Non importa se ascolti musica costantemente oppure solo in doccia, se sei un maestro di musica o se non hai mai maneggiato uno strumento.

Il rapporto tra la musica e le nostre emozioni riguarda tutti noi, e da sempre è oggetto di interesse e studio scientifico

L’equipe di Humanitas PsicoCare, il team dedicato al benessere psicologico di Humanitas, sta indagando sul legame profondo che unisce musica ed emozioni, e ha ideato un breve sondaggio per chi ama la musica. 

Sarà un piccolo viaggio (solo 3 minuti e non preoccuparti, non ci saranno domande aperte) alla scoperta del tuo rapporto con la musica

Il sondaggio


  • Che tipo di musica scegli per ogni stato d’animo?  
  • Hai una canzone per la felicità, una per la rabbia e una per ritrovare la pace interiore? 
  • Come influenza le tue emozioni?

Queste sono solo alcune delle domande che troverai. 

Non preoccuparti, il sondaggio è completamente anonimo

Una volta terminato, ne analizzeremo a fondo gli esiti e per darne una lettura scientifica. 

Musica ed emozioni: un legame vitale

La scienza ha dimostrato che la musica ha un impatto potente sulle nostre emozioni: le sue proprietà edoniche non solo migliorano la salute e il benessere, ma agiscono anche sui sistemi neurochimici della ricompensa e del piacere (influenzando la produzione di dopamina), dello stress e dell’arousal, del sistema immunitario e del senso di appartenenza sociale (Chanda et al. 2013). 

Studi di neuroimaging hanno inoltre dimostrato che ascoltare musica coinvolge le principali reti neuronali legate alle emozioni, come l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, l’ippocampo e l’amigdala, tutte strutture coinvolte nella regolazione dello stress (Tsigos et al. 2002).

Numerosi studi hanno dimostrato che un alto coinvolgimento musicale, sia attraverso l’ascolto frequente che la pratica attiva con strumenti musicali o il ballo, ha una correlazione positiva con la qualità della vita, il benessere, i comportamenti prosociali, la connessione sociale e la competenza emotiva. 

Questo ha portato a ipotizzare che ascoltare musica possa proteggere contro l’insorgenza di disturbi mentali (Theorell et al. 2014). Ad esempio, secondo la teoria dell’omeostasi, la musica viene utilizzata per regolare l’umore e i livelli di stress nei momenti difficili, prevenendo così patologie come la depressione (Cummins, 2010).

Chanda. M.L, Levitin. D (2013) The Neurochemistry of Music, Trends in Cognitive Sciences, V.17(4) 179-193

Theorell TP, Lennartsson AK, Mosing MA, Ullen F. Musical activity and emotional competence – a twin study. Front Psychol. 2014;5:774.

Cummins, R. A. (2010). Subjective wellbeing, homeostatically protected mood and depression: A synthesis. Journal of Happiness Studies, 11(1), 1–17.

Tsigos C, Chrousos GP. Hypothalamic-pituitary-adrenal axis, neuroendocrine factors and stress. J Psychosom Res. 2002 Oct;53(4):865-71. doi: 10.1016/s0022-3999(02)00429-4. PMID: 12377295.

La fobia specifica è un tipo di disturbo caratterizzato dalla paura e dall’ansia scatenate da uno stimolo specifico, come una situazione o un oggetto particolare che non rappresenta una minaccia reale secondo il buon senso comune.

Per qualificarsi come una fobia specifica, anziché una semplice paura, occorre vi siano alcune caratteristiche, come:

·  Persistenza: la paura deve essere costante anche se dipende dal verificarsi dell’esposizione (come la paura per i serpenti africani, se vivi in Italia hai un rischio minore di incontrarli);

·  Intensità: la paura o l’ansia devo essere intense o gravi, talvolta accompagnate da attacchi di panico;

·  Comportamenti evitanti: la persona adotta comportamenti di evitamento che interferiscono con la sua vita quotidiana;

·  Sproporzione: i comportamenti evitanti e la paura sono sproporzionati rispetto al pericolo derivante dall’esposizione.

Mentre molte persone possono sperimentare semplicemente delle fobie, pochi soggetti sviluppano un vero disturbo fobico che interferisce con il funzionamento socio-lavorativo.

