che potrebbero non avverarsi mai.

Questa funzione mentale è considerata un traguardo dell’evoluzione umana, perché permette di:

·  pianificare

·  apprendere

·  ipotizzare

·  immaginare

·  sognare ad occhi aperti.

Tuttavia, il mind-wandering eccessivo può avere costi emotivi significativi. Quando la mente vaga troppo, diventa difficile controllare. Pensare costantemente a situazioni passate, ormai immodificabili, o preoccuparsi per eventi che potrebbero non verificarsi mai, può rendere infelici.

Ad esempio, se occorre preparare un esame universitario o leggere urgentemente una relazione di lavoro, il mind-wandering può far perdere tempo prezioso. Trovarsi a rileggere lo stesso paragrafo più volte perché distratti da altri pensieri può compromettere la capacità di studiare efficacemente o essere produttivi sul lavoro. Questo non influisce solo sulle performance, ma può anche causare conseguenze emotive negative, come frustrazione e stanchezza.

Ce ne parla la dott.ssa Cristina Di Nardo, psicoterapeuta e neuropsicologa presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Medical Care Torino Principe Oddone.

Il mind-wandering e le emozioni negative

Alcuni studi hanno osservato che, durante le emozioni negative, si tende ad incrementare il mind-wandering. Tuttavia, uno studio del 2010 pubblicato su Science, ha rilevato che il mind-wandering può essere la causa stessa delle emozioni negative. In altre parole, mentre è comune passare rapidamente da un pensiero all’altro durante momenti di stress o tristezza, questo vagare mentale può generare sentimenti negativi.

La natura del mind-wandering

Il mind-wandering è un processo naturale. La nostra mente è predisposta a passare facilmente da un pensiero all’altro, specialmente quando eseguiamo attività automatiche che non richiedono piena concentrazione. Ad esempio, mentre guidiamo, una parte delle nostre energie mentali rimane libera di vagare. Questo può accadere anche durante un viaggio in metropolitana, prima di addormentarsi, o quando ascoltiamo qualcuno che non ci interessa particolarmente.

Impatto del mind-wandering sulle nostre attività quotidiane

Il mind-wandering può influire negativamente sulla capacità di concentrazione, specialmente durante compiti impegnativi. È difficile, ad esempio, rimanere concentrati su una lettura complessa se la mente è costantemente distratta da altri pensieri.

Inoltre, l’attività mentale, come qualunque altra attività fisica, consuma energie: quando siamo preoccupati e continuiamo a rimuginare sui nostri dubbi, potremmo arrivare a fine giornata stanchi a causa del dispendio energetico che si è aggiunto alle nostre normali attività quotidiane.

Gestione del mind-wandering

Per gestire il mind-wandering, si possono adottare diversi metodi. Secondo recenti studi, quelli più efficaci sono i training di mindfulness, l’aumento della consapevolezza riguardo i propri pensieri ed il coinvolgimento in attività:

1. Training di mindfulness

Quando il mind-wandering provoca emozioni negative o pensieri dolorosi, la mindfulness aiuta a rimanere nel presente, a focalizzarsi sulle situazioni attuali, dirigendo la propria attenzione verso ciò che sta accadendo nel “qui ed ora”, aiutando a mantenere la concentrazione e a raggiungere uno stato d’animo più sereno.

Diversi studi hanno dimostrato che i training di mindfulness riducono il tempo occupato dal mind-wandering, aumentando la capacità di attenzione e migliorando le performance (Smallwood & Schoooler, 2015). Ad esempio, un breve esercizio di focalizzazione sul proprio respiro può ridurre gli errori di distrazione in compiti di vigilanza attentiva (Mrazek et al., 2012b).

2. Monitoraggio regolare del contenuto dei propri pensieri

Il monitoraggio regolare del contenuto dei propri pensieri può ridurre gli episodi di mind-wandering. Fare regolarmente il punto della situazione tra i propri pensieri permette di identificare e controllare il vagabondaggio mentale, riducendone gli effetti negativi.

3. Tenersi impegnati in attività coinvolgenti

Impegnarsi in attività coinvolgenti è uno dei metodi più efficaci per contrastare il mind-wandering. Il tipo di attività varia da persona a persona e dovrebbe essere scelto in base ai propri interessi e attitudini. Attività come la lettura, il giardinaggio, l’esercizio fisico, la pittura, possono aiutare a mantenere la mente occupata e ridurre il vagabondaggio mentale.

Bibliografia

Killingsworth, M.A., Gilbert, D. T. (2010), “A wandering mind is an unhappy mind”, Science, Vol. 330, Issue 6006: 932.

Smallwoos, J., Schooler, J.W. (2015), “The science of mind wandering: empirically navigating the stream of consciousness”, Annual Review of Psychology, Vol. 66: 487-518.

Mrazek, M.D., Smallwood, J., Schooler, J.W. (2012b), “Mindfulness and mind-wandering: finding convergence through opposing constructs”, Emotion, 12(3): 442-448.

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La depressione è comunemente associata a sentimenti quali perdita del piacere (anedonia), mancanza di interesse per le attività quotidiane e una generale perdita di energia. Tuttavia, esiste una forma meno riconoscibile di questa condizione, chiamata depressione mascherata, in cui i segnali tipici sono sostituiti o offuscati da sintomi fisici, rendendo la diagnosi particolarmente sfidante.

Ce ne parla il dott. Alessandro Spiti, psichiatra di Humanitas PsicoCare.

Depressione mascherata: con quali sintomi si manifesta?

La depressione mascherata si manifesta con sintomi non convenzionali che non vengono immediatamente identificati come segni di depressione. Invece di anedonia e apatia, i pazienti possono lamentare disturbi come mal di testa, dolori muscolari, problemi digestivi o stanchezza estrema. Questi sintomi somatici possono portare i pazienti a cercare inizialmente aiuto medico internistico piuttosto che psicologico/psichiatrico, ritardando così una diagnosi accurata e l’accesso al trattamento adeguato.