Ce ne parla il dott. Francesco Cuniberti, medico psichiatra, specialista in disturbi depressivi, d’ansia e di panico, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Principe Oddone a Torino.

Che cos’è la fobia specifica?

La fobia specifica è causata da una paura intensa e irrazionale scatenata da una particolare situazione o un determinato oggetto.

Bisogna quindi identificare l’elemento scatenante nelle diverse situazioni, anche se solitamente il paziente fobico è consapevole di quale sia l’oggetto/situazione legato alla sua fobia e quindi è piuttosto semplice riconoscerlo.

Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), una persona ha una fobia specifica quando:

·  La persona ha una marcata paura o ansia riguardo a un oggetto o una situazione specifica (ad esempio, volare, altezze, animali, ricevere un’iniezione o vedere sangue).

·  L’oggetto o la situazione fobica provoca quasi sempre paura o ansia immediate e viene attivamente evitato o sopportato con intensa paura o ansia sproporzionate rispetto al pericolo reale rappresentato dall’oggetto o dalla situazione specifica e dal contesto socioculturale.

·  Sono presenti quattro sottotipi specifici di fobia, legati a:

1. Animali (cani, ragni, serpenti)

2. Eventi ambientali o naturali (altezza, temporali, acqua)

3. Sangue, lesioni, ferite. Sono le uniche situazioni in grado di scatenare l’equivalente della risposta di freezing che è il contrario della tipica reazione di lotta o fuga che caratterizza le reazioni d’ansia. Inoltre sono associate a risposte vaso-vagali con episodi di svenimento.

La fobia specifica verso gli animali o eventi ambientali/naturali esordisce generalmente durante l’infanzia ed è associata ad una risposta fobica accompagnata da tachicardia, tremore, aumento di frequenza respiratoria.

La fobia specifica legata a sangue, infezioni e ferite ha un’alta familiarità ed è spesso caratterizzata da un’imponente risposta vaso-vagale. Unica possibilità di avere paura e di stare anche male.

Infine, vi è una fobia di tipo situazionale (come trasporti pubblici, tunnel, ponti, ascensori, volare, guidare, luoghi chiusi) che ha un picco d’esordio durante l’infanzia e verso i 25 anni.

Per la diagnosi, i sintomi devono essere presenti per almeno 6 mesi e causare un disagio clinicamente significativo o una compromissione in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti per la persona

Ad esempio, la fobia dei cani, se non arriva ad impedire di uscire di casa o a evitare luoghi o situazioni dove potrebbe esserci un qualsiasi tipo di cane, rimane una semplice fobia e non un vero e proprio disturbo.

Quanto è diffusa la fobia specifica?

La fobia specifica rappresenta uno dei disturbi d’ansia più comuni a livello mondiale, con stime che oscillano tra il 7,4 e il 14% tra gli adulti. In Italia, un recente studio ha evidenziato una prevalenza del 2,3% tra la popolazione.

Le donne, generalmente, sono le più colpite (fino a due volte di più rispetto agli uomini). L’esordio è tipicamente giovanile, ma ci sono casi documentati anche in tarda età. Una volta sviluppata, la fobia specifica tende a persistere per tutta la vita ed è spesso associata al rischio di sviluppare altri disturbi psichiatrici.

Quali sono i sintomi della fobia specifica?  

I sintomi della fobia specifica compaiono quando la persona si trova esposta all’oggetto o alla situazione fobica. La reazione può variare di volta in volta, a seconda del contesto: lieve, quando il soggetto può trovarsi davanti un tenero cagnolino portato a spasso da una persona; intensa, quando ci si trova davanti ad un cane grande e aggressivo senza guinzaglio. Quando diventa un vero e proprio disturbo, l’intensità è sproporzionata e causa forte sofferenza anche davanti al più docile cagnolino: la persona lo percepisce come un vero e proprio potenziale pericolo.

La reazione fobica può avvenire in due modi:

1. Crisi fobiche: si manifestano quando l’individuo è esposto direttamente all’oggetto o alla situazione che teme (sono caratterizzate da una forte attivazione neurovegetativa e neuromuscolare) o al solo pensiero/evocazione dell’oggetto/situazione temuta.

2. Condotte di evitamento/fuga: sono comportamenti patologici adottati dal soggetto per evitare o fuggire alla situazione fobica, caratterizzati da reazioni marcate, che spesso vengono percepiti come bizzarri da chi non conosce la causa sottostante, ed interferiscono con il quotidiano della persona che ne soffre.

Quali sono le differenze tra paura e fobia?

Paura: è determinata da un oggetto e/o da una situazione che inducono lo stesso tipo di reazione d’allarme (anche se con diversa intensità), nella maggior parte delle persone.

Fobia: è provocata da un oggetto e/o da una situazione nota che tuttavia non inducono lo stesso tipo di reazione d’allarme nella maggior parte delle persone.

Come viene gestita la fobia specifica?

Il trattamento della fobia specifica ha mostrato con ottimi risultati, anche tassi di risposta che possono superare l’80%. La gestione di questo disturbo può avvalersi di diverse strategie che vengono adattate alle esigenze e all’intensità della sintomatologia del singolo paziente.

Tra queste troviamo:

  • Psicoterapia, in particolare quella cognitivo/comportamentale che può avvalersi anche, nel percorso di cura, di esposizioni allo stimolo fobico su cui lavorare per gestire la paura e la sintomatologia ansiosa associata. Esistono tre tipi di esposizioni:
  1. Esposizione in vivo (sembra essere l’intervento più efficace per un’ampia varietà di fobie e alcuni studi hanno ottenuto un tasso di risposta compreso tra l’80 e il 90%)
  2. Esposizione immaginativa
  3. Esposizione tramite realtà virtuale (VR) o realtà aumentata (AR), quindi con l’utilizzo delle nuove tecnologie. Nella VR il paziente sperimenta la situazione di paura in un ambiente completamente artificiale simulato da un programma per computer. Al contrario, l’AR crea un ambiente immersivo in cui lo stimolo temuto bersaglio viene potenziato digitalmente e combinato con altri aspetti dell’ambiente di vita reale.
  • Terapia farmacologica, è necessaria quando l’intensità è tale da bloccare il paziente

FONTI: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6407652/; https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32226611/; https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/38097804/

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“Come stai? Tutto ok? Spero che questa email ti trovi bene”

Queste frasi, apparentemente banali, racchiudono un concetto profondo: il benessere. Un tema che, soprattutto per la Generazione Z, assume un’importanza cruciale nell’era iperconnessa dei social media. Nata tra il 1997 e il 2012, la Gen Z ha vissuto in prima persona gli effetti della pandemia, perdendo due anni cruciali del proprio sviluppo. La relazione con l’altro, fondamentale in questa fase della vita, si è spesso ridotta a una dimensione digitale, con conseguenze significative sul benessere mentale.

Partendo da queste riflessioni, Cosmopolitan ha lanciato “La Grande Inchiesta sul Corpo e la Salute Mentale”, un’indagine anonima con oltre 5.000 partecipanti tra i 18 e i 30 anni. Attraverso 22 domande, l’inchiesta ha esplorato la percezione del sé, il rapporto con il corpo, l’impatto dei social e il benessere psicologico della Gen Z. 

Con l’aiuto del prof. Giampaolo Perna, Direttore Scientifico Humanitas Psico Care e docente Humanitas University, ne abbiamo indagato i risultati.

I risultati: una panoramica complessa

L’indagine ha rivelato un quadro complesso e sfaccettato. Un dato su tutti: il 63% dei giovani non si prende cura della propria salute mentale quanto vorrebbe. 

 “Stare bene con me stess*” è la risposta più ricorrente alla domanda sul benessere, seguita da “non avere preoccupazioni o ansie”. Emerge un forte desiderio di crescita personale e di realizzazione, ma anche una diffusa paura del futuro e un senso di inadeguatezza.

«Il problema è reale ed è dovuto a diversi fattori, dal cambio di marcia culturale che ha investito i giovani e i loro genitori, alla pandemia che ha interrotto i contatti fisici fino alla mancanza di educazione sociale e di strumenti di supporto per agire sul mondo dei ragazzi». 

«Il momento di transizione arriva intorno ai 23 anni, quando a livello cerebrale la parte salda del cervello si collega a quella emozionale, e si stabilizzano i comportamenti». 