Un problema crescente

Secondo un manuale specialistico nella materia [1], fino al 50% dei pazienti che si rivolgono al medico di base presentano sintomi somatici per i quali non viene identificata una causa fisica immediata. Questo fenomeno, spesso associato a disturbi come somatizzazione e ipocondria, è stato incluso nelle classificazioni psichiatriche moderne all’interno della categoria “Disturbi da Sintomi Somatici” [2]. Tuttavia, molti di questi casi presentano una sintomatologia somatica che accompagna disturbi psichiatrici più ampi, suggerendo nella maggior parte dei casi una diagnosi di depressione.

La ricerca diagnostica e il ritardo nel trattamento

La ricerca di una diagnosi accurata può essere lunga e complessa, con i pazienti che subiscono ripetute visite mediche, accertamenti diagnostici inutili e terapie inefficaci, il che comporta costi elevati per il sistema sanitario e un peggioramento del disagio per il paziente. Una diagnosi psichiatrica tempestiva potrebbe evitare queste complicazioni, riducendo il costo e migliorando la prognosi del paziente.

L’importanza della consapevolezza e della diagnosi precoce

Aumentare la consapevolezza sulla depressione mascherata è cruciale. Riconoscere che i sintomi fisici persistenti possono avere una causa psicologica e/o psichiatrica permette un approccio diagnostico più ampio e una migliore comprensione del paziente nel suo complesso. La diagnosi precoce è fondamentale per prevenire l’aggravarsi della condizione e per iniziare un trattamento efficace, migliorando significativamente la qualità della vita del paziente.

Come si cura la depressione mascherata?

Il trattamento efficace della depressione mascherata inizia con una diagnosi accurata, essenziale per escludere eventuali patologie organiche che potrebbero manifestarsi con sintomi simili. Una volta stabilita la diagnosi di depressione mascherata, il percorso terapeutico può articolarsi su due principali direttrici: la farmacoterapia e/o la psicoterapia.

Farmacoterapia: Il trattamento farmacologico prevede l’uso di antidepressivi serotoninergici (SSRI) e serotoninergici/noradrenergici (SNRI), che incrementano la disponibilità di serotonina e delle altre monoamine (noradrenalina e dopamina) a livello delle sinapsi cerebrali [3]. Allo stesso modo, gli stabilizzanti dell’umore possono essere efficaci una volta impiegati per moderare le oscillazioni emotive, stabilizzando le condizioni del paziente, nel caso di una depressione mascherata in un paziente con diagnosi di disturbo bipolare.

Psicoterapia: In parallelo al trattamento farmacologico, la psicoterapia si rivela cruciale. L’approccio della psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) è quella che presenta maggiori evidenze nella letteratura scientifica. Questo tipo di terapia guida il paziente verso una maggiore consapevolezza delle proprie esperienze di vita e delle proprie emozioni. Attraverso la CBT, i pazienti apprendono a identificare, analizzare e modificare i pattern di pensiero negativi o disfunzionali. Il lavoro terapeutico si focalizza anche sull’esplorazione delle interpretazioni personali e sulle reazioni comportamentali, facilitando il riconoscimento e la correzione dei comportamenti che contribuiscono al disagio psicologico [4].

Riferimenti Bibliografici

[1] Pancheri, P. (2006). La depressione mascherata. Masson.

[2] American Psychiatric Association. (2022). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed., text rev.). https://doi.org/10.1176/appi.books.9780890425787

[3] Guidi, J., & Fava, G. A. (2021). Sequential combination of pharmacotherapy and psychotherapy in major depressive disorder: a systematic review and meta-analysis. JAMA psychiatry, 78(3), 261-269.

[4] Prisco, V., Donnarumma, B., & Prisco, L. (2023). Evolution of Psychosomatic Diagnosis: From Masked Depression to Somatic Symptoms and Related Disorders. OBM Geriatrics, 7(1), 1-6.

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La tele-riabilitazione è un trattamento che grazie alle tecnologie digitali consente di fornire servizi di riabilitazione a distanza. Nell’ambito della psicologia, esistono diversi programmi ed esercizi che possono essere attuati.

Tuttavia, la scelta specifica dipenderà dalle esigenze individuali del paziente e dalla natura del problema in questione.

Ce ne parla la dott.ssa Giorgia Sanvito, psicologa di PsicoCare.

Quando è utile la tele-riabilitazione e a chi è rivolta?

Lo scopo del trattamento riabilitativo dei DSA e delle funzioni neuropsicologiche alla base della letto-scrittura e del calcolo, come ad esempio le funzioni esecutive (memoria di lavoro, attenzione, pianificazione, inibizione, ecc.), è quello di stimolare una competenza non comparsa o comparsa in ritardo e in modo anomalo rispetto a quanto si verifica nello sviluppo., in età evolutiva è essenziale intervenire precocemente per evitare lo strutturarsi di alcune fragilità e per ostacolare il verificarsi di un “effetto a cascata” di una certa difficoltà su altri ambiti dello sviluppo. Frequentemente, infatti, la mancanza di una riabilitazione tempestiva e l’attivazione di trattamenti ritardati o poco efficaci possono avere effetti a lungo termine sulle opportunità educative, come ad esempio la scelta della scuola superiore, e sul successo professionale di un individuo e, di conseguenza, contribuire allo strutturarsi di disturbi psicologici, tra cui ansia e depressione (Brizzolara et al., 2011). 

Con la teleriabilitazione, è invece possibile avvalersi di programmi riabilitativi che possono essere svolti fuori dall’ambulatorio specialistico, a casa o a scuola, attraverso l’uso di piattaforme informatiche e tecnologiche, facilitando così l’accesso ai trattamenti, la riduzione dei costi e la precocità della presa in carico. 