Ansia: un’amica-nemica

L’ansia è un tema centrale nelle risposte dei giovani. Se da un lato rappresenta un’emozione naturale che ci aiuta ad affrontare le sfide, dall’altro può diventare disfunzionale e ostacolare il nostro benessere, il 94% dei giovani dichiara di avere avuto difficoltà legate all’ansia. 

La paura del giudizio altrui, l’insicurezza e la sensazione di non essere all’altezza sono tra le principali fonti di ansia per la Gen Z.

“Felicità e sorpresa, ma anche paura, rabbia, disgusto, tristezza. Delle sei emozioni primarie, ben quattro sono emozioni negative. Il benessere non può coincidere con l’assenza di emozioni, e per questo diventa fondamentale saper riconoscere e accettare anche le emozioni negative”. 

Il corpo e l’autostima

L’immagine di sé e il rapporto con il proprio corpo sono aspetti cruciali per il benessere mentale. 

L’indagine evidenzia una forte insoddisfazione in questo ambito, con molti giovani che desidererebbero cambiare qualcosa del proprio aspetto, il 57% dei giovani usa filtri quando pubblica foto sui social. La vergogna a parlare dei propri problemi e la paura di essere giudicati ostacolano la ricerca di aiuto e di supporto.

«Si sta cercando di normalizzare l’idea che ogni corpo è bello e diverso, ma l’impatto di questo cambio culturale lo vedremo nel tempo. I ragazzi della Gen Z sono meno legati agli stereotipi, sono più liberi, tolleranti verso le diversità. E questo è il punto di partenza per costruire il loro futuro».

Scopri il team Humanitas PsicoCare 

Riguarda l’intervento completo 

I risultati sono stati presentati all’interno del palinsesto di #CosmoIAM, durante la Design Week di Milano sabato 20 aprile 2024. 

Il prof. Giampaolo Perna, direttore scientifico Humanitas PsicoCare e docente Humanitas University ha dialogato con Lavinia Farnese, Direttore di Cosmopolitan

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Il Binge Eating Disorder (BED), detto anche disturbo da alimentazione incontrollata, è un disordine alimentare piuttosto diffuso. Indica episodi in cui, in un tempo relativamente breve, si assumono grandi quantità di cibo, “abbuffandosi” in modo incontrollato, anche senza avvertire lo stimolo della fame. Vere e proprie perdite di controllo accompagnate da stati depressivi e disagio psicologico, senso di colpa e vergogna. Ce ne parla il dott. Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Come si riconosce il Binge Eating Disorder?

I criteri richiesti dal DSM-5 per la diagnosi del Binge Eating Disorder sono:

1. Ricorrenti episodi di abbuffata caratterizzati da:
– mangiare, in un determinato periodo di tempo (per esempio, un periodo di due ore), una quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui mangerebbe nello stesso tempo e in circostanze simili;
– mancanza di controllo sul mangiare durante l’episodio (per esempio, sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o a controllare cosa e quanto si sta mangiando).

2. Gli episodi di abbuffata sono associati a tre o più dei seguenti aspetti:
– mangiare molto più rapidamente del normale;
– mangiare fino a sentirsi sgradevolmente pieni;
– mangiare grandi quantitativi di cibo anche se non ci si sente affamati;
– mangiare da soli a causa dell’imbarazzo per quanto si sta mangiando;
– sentirsi disgustati verso sé stessi, depressi o molto in colpa dopo l’episodio.

3. È presente marcato disagio riguardo alle abbuffate;

4. L’abbuffata si verifica, mediamente, almeno due giorni a settimana per 6 mesi o almeno 1 giorno a settimana per 3 mesi.

5. L’abbuffata non è associata all’uso regolare di condotte compensatorie inappropriate (come digiuno o esercizio fisico eccessivo), e non si verifica esclusivamente in corso di bulimia nervosa o anoressia nervosa.

Inoltre, la persona adotta questo comportamento almeno una volta a settimana per almeno tre mesi o 2 giorni a settimana per 6 mesi.

La gravità del Binge Eating Disorder è classificata in:

·   Lieve: da 1 a 3 episodi a settimana

·   Moderata: da 4 a 7 episodi a settimana

·   Grave: da 8 a 13 episodi a settimana

·   Estrema: 14 o più episodi a settimana.

Che differenza c’è rispetto alla bulimia?

Chi soffre di Binge Eating Disorder non tende a compensare le abbuffate con vomito, digiuno, o altri comportamenti che consentano di controllare il peso, ma più comunemente, vive il momento successivo con una sensazione di sconforto. Non attuando comportamenti compensatori, il paziente tende inoltre ad aumentare di peso e, quindi, a presentare obesità o complicazioni a essa associata (come diabete II tipo, patologie cardiovascolari, disturbi gastrointestinali o malattie polmonari, in particolare le cosiddette apnee notturne) 

Infine, il BED si verifica insieme ad altre patologie psichiatriche, come disturbi dell’umore, da panico e di personalità o depressione maggiore

Cosa causa il Binge Eating Disorder?

Le cause del Binge Eating Disorder sono generalmente multifattoriali, ovvero legate a più fattori, come la famiglia, la vita sociale e lavorativa della persona.

Numerosi studi suggeriscono che i pazienti che soffrono di BED manifestano un eccesso dell’impulsività rispetto agli individui sani di peso normale; inoltre, l’eccesso di cibo è spesso una risposta ad ansia, solitudine, stanchezza e ad una più generale difficoltà nel gestire le emozioni (piacevoli o no). 

Come viene diagnosticato il Binge Eating Disorder?

La diagnosi di Binge Eating Disorder richiede, oltre alla valutazione psicologica effettuata attraverso colloqui clinici e test psicologici, prevede anche un esame approfondito della condizione nutrizionale, dello stato fisico e della storia medica del paziente, insieme a test di laboratorio.

Come si cura il Binge Eating Disorder?

Per trattare il Binge Eating Disorder è necessario intervenire su più fronti, prendendo in considerazione il piano psicologico, medico-internistico e nutrizionale, intervenendo anche sullo stile di vita del paziente in cura con un approccio multiprofessionale che nasce da una stretta collaborazione tra medico, psicoterapeuta e biologo-nutrizionista.

Le Linee guida scientifiche (APA), suggeriscono l’approccio psicoterapeutico dialettico comportamentale (DBT) come terapia gold-standard nel trattamento di questo disturbo, poiché in grado di fornire al paziente strumenti pratici (skills) che consentono di imparare a riconoscere le proprie emozioni, comunicarle, trovando alternative più salutari per gestirle, senza necessariamente soffocarle nel cibo.

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L’anestesia rappresenta una delle più frequenti fonti di paura che possono emergere nella fase preoperatoria, insieme al timore per l’intervento chirurgico vero e proprio e alle potenziali complicanze che ne possono derivare.

Il più delle volte, la paura, o meglio l’ansia dell’anestesia, è legata alla mancanza di informazioni e conoscenze di base sulla materia. Inoltre, a differenza della chirurgia, l’anestesia può sembrare astratta ai pazienti chirurgici che spesso descrivono la paura provata in quel momento come la paura dell’ignoto.

Sebbene l’ansia e la paura siano reazioni fisiologiche adattive nei momenti in cui ci si confronta con qualsiasi situazione sconosciuta. Quando però viene vissuta troppo intensamente impatta negativamente sul nostro corpo nonché sulla nostra mente. In particolare, se un individuo prova un’ansia esagerata nel periodo che precede un intervento chirurgico, questa provoca delle alterazioni nel sistema nervoso autonomo con le conseguenze negative legate a ciò (es. nausea, vomito, aumento del dolore post operatorio ecc.). Tutto ciò può inoltre influenzare il periodo di recupero dall’intervento, portando a veri e propri problemi emotivi e psichici, oltre che a problemi fisici, esacerbando a sua volta la paura del dolore.

Lo stato di ansia che viene percepito dai pazienti, quando eccessivo e inappropriato, può interferire con le capacità di adattamento e inibire la risposta immunologica e farmacologica.

Come fare, dunque, per superare la paura/ansia dell’anestesia e vivere al meglio i momenti che precedono e seguono un intervento chirurgico?

Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

Che cos’è l’anestesia?

L’anestesia è la perdita di sensibilità ottenuta con l’impiego di farmaci. Può essere:

·  generale: vi è una totale perdita di coscienza, amnesia (il paziente non ricorda nulla), assenza di movimento durante l’intervento, minima risposta autonoma agli stimoli chirurgici (pressione sanguigna, frequenza cardiaca, temperatura ed altri parametri restano normali), reversibilità (mi sveglio quando tutto è finito).