Nello specifico, è possibile proporre una teleriabilitazione per potenziare:

●  la lettura, lavorando sulla diminuzione degli errori e sulla riduzione dei tempi di decodifica ad alta voce. Le persone con dislessia risultano infatti più lente e scorrette nella lettura e questo può portare anche a difficoltà nella comprensione del testo; 

●  le abilità aritmetiche, cercando di migliorare le strategie di calcolo, la discriminazione tra quantità numeriche e la comprensione dei problemi;

●  la scrittura, con l’obiettivo di ridurre gli errori ortografici e migliorare l’esposizione scritta;

●  le funzioni esecutive, come la memoria di lavoro, la pianificazione, l’automonitoraggio e l’inibizione, che sono le fondamenta su cui poggiano gli apprendimenti (lettura, scrittura, calcolo).

Inoltre, attraverso la via telematica è possibile eseguire attività indirizzate a promuovere nei ragazzi con DSA l’utilizzo di app e strumenti compensativi informatici.

Come avviene la presa in carico riabilitativa?

Dopo un’attenta valutazione del caso, tramite una buona raccolta dei dati anamnestici e un’analisi del profilo cognitivo e psicologico della persona, è possibile scegliere la modalità più opportuna di presa in carico e di trattamento. 

Per quanto concerne la teleriabilitazione, esistono tre modalità di trattamento a distanza: 

  • Sincrona, in cui il clinico, in tempo reale, conduce la seduta da remoto.
  • Asincrona, che si basa sull’invio di materiali o video delle attività da svolgere per poi ricevere un feedback dall’utente o dalla piattaforma se prevede un monitoraggio a distanza.
  • Mista (o Ibrida), in cui alla seduta in tempo reale segue un programma di homework strutturati in modalità asincrona. Questo doppio canale consente da una parte un intervento più intensivo, dall’altra un monitoraggio continuo delle attività proposte con un’interazione circolare, che permette un intervento più ragionato e organizzato.

Quali sono i programmi e gli esercizi più utilizzati?

Ad oggi disponiamo di diverse piattaforme con cui è possibile strutturare interventi riabilitativi mirati sia al potenziamento degli apprendimenti come lettura, scrittura e calcolo, sia al potenziamento delle abilità cognitive che li supportano (funzioni esecutive, memoria di lavoro e attenzione). 

Resta comunque fondamentale ricordare che il trattamento a distanza deve conservare quelle caratteristiche di individualità dell’intervento che scaturiscono dal ragionamento clinico, dalle evidenze scientifiche e dall’esperienza professionale, e non dalla applicazione automatica di piattaforme e format riabilitativi.

Quali sono i vantaggi della tele-riabilitazione?

La teleriabilitazione offre un’ottima soluzione a problemi «di accesso» e di comunicazione, consentendo di avvicinare le persone al di là della distanza. Ciò garantisce all’utente la possibilità di raggiungere e avere accesso a servizi di strutture specialistiche anche lontano da casa.

Inoltre, la teleriabilitazione consente l’inizio tempestivo degli interventi che possono essere erogati con intensità e per periodi di tempi anche prolungati. 

Infine, come sottolineato soprattutto nella letteratura di oltreoceano, la teleriabilitazione permette anche l’erogazione di servizi a costo minore, specie se in modalità asincrona (Savard et al., 2003).

Questi punti di forza hanno sostenuto lo sviluppo della teleriabilitazione fin dalle prime fasi, portando a rimuovere barriere nell’accesso a trattamenti riabilitativi tradizionali e consentendo un inizio tempestivo degli interventi, con obiettivi e intensità definite e possibilità di supervisione.

Quali sono i limiti della tele-riabilitazione?

Oltre a questi vantaggi, la teleriabilitazione presenta a tutt’oggi limiti e difficoltà, che non sono ancora stati superati. Tra questi, la possibilità di accedere alla rete. Una parte della popolazione, infatti non dispone ancora di una connessione internet o ne ha un accesso limitato. Questo è un elemento ad alto impatto, che può configurare una discriminazione.

Inoltre, il venir meno di un contatto di persona con il terapeuta, può portare con sé potenziali conseguenze negative, sia dal punto di vista dell’efficacia del trattamento riabilitativo che dal punto di vista socio relazionale. Un intervento tecnicamente perfetto e proposto con i supporti più aggiornati sarà inefficace, se non controproducente, qualora non tenga conto della persona nella sua interezza, sia essa un bambino o un adulto. In particolare, la motivazione dell’utente deve essere costantemente sostenuta.

La tele-riabilitazione può sostituire la visita in presenza?

La teleriabilitazione, se portata avanti in modo sufficientemente autonomo, con adeguata compliance e motivazione da parte dell’utente, può essere scelta come intervento d’elezione. Tuttavia, prima di poter intraprendere un percorso riabilitativo a distanza, è essenziale esaminare il profilo funzionale del paziente, così da poter cucire su misura l’intervento più adatto. 
Il processo di valutazione neuropsicologica, fondamentale per avere un quadro chiaro dei punti di forza e di debolezza del paziente, risulta ancora difficilmente attuabile a distanza, soprattutto in merito alla possibilità di osservare alcuni aspetti qualitativi che potrebbero essere più evidenti in presenza fisica del paziente e in secondo luogo perché gli strumenti utilizzati per indagare il profilo cognitivo e gli apprendimenti richiedono procedure di somministrazione standardizzate sulla base delle quali poter attribuire valori di attendibilità e validità alle nostre valutazioni e formulare diagnosi che confluiscano in documenti ufficiali (le certificazioni per i DSA).

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Non importa se ascolti musica costantemente oppure solo in doccia, se sei un maestro di musica o se non hai mai maneggiato uno strumento.

Il rapporto tra la musica e le nostre emozioni riguarda tutti noi, e da sempre è oggetto di interesse e studio scientifico

L’equipe di Humanitas PsicoCare, il team dedicato al benessere psicologico di Humanitas, sta indagando sul legame profondo che unisce musica ed emozioni, e ha ideato un breve sondaggio per chi ama la musica. 

Sarà un piccolo viaggio (solo 3 minuti e non preoccuparti, non ci saranno domande aperte) alla scoperta del tuo rapporto con la musica

Il sondaggio


  • Che tipo di musica scegli per ogni stato d’animo?  
  • Hai una canzone per la felicità, una per la rabbia e una per ritrovare la pace interiore? 
  • Come influenza le tue emozioni?