·  locale: interessa solo alcune parti del corpo e consente di abolire il dolore nella zona d’intervento senza necessariamente avere perdita di coscienza. Spesso viene accompagnata da farmaci ansiolitici o sedativi che riducono molto lo stato d’ansia del paziente.

Perché l’anestesia può far paura?

Come dicevamo inizialmente, la paura dell’anestesia può essere legata alla mancanza di informazioni e alla paura dell’ignoto ma anche al tipo di operazione a cui dovrà sottoporsi il paziente o ad una precedente esperienza di intervento chirurgico. In particolare, l’essere sottoposti all’anestesia generale porta il paziente a vivere uno stato di “morte temporanea” in cui vengono sospese le funzioni vitali (Colombo G., op cit pp. 532-533).

L’ansia preoperatoria spesso deriva da una sensazione di impotenza di fronte all’esperienza chirurgica e all’ospedalizzazione, dovendosi adattare ad ambienti e situazioni nuovi, sconosciuti rispetto alla vita quotidiana. 

Un recente studio ha evidenziato che le preoccupazioni maggiori dei pazienti sono (in ordine di frequenza): 

  • dolore postoperatorio 
  • svegliarsi durante l’intervento chirurgico
  • paura di morire 
  • paura degli aghi e degli interventi
  • paura di sentire dolore durante l’intervento
  • diventare disabile 
  • nausea e vomito post-operatori 
  • esperienza dell’anestesista.

Oltre a queste, ci sono dei pazienti che presentano forme di ansia e preoccupazione legate a tematiche quali l’ignoto, perdita del proprio ruolo sociale (a causa di possibili complicanze post operatorie, come la lesione di nervi periferici), perdita di controllo, inconsapevolezza di ciò che accadrà e alterazioni dell’immagine di sè. 

Come superare la paura dell’anestesia?

Per ridurre l’ansia pre-operatoria si può ricorrere alla somministrazione di farmaci  ansiolitici che però possono prolungare i tempi di recupero post-operatorio. Per questo motivo negli ultimi anni si è cercato di sviluppare dei modelli di prevenzione e riduzione dell’ansia pre operatoria che non includano solo il supporto farmacologico. 

I medici e le figure ospedaliere implicate nella presa in carico del paziente devono provvedere ad informare il paziente stesso circa le modalità di utilizzo dell’anestesia, benefici e controindicazioni. Aumentare la consapevolezza del paziente rispetto a cosa sta affrontando e prendersi cura dello stesso nel periodo pre-operatorio, aiuta ad aumentare la sua soddisfazione e ridurre le paure che si sono instaurate in lui nel corso del tempo. 

È necessario intervenire sui pazienti che mostrano alti livelli di ansia perché l’aumento delle variazioni nel sistema nervoso autonomo possono determinare una necessità maggiore di sedazione e anestetici e aumentare il tempo di recupero postoperatorio.

È noto in letteratura che fornire informazioni dettagliate ai pazienti diminuisce la loro paura e ansia preoperatoria e ciò viene fatto per mezzo di informazioni audiovisive, psicoeducazionali e anche visite infermieristiche preoperatorie. 

Alcune ricerche hanno dimostrato che anche l’ascolto della musica prima dell’operazione incide nella diminuzione delle preoccupazioni e dello stress pre-operatori. 

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Alcune malattie croniche della pelle che ne alterano l’aspetto possono influenzare in modo sostanziale il benessere psicologico del paziente. Patologie come acne, dermatite atopica, psoriasi, vitiligine o calvizie, possono infatti portare a depressione e isolamento sociale.

Cosa caratterizza queste malattie e come è possibile riuscire a gestirle nel modo migliore?

Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare, e al dott. Michele Cardone, Medico-Chirurgo, Specialista in Dermatologia presso Humanitas San Pio X e l’ambulatorio Humanitas Medical Care Murat a Milano.

Quali sono le malattie più comuni della pelle che possono causare problemi psicologici? 

Esistono diverse malattie croniche dermatologiche che possono influenzare lo stato psicofisico del paziente. Tra queste troviamo:

  • Acne: è un disturbo della pelle caratterizzato dalla comparsa di lesioni di vario tipo che possono presentarsi in diverse zone del corpo (volto, torace, dorso e collo) con comedoni (punti neri e bianchi), papule, pustole e, nei casi più seri, cisti e noduli.

Se non adeguatamente trattate, le forme più severe, possono inoltre portare alla formazione di esiti cicatriziali e macchie scure persistenti.

  • Dermatite atopica: è un’infiammazione della pelle che provoca prurito della cute (può compromettere il buon riposo notturno e ridurre così la concentrazione nello studio o sul lavoro) e arrossamento.

Influisce in modo negativo anche sull’autostima e sulla socialità per via della frequente localizzazione della malattia in zone ben visibili della pelle; inoltre, quando diventa cronica o la persona che ne soffre si gratta continuamente, la pelle può ispessirsi (lichenificazione).

  • Psoriasi: è una malattia infiammatoria cronica della pelle caratterizzata dalla formazione di placche rilevate, di colore rosso acceso, rivestite da squame biancastre, presenti in particolare su gomiti, ginocchia e cuoio capelluto.
  • Vitiligine: è un disturbo di ipopigmentazione (pigmentazione irregolare della pelle) che si manifesta con chiazze bianche e opache sulla pelle delle aree esposte al sole, tra cui mani, viso, gambe e piedi.
  • Calvizie: consiste in un arretramento costante della linea dell’attaccatura dei capelli (solitamente negli uomini parte dalle regioni temporali), o nella perdita localizzata in alcune regioni del cuoio capelluto, soprattutto al vertice.

I fattori di stress psicologico possono esacerbare i sintomi di una malattia dermatologica? 

Sì, i fattori di stress psicologico possono contribuire all’eziologia o all’esacerbazione di specifiche condizioni dermatologiche come la psoriasi, l’acne e la dermatite atopica. In questi casi si parla di disturbi psicosomatici, ovvero di malattie dermatologiche che possono essere esacerbate o peggiorate dallo stress emotivo, ma non sono causate direttamente da questo.

Lo stress è un fenomeno comune nella vita di molte persone, ma se intenso e prolungato, può avere un impatto significativo sulla salute, compresa la salute della pelle. Dal punto di vista dermatologico, gli effetti dello stress sulla pelle possono essere molteplici e influenzare una vasta gamma di condizioni cutanee.

Uno dei modi principali in cui lo stress può manifestarsi sulla pelle è attraverso l’aggravamento di condizioni preesistenti o lo scatenamento di nuove problematiche. Ad esempio, l’acne, l’eczema, la psoriasi e l’orticaria possono peggiorare sotto stress. Ciò è attribuibile in parte alla risposta del sistema immunitario e all’aumento dei livelli di cortisolo nel corpo, che possono innescare processi infiammatori e influenzare la funzione barriera della pelle.

Inoltre, lo stress può contribuire alla comparsa di condizioni come la dermatite seborroica e la rosacea, che sono sensibili agli sbalzi ormonali e allo stato emotivo. I sintomi di queste condizioni, come arrossamenti, prurito e desquamazione, possono diventare più evidenti durante periodi di stress emotivo.

La riduzione dello stress è quindi importante non solo per il benessere generale, ma anche per mantenere una pelle sana.

Quali sono gli effetti psicologici più comuni derivanti da un problema alla pelle?

I problemi psicologici derivanti da tali condizioni possono includere:

·  bassa autostima

·  difficoltà ad accettare la propria immagine corporea

·  ansia e depressione

·  isolamento sociale

·  disfunzione sessuale

·  pensieri suicidari

Spesso la prospettiva del paziente rispetto alla propria condizione viene influenzata dall’atteggiamento dei suoi pari nei confronti della propria condizione della pelle.

A quali conseguenze possono portare questi effetti psicologici?

Il dolore o il disagio possono limitare la capacità di svolgere qualsiasi attività quotidiana e le frequenti visite mediche, insieme alla riacutizzazione dei sintomi (che possono richiedere la necessità di prendere giorni di malattia) possono influire sulla qualità di vita. Inoltre, la vergogna e l’imbarazzo del paziente, o il timore del giudizio da parte di altri, possono impedire alla persona di instaurare qualsiasi tipo di relazione (con un partner, amici o familiari). Infine, i pazienti con malattie cutanee croniche possono sviluppare comorbilità psichiatriche legate alla loro condizione.