Queste sono solo alcune delle domande che troverai. 

Non preoccuparti, il sondaggio è completamente anonimo

Una volta terminato, ne analizzeremo a fondo gli esiti e per darne una lettura scientifica. 

Musica ed emozioni: un legame vitale

La scienza ha dimostrato che la musica ha un impatto potente sulle nostre emozioni: le sue proprietà edoniche non solo migliorano la salute e il benessere, ma agiscono anche sui sistemi neurochimici della ricompensa e del piacere (influenzando la produzione di dopamina), dello stress e dell’arousal, del sistema immunitario e del senso di appartenenza sociale (Chanda et al. 2013). 

Studi di neuroimaging hanno inoltre dimostrato che ascoltare musica coinvolge le principali reti neuronali legate alle emozioni, come l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, l’ippocampo e l’amigdala, tutte strutture coinvolte nella regolazione dello stress (Tsigos et al. 2002).

Numerosi studi hanno dimostrato che un alto coinvolgimento musicale, sia attraverso l’ascolto frequente che la pratica attiva con strumenti musicali o il ballo, ha una correlazione positiva con la qualità della vita, il benessere, i comportamenti prosociali, la connessione sociale e la competenza emotiva. 

Questo ha portato a ipotizzare che ascoltare musica possa proteggere contro l’insorgenza di disturbi mentali (Theorell et al. 2014). Ad esempio, secondo la teoria dell’omeostasi, la musica viene utilizzata per regolare l’umore e i livelli di stress nei momenti difficili, prevenendo così patologie come la depressione (Cummins, 2010).

Chanda. M.L, Levitin. D (2013) The Neurochemistry of Music, Trends in Cognitive Sciences, V.17(4) 179-193

Theorell TP, Lennartsson AK, Mosing MA, Ullen F. Musical activity and emotional competence – a twin study. Front Psychol. 2014;5:774.

Cummins, R. A. (2010). Subjective wellbeing, homeostatically protected mood and depression: A synthesis. Journal of Happiness Studies, 11(1), 1–17.

Tsigos C, Chrousos GP. Hypothalamic-pituitary-adrenal axis, neuroendocrine factors and stress. J Psychosom Res. 2002 Oct;53(4):865-71. doi: 10.1016/s0022-3999(02)00429-4. PMID: 12377295.

La fobia specifica è un tipo di disturbo caratterizzato dalla paura e dall’ansia scatenate da uno stimolo specifico, come una situazione o un oggetto particolare che non rappresenta una minaccia reale secondo il buon senso comune.

Per qualificarsi come una fobia specifica, anziché una semplice paura, occorre vi siano alcune caratteristiche, come:

·  Persistenza: la paura deve essere costante anche se dipende dal verificarsi dell’esposizione (come la paura per i serpenti africani, se vivi in Italia hai un rischio minore di incontrarli);

·  Intensità: la paura o l’ansia devo essere intense o gravi, talvolta accompagnate da attacchi di panico;

·  Comportamenti evitanti: la persona adotta comportamenti di evitamento che interferiscono con la sua vita quotidiana;

·  Sproporzione: i comportamenti evitanti e la paura sono sproporzionati rispetto al pericolo derivante dall’esposizione.

Mentre molte persone possono sperimentare semplicemente delle fobie, pochi soggetti sviluppano un vero disturbo fobico che interferisce con il funzionamento socio-lavorativo.

Ce ne parla il dott. Francesco Cuniberti, medico psichiatra, specialista in disturbi depressivi, d’ansia e di panico, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Principe Oddone a Torino.

Che cos’è la fobia specifica?

La fobia specifica è causata da una paura intensa e irrazionale scatenata da una particolare situazione o un determinato oggetto.

Bisogna quindi identificare l’elemento scatenante nelle diverse situazioni, anche se solitamente il paziente fobico è consapevole di quale sia l’oggetto/situazione legato alla sua fobia e quindi è piuttosto semplice riconoscerlo.

Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), una persona ha una fobia specifica quando:

·  La persona ha una marcata paura o ansia riguardo a un oggetto o una situazione specifica (ad esempio, volare, altezze, animali, ricevere un’iniezione o vedere sangue).

·  L’oggetto o la situazione fobica provoca quasi sempre paura o ansia immediate e viene attivamente evitato o sopportato con intensa paura o ansia sproporzionate rispetto al pericolo reale rappresentato dall’oggetto o dalla situazione specifica e dal contesto socioculturale.

·  Sono presenti quattro sottotipi specifici di fobia, legati a:

1. Animali (cani, ragni, serpenti)

2. Eventi ambientali o naturali (altezza, temporali, acqua)

3. Sangue, lesioni, ferite. Sono le uniche situazioni in grado di scatenare l’equivalente della risposta di freezing che è il contrario della tipica reazione di lotta o fuga che caratterizza le reazioni d’ansia. Inoltre sono associate a risposte vaso-vagali con episodi di svenimento.

La fobia specifica verso gli animali o eventi ambientali/naturali esordisce generalmente durante l’infanzia ed è associata ad una risposta fobica accompagnata da tachicardia, tremore, aumento di frequenza respiratoria.

La fobia specifica legata a sangue, infezioni e ferite ha un’alta familiarità ed è spesso caratterizzata da un’imponente risposta vaso-vagale. Unica possibilità di avere paura e di stare anche male.

Infine, vi è una fobia di tipo situazionale (come trasporti pubblici, tunnel, ponti, ascensori, volare, guidare, luoghi chiusi) che ha un picco d’esordio durante l’infanzia e verso i 25 anni.

Per la diagnosi, i sintomi devono essere presenti per almeno 6 mesi e causare un disagio clinicamente significativo o una compromissione in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti per la persona

Ad esempio, la fobia dei cani, se non arriva ad impedire di uscire di casa o a evitare luoghi o situazioni dove potrebbe esserci un qualsiasi tipo di cane, rimane una semplice fobia e non un vero e proprio disturbo.