Come possono essere trattati questi pazienti? 

Esistono diverse strategie che possono aiutare a gestire lo stress e a mitigarne gli effetti negativi sulla pelle. Queste includono la pratica di tecniche di rilassamento come la meditazione, lo yoga o la respirazione profonda, nonché l’adozione di uno stile di vita sano che comprenda una dieta equilibrata, un sonno adeguato e una regolare attività fisica.

Dal punto di vista dermatologico, è fondamentale adottare una corretta routine di cura della pelle che includa la pulizia delicata, l’idratazione e l’uso di prodotti adatti al proprio tipo di pelle. La visita dermatologica è fondamentale per identificare i trattamenti più appropriati per le condizioni cutanee legate allo stress e per ricevere consigli personalizzati sulla cura della propria pelle in base alle caratteristiche di quest’ultima.

A livello psicologico, laddove si strutturano condotte di evitamento sociale, frequenti soprattutto negli adolescenti, può essere necessario intervenire con un percorso psicologico mirato a sostenere l’autostima e a migliorare il rapporto con la propria immagine corporea; la pratica della Mindfulness può essere un intervento efficace per favorire l’accettazione della patologia e di sé così da migliorare la qualità di vita.

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Con il passaggio dall’ora solare a quella legale le giornate iniziano dopo ma durano di più. Tuttavia, la minore esposizione alla luce del mattino (associata ad una maggiore esposizione alla luce serale), potrebbe provocare, specie nei primi giorni, perdita di sonno e sonnolenza diurna.

Inoltre, secondo alcuni studi, il cambio dell’ora primaverile è associato ad un aumento del rischio di malattie cardiovascolari, come l’infarto del miocardio, l’ictus ischemico e la fibrillazione atriale, oltre a disturbi dell’umore e pensieri suicidari.

Dal punto di vista biologico, invece, il passaggio all’ora legale potrebbe alterare i ritmi dell’orologio biologico circadiano. Questo ritmo è fondamentale per il benessere, poiché regola una serie di processi biologici, tra cui le risposte immunitarie, lo stress ossidativo e l’infiammazione[1].

Ce ne parlano la dott.ssa Gabriella Comerio, cardiologa presso l’ambulatorio Humanitas Medical Care Domodossola a Milano e il dott. Alessandro Spiti, psichiatra di Humanitas PsicoCare.

Quali sono le cause degli eventi cardiovascolari durante il cambio dell’ora?

“Il sistema cardiovascolare è strutturato per affrontare oscillazioni nell’arco della giornata; il ritmo circadiano è importante per il benessere dell’individuo perché regola numerosi processi biologici, tra i quali lo stress ossidativo, i processi infiammatori, la risposta immune ed altri”, commenta la dott.ssa Comerio.

“Alcune malattie cardiovascolari”, continua la specialista, “si manifestano in particolari momenti della giornata: ad esempio, l’incidenza degli infarti miocardici, di eventi ischemici cerebrovascolari, rottura di aneurismi aortici, di fibrillazione atriale ed altri sembra essere più alta al mattino.

Questo fenomeno può essere giustificato da meccanismi fisiologici che avvengono alle prime ore della mattina, come ad esempio l’incremento della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca dell’attività simpaticomimetica, della secrezione di ormoni vasoattivi ed anche della aggregabilità piastrinica.

Il cambio dell’ora causa una variazione del ritmo circadiano e non tutti i soggetti sono in grado di affrontare questa variazione senza effetti sul proprio organismo.

Precedenti pubblicazioni avevano osservato un incremento di eventi cardiovascolari nei giorni successivi al cambio dell’ora; lavori scientifici più recenti ed una interessante metanalisi  (Manfredini et al.) hanno confermato un modesto incremento del rischio di infarto miocardico nella settimana successiva al cambio dell’ora in primavera, senza una sostanziale differenza tra i due sessi; tuttavia l’interpretazione di questa osservazione non sarebbe forse da attribuire univocamente al cambio dell’ora.

È necessario anche sottolineare che gli studi analizzati presentano differenze di popolazione osservata (aree geografiche e cronobiologiche diverse, es. USA ed Europa) e diversi criteri di inclusione di eventi cardiovascolari