Quanto è diffusa la fobia specifica?

La fobia specifica rappresenta uno dei disturbi d’ansia più comuni a livello mondiale, con stime che oscillano tra il 7,4 e il 14% tra gli adulti. In Italia, un recente studio ha evidenziato una prevalenza del 2,3% tra la popolazione.

Le donne, generalmente, sono le più colpite (fino a due volte di più rispetto agli uomini). L’esordio è tipicamente giovanile, ma ci sono casi documentati anche in tarda età. Una volta sviluppata, la fobia specifica tende a persistere per tutta la vita ed è spesso associata al rischio di sviluppare altri disturbi psichiatrici.

Quali sono i sintomi della fobia specifica?  

I sintomi della fobia specifica compaiono quando la persona si trova esposta all’oggetto o alla situazione fobica. La reazione può variare di volta in volta, a seconda del contesto: lieve, quando il soggetto può trovarsi davanti un tenero cagnolino portato a spasso da una persona; intensa, quando ci si trova davanti ad un cane grande e aggressivo senza guinzaglio. Quando diventa un vero e proprio disturbo, l’intensità è sproporzionata e causa forte sofferenza anche davanti al più docile cagnolino: la persona lo percepisce come un vero e proprio potenziale pericolo.

La reazione fobica può avvenire in due modi:

1. Crisi fobiche: si manifestano quando l’individuo è esposto direttamente all’oggetto o alla situazione che teme (sono caratterizzate da una forte attivazione neurovegetativa e neuromuscolare) o al solo pensiero/evocazione dell’oggetto/situazione temuta.

2. Condotte di evitamento/fuga: sono comportamenti patologici adottati dal soggetto per evitare o fuggire alla situazione fobica, caratterizzati da reazioni marcate, che spesso vengono percepiti come bizzarri da chi non conosce la causa sottostante, ed interferiscono con il quotidiano della persona che ne soffre.

Quali sono le differenze tra paura e fobia?

Paura: è determinata da un oggetto e/o da una situazione che inducono lo stesso tipo di reazione d’allarme (anche se con diversa intensità), nella maggior parte delle persone.

Fobia: è provocata da un oggetto e/o da una situazione nota che tuttavia non inducono lo stesso tipo di reazione d’allarme nella maggior parte delle persone.

Come viene gestita la fobia specifica?

Il trattamento della fobia specifica ha mostrato con ottimi risultati, anche tassi di risposta che possono superare l’80%. La gestione di questo disturbo può avvalersi di diverse strategie che vengono adattate alle esigenze e all’intensità della sintomatologia del singolo paziente.

Tra queste troviamo:

  • Psicoterapia, in particolare quella cognitivo/comportamentale che può avvalersi anche, nel percorso di cura, di esposizioni allo stimolo fobico su cui lavorare per gestire la paura e la sintomatologia ansiosa associata. Esistono tre tipi di esposizioni:
  1. Esposizione in vivo (sembra essere l’intervento più efficace per un’ampia varietà di fobie e alcuni studi hanno ottenuto un tasso di risposta compreso tra l’80 e il 90%)
  2. Esposizione immaginativa
  3. Esposizione tramite realtà virtuale (VR) o realtà aumentata (AR), quindi con l’utilizzo delle nuove tecnologie. Nella VR il paziente sperimenta la situazione di paura in un ambiente completamente artificiale simulato da un programma per computer. Al contrario, l’AR crea un ambiente immersivo in cui lo stimolo temuto bersaglio viene potenziato digitalmente e combinato con altri aspetti dell’ambiente di vita reale.
  • Terapia farmacologica, è necessaria quando l’intensità è tale da bloccare il paziente

FONTI: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6407652/; https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32226611/; https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/38097804/

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“Come stai? Tutto ok? Spero che questa email ti trovi bene”

Queste frasi, apparentemente banali, racchiudono un concetto profondo: il benessere. Un tema che, soprattutto per la Generazione Z, assume un’importanza cruciale nell’era iperconnessa dei social media. Nata tra il 1997 e il 2012, la Gen Z ha vissuto in prima persona gli effetti della pandemia, perdendo due anni cruciali del proprio sviluppo. La relazione con l’altro, fondamentale in questa fase della vita, si è spesso ridotta a una dimensione digitale, con conseguenze significative sul benessere mentale.

Partendo da queste riflessioni, Cosmopolitan ha lanciato “La Grande Inchiesta sul Corpo e la Salute Mentale”, un’indagine anonima con oltre 5.000 partecipanti tra i 18 e i 30 anni. Attraverso 22 domande, l’inchiesta ha esplorato la percezione del sé, il rapporto con il corpo, l’impatto dei social e il benessere psicologico della Gen Z. 

Con l’aiuto del prof. Giampaolo Perna, Direttore Scientifico Humanitas Psico Care e docente Humanitas University, ne abbiamo indagato i risultati.

I risultati: una panoramica complessa

L’indagine ha rivelato un quadro complesso e sfaccettato. Un dato su tutti: il 63% dei giovani non si prende cura della propria salute mentale quanto vorrebbe. 

 “Stare bene con me stess*” è la risposta più ricorrente alla domanda sul benessere, seguita da “non avere preoccupazioni o ansie”. Emerge un forte desiderio di crescita personale e di realizzazione, ma anche una diffusa paura del futuro e un senso di inadeguatezza.

«Il problema è reale ed è dovuto a diversi fattori, dal cambio di marcia culturale che ha investito i giovani e i loro genitori, alla pandemia che ha interrotto i contatti fisici fino alla mancanza di educazione sociale e di strumenti di supporto per agire sul mondo dei ragazzi». 

«Il momento di transizione arriva intorno ai 23 anni, quando a livello cerebrale la parte salda del cervello si collega a quella emozionale, e si stabilizzano i comportamenti». 

Ansia: un’amica-nemica

L’ansia è un tema centrale nelle risposte dei giovani. Se da un lato rappresenta un’emozione naturale che ci aiuta ad affrontare le sfide, dall’altro può diventare disfunzionale e ostacolare il nostro benessere, il 94% dei giovani dichiara di avere avuto difficoltà legate all’ansia. 

La paura del giudizio altrui, l’insicurezza e la sensazione di non essere all’altezza sono tra le principali fonti di ansia per la Gen Z.

“Felicità e sorpresa, ma anche paura, rabbia, disgusto, tristezza. Delle sei emozioni primarie, ben quattro sono emozioni negative. Il benessere non può coincidere con l’assenza di emozioni, e per questo diventa fondamentale saper riconoscere e accettare anche le emozioni negative”. 

Il corpo e l’autostima

L’immagine di sé e il rapporto con il proprio corpo sono aspetti cruciali per il benessere mentale. 

L’indagine evidenzia una forte insoddisfazione in questo ambito, con molti giovani che desidererebbero cambiare qualcosa del proprio aspetto, il 57% dei giovani usa filtri quando pubblica foto sui social. La vergogna a parlare dei propri problemi e la paura di essere giudicati ostacolano la ricerca di aiuto e di supporto.

«Si sta cercando di normalizzare l’idea che ogni corpo è bello e diverso, ma l’impatto di questo cambio culturale lo vedremo nel tempo. I ragazzi della Gen Z sono meno legati agli stereotipi, sono più liberi, tolleranti verso le diversità. E questo è il punto di partenza per costruire il loro futuro».

Scopri il team Humanitas PsicoCare 

Riguarda l’intervento completo 

I risultati sono stati presentati all’interno del palinsesto di #CosmoIAM, durante la Design Week di Milano sabato 20 aprile 2024. 

Il prof. Giampaolo Perna, direttore scientifico Humanitas PsicoCare e docente Humanitas University ha dialogato con Lavinia Farnese, Direttore di Cosmopolitan

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Il Binge Eating Disorder (BED), detto anche disturbo da alimentazione incontrollata, è un disordine alimentare piuttosto diffuso. Indica episodi in cui, in un tempo relativamente breve, si assumono grandi quantità di cibo, “abbuffandosi” in modo incontrollato, anche senza avvertire lo stimolo della fame. Vere e proprie perdite di controllo accompagnate da stati depressivi e disagio psicologico, senso di colpa e vergogna. Ce ne parla il dott. Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Come si riconosce il Binge Eating Disorder?

I criteri richiesti dal DSM-5 per la diagnosi del Binge Eating Disorder sono:

1. Ricorrenti episodi di abbuffata caratterizzati da:
– mangiare, in un determinato periodo di tempo (per esempio, un periodo di due ore), una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili;
– mancanza di controllo sul mangiare durante l’episodio (per esempio, sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o a controllare cosa e quanto si sta mangiando).

2. Gli episodi di abbuffata sono associati a tre o più dei seguenti aspetti:
– mangiare molto più rapidamente del normale;
– mangiare fino a sentirsi sgradevolmente pieni;
– mangiare grandi quantitativi di cibo anche se non ci si sente affamati;
– mangiare da soli a causa dell’imbarazzo per quanto si sta mangiando;
– sentirsi disgustati verso sé stessi, depressi o molto in colpa dopo l’episodio.

3. È presente marcato disagio riguardo alle abbuffate;

4. L’abbuffata si verifica, mediamente, almeno due giorni a settimana per 6 mesi o almeno 1 giorno a settimana per 3 mesi.

5. L’abbuffata non è associata all’uso regolare di condotte compensatorie inappropriate (come digiuno o esercizio fisico eccessivo), e non si verifica esclusivamente in corso di bulimia nervosa o anoressia nervosa.

Inoltre, la persona adotta questo comportamento almeno una volta a settimana per almeno tre mesi o 2 giorni a settimana per 6 mesi.

La gravità del Binge Eating Disorder è classificata in:

·   Lieve: da 1 a 3 episodi a settimana

·   Moderata: da 4 a 7 episodi a settimana

·   Grave: da 8 a 13 episodi a settimana

·   Estrema: 14 o più episodi a settimana.

Che differenza c’è rispetto alla bulimia?

Chi soffre di Binge Eating Disorder non tende a compensare le abbuffate con vomito, digiuno, o altri comportamenti che consentano di controllare il peso, ma più comunemente, vive il momento successivo con una sensazione di sconforto. Non attuando comportamenti compensatori, il paziente tende inoltre ad aumentare di peso e, quindi, a presentare obesità o complicazioni a essa associata (come diabete II tipo, patologie cardiovascolari, disturbi gastrointestinali o malattie polmonari, in particolare le cosiddette apnee notturne) 

Infine, il BED si verifica insieme ad altre patologie psichiatriche, come disturbi dell’umore, da panico e di personalità o depressione maggiore

Cosa causa il Binge Eating Disorder?

Le cause del Binge Eating Disorder sono generalmente multifattoriali, ovvero legate a più fattori, come la famiglia, la vita sociale e lavorativa della persona.

Numerosi studi suggeriscono che i pazienti che soffrono di BED manifestano un eccesso dell’impulsività rispetto agli individui sani di peso normale; inoltre, l’eccesso di cibo è spesso una risposta ad ansia, solitudine, stanchezza e ad una più generale difficoltà nel gestire le emozioni (piacevoli o no). 

Come viene diagnosticato il Binge Eating Disorder?

La diagnosi di Binge Eating Disorder richiede, oltre alla valutazione psicologica effettuata attraverso colloqui clinici e test psicologici, prevede anche un esame approfondito della condizione nutrizionale, dello stato fisico e della storia medica del paziente, insieme a test di laboratorio.

Come si cura il Binge Eating Disorder?

Per trattare il Binge Eating Disorder è necessario intervenire su più fronti, prendendo in considerazione il piano psicologico, medico-internistico e nutrizionale, intervenendo anche sullo stile di vita del paziente in cura con un approccio multiprofessionale che nasce da una stretta collaborazione tra medico, psicoterapeuta e biologo-nutrizionista.

Le Linee guida scientifiche (APA), suggeriscono l’approccio psicoterapeutico dialettico comportamentale (DBT) come terapia gold-standard nel trattamento di questo disturbo, poiché in grado di fornire al paziente strumenti pratici (skills) che consentono di imparare a riconoscere le proprie emozioni, comunicarle, trovando alternative più salutari per gestirle, senza necessariamente soffocarle nel cibo.

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L’anestesia rappresenta una delle più frequenti fonti di paura che possono emergere nella fase preoperatoria, insieme al timore per l’intervento chirurgico vero e proprio e alle potenziali complicanze che ne possono derivare.

Il più delle volte, la paura, o meglio l’ansia dell’anestesia, è legata alla mancanza di informazioni e conoscenze di base sulla materia. Inoltre, a differenza della chirurgia, l’anestesia può sembrare astratta ai pazienti chirurgici che spesso descrivono la paura provata in quel momento come la paura dell’ignoto.

Sebbene l’ansia e la paura siano reazioni fisiologiche adattive nei momenti in cui ci si confronta con qualsiasi situazione sconosciuta. Quando però viene vissuta troppo intensamente impatta negativamente sul nostro corpo nonché sulla nostra mente. In particolare, se un individuo prova un’ansia esagerata nel periodo che precede un intervento chirurgico, questa provoca delle alterazioni nel sistema nervoso autonomo con le conseguenze negative legate a ciò (es. nausea, vomito, aumento del dolore post operatorio ecc.). Tutto ciò può inoltre influenzare il periodo di recupero dall’intervento, portando a veri e propri problemi emotivi e psichici, oltre che a problemi fisici, esacerbando a sua volta la paura del dolore.

Lo stato di ansia che viene percepito dai pazienti, quando eccessivo e inappropriato, può interferire con le capacità di adattamento e inibire la risposta immunologica e farmacologica.

Come fare, dunque, per superare la paura/ansia dell’anestesia e vivere al meglio i momenti che precedono e seguono un intervento chirurgico?

Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

Che cos’è l’anestesia?

L’anestesia è la perdita di sensibilità ottenuta con l’impiego di farmaci. Può essere:

·  generale: vi è una totale perdita di coscienza, amnesia (il paziente non ricorda nulla), assenza di movimento durante l’intervento, minima risposta autonoma agli stimoli chirurgici (pressione sanguigna, frequenza cardiaca, temperatura ed altri parametri restano normali), reversibilità (mi sveglio quando tutto è finito).

·  locale: interessa solo alcune parti del corpo e consente di abolire il dolore nella zona d’intervento senza necessariamente avere perdita di coscienza. Spesso viene accompagnata da farmaci ansiolitici o sedativi che riducono molto lo stato d’ansia del paziente.

Perché l’anestesia può far paura?

Come dicevamo inizialmente, la paura dell’anestesia può essere legata alla mancanza di informazioni e alla paura dell’ignoto ma anche al tipo di operazione a cui dovrà sottoporsi il paziente o ad una precedente esperienza di intervento chirurgico. In particolare, l’essere sottoposti all’anestesia generale porta il paziente a vivere uno stato di “morte temporanea” in cui vengono sospese le funzioni vitali (Colombo G., op cit pp. 532-533).

L’ansia preoperatoria spesso deriva da una sensazione di impotenza di fronte all’esperienza chirurgica e all’ospedalizzazione, dovendosi adattare ad ambienti e situazioni nuovi, sconosciuti rispetto alla vita quotidiana. 

Un recente studio ha evidenziato che le preoccupazioni maggiori dei pazienti sono (in ordine di frequenza): 

  • dolore postoperatorio 
  • svegliarsi durante l’intervento chirurgico
  • paura di morire 
  • paura degli aghi e degli interventi
  • paura di sentire dolore durante l’intervento
  • diventare disabile 
  • nausea e vomito post-operatori 
  • esperienza dell’anestesista.

Oltre a queste, ci sono dei pazienti che presentano forme di ansia e preoccupazione legate a tematiche quali l’ignoto, perdita del proprio ruolo sociale (a causa di possibili complicanze post operatorie, come la lesione di nervi periferici), perdita di controllo, inconsapevolezza di ciò che accadrà e alterazioni dell’immagine di sè. 

Come superare la paura dell’anestesia?

Per ridurre l’ansia pre-operatoria si può ricorrere alla somministrazione di farmaci  ansiolitici che però possono prolungare i tempi di recupero post-operatorio. Per questo motivo negli ultimi anni si è cercato di sviluppare dei modelli di prevenzione e riduzione dell’ansia pre operatoria che non includano solo il supporto farmacologico. 

I medici e le figure ospedaliere implicate nella presa in carico del paziente devono provvedere ad informare il paziente stesso circa le modalità di utilizzo dell’anestesia, benefici e controindicazioni. Aumentare la consapevolezza del paziente rispetto a cosa sta affrontando e prendersi cura dello stesso nel periodo pre-operatorio, aiuta ad aumentare la sua soddisfazione e ridurre le paure che si sono instaurate in lui nel corso del tempo. 

È necessario intervenire sui pazienti che mostrano alti livelli di ansia perché l’aumento delle variazioni nel sistema nervoso autonomo possono determinare una necessità maggiore di sedazione e anestetici e aumentare il tempo di recupero postoperatorio.

È noto in letteratura che fornire informazioni dettagliate ai pazienti diminuisce la loro paura e ansia preoperatoria e ciò viene fatto per mezzo di informazioni audiovisive, psicoeducazionali e anche visite infermieristiche preoperatorie. 

Alcune ricerche hanno dimostrato che anche l’ascolto della musica prima dell’operazione incide nella diminuzione delle preoccupazioni e dello stress pre-operatori. 

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Alcune malattie croniche della pelle che ne alterano l’aspetto possono influenzare in modo sostanziale il benessere psicologico del paziente. Patologie come acne, dermatite atopica, psoriasi, vitiligine o calvizie, possono infatti portare a depressione e isolamento sociale.

Cosa caratterizza queste malattie e come è possibile riuscire a gestirle nel modo migliore?

Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare, e al dott. Michele Cardone, Medico-Chirurgo, Specialista in Dermatologia presso Humanitas San Pio X e l’ambulatorio Humanitas Medical Care Murat a Milano.

Quali sono le malattie più comuni della pelle che possono causare problemi psicologici? 

Esistono diverse malattie croniche dermatologiche che possono influenzare lo stato psicofisico del paziente. Tra queste troviamo:

  • Acne: è un disturbo della pelle caratterizzato dalla comparsa di lesioni di vario tipo che possono presentarsi in diverse zone del corpo (volto, torace, dorso e collo) con comedoni (punti neri e bianchi), papule, pustole e, nei casi più seri, cisti e noduli.

Se non adeguatamente trattate, le forme più severe, possono inoltre portare alla formazione di esiti cicatriziali e macchie scure persistenti.

  • Dermatite atopica: è un’infiammazione della pelle che provoca prurito della cute (può compromettere il buon riposo notturno e ridurre così la concentrazione nello studio o sul lavoro) e arrossamento.

Influisce in modo negativo anche sull’autostima e sulla socialità per via della frequente localizzazione della malattia in zone ben visibili della pelle; inoltre, quando diventa cronica o la persona che ne soffre si gratta continuamente, la pelle può ispessirsi (lichenificazione).

  • Psoriasi: è una malattia infiammatoria cronica della pelle caratterizzata dalla formazione di placche rilevate, di colore rosso acceso, rivestite da squame biancastre, presenti in particolare su gomiti, ginocchia e cuoio capelluto.
  • Vitiligine: è un disturbo di ipopigmentazione (pigmentazione irregolare della pelle) che si manifesta con chiazze bianche e opache sulla pelle delle aree esposte al sole, tra cui mani, viso, gambe e piedi.
  • Calvizie: consiste in un arretramento costante della linea dell’attaccatura dei capelli (solitamente negli uomini parte dalle regioni temporali), o nella perdita localizzata in alcune regioni del cuoio capelluto, soprattutto al vertice.

I fattori di stress psicologico possono esacerbare i sintomi di una malattia dermatologica? 

Sì, i fattori di stress psicologico possono contribuire all’eziologia o all’esacerbazione di specifiche condizioni dermatologiche come la psoriasi, l’acne e la dermatite atopica. In questi casi si parla di disturbi psicosomatici, ovvero di malattie dermatologiche che possono essere esacerbate o peggiorate dallo stress emotivo, ma non sono causate direttamente da questo.

Lo stress è un fenomeno comune nella vita di molte persone, ma se intenso e prolungato, può avere un impatto significativo sulla salute, compresa la salute della pelle. Dal punto di vista dermatologico, gli effetti dello stress sulla pelle possono essere molteplici e influenzare una vasta gamma di condizioni cutanee.

Uno dei modi principali in cui lo stress può manifestarsi sulla pelle è attraverso l’aggravamento di condizioni preesistenti o lo scatenamento di nuove problematiche. Ad esempio, l’acne, l’eczema, la psoriasi e l’orticaria possono peggiorare sotto stress. Ciò è attribuibile in parte alla risposta del sistema immunitario e all’aumento dei livelli di cortisolo nel corpo, che possono innescare processi infiammatori e influenzare la funzione barriera della pelle.

Inoltre, lo stress può contribuire alla comparsa di condizioni come la dermatite seborroica e la rosacea, che sono sensibili agli sbalzi ormonali e allo stato emotivo. I sintomi di queste condizioni, come arrossamenti, prurito e desquamazione, possono diventare più evidenti durante periodi di stress emotivo.

La riduzione dello stress è quindi importante non solo per il benessere generale, ma anche per mantenere una pelle sana.

Quali sono gli effetti psicologici più comuni derivanti da un problema alla pelle?

I problemi psicologici derivanti da tali condizioni possono includere:

·  bassa autostima

·  difficoltà ad accettare la propria immagine corporea

·  ansia e depressione

·  isolamento sociale

·  disfunzione sessuale

·  pensieri suicidari

Spesso la prospettiva del paziente rispetto alla propria condizione viene influenzata dall’atteggiamento dei suoi pari nei confronti della propria condizione della pelle.

A quali conseguenze possono portare questi effetti psicologici?

Il dolore o il disagio possono limitare la capacità di svolgere qualsiasi attività quotidiana e le frequenti visite mediche, insieme alla riacutizzazione dei sintomi (che possono richiedere la necessità di prendere giorni di malattia) possono influire sulla qualità di vita. Inoltre, la vergogna e l’imbarazzo del paziente, o il timore del giudizio da parte di altri, possono impedire alla persona di instaurare qualsiasi tipo di relazione (con un partner, amici o familiari). Infine, i pazienti con malattie cutanee croniche possono sviluppare comorbilità psichiatriche legate alla loro condizione.

Come possono essere trattati questi pazienti? 

Esistono diverse strategie che possono aiutare a gestire lo stress e a mitigarne gli effetti negativi sulla pelle. Queste includono la pratica di tecniche di rilassamento come la meditazione, lo yoga o la respirazione profonda, nonché l’adozione di uno stile di vita sano che comprenda una dieta equilibrata, un sonno adeguato e una regolare attività fisica.

Dal punto di vista dermatologico, è fondamentale adottare una corretta routine di cura della pelle che includa la pulizia delicata, l’idratazione e l’uso di prodotti adatti al proprio tipo di pelle. La visita dermatologica è fondamentale per identificare i trattamenti più appropriati per le condizioni cutanee legate allo stress e per ricevere consigli personalizzati sulla cura della propria pelle in base alle caratteristiche di quest’ultima.

A livello psicologico, laddove si strutturano condotte di evitamento sociale, frequenti soprattutto negli adolescenti, può essere necessario intervenire con un percorso psicologico mirato a sostenere l’autostima e a migliorare il rapporto con la propria immagine corporea; la pratica della Mindfulness può essere un intervento efficace per favorire l’accettazione della patologia e di sé così da migliorare la qualità di vita.

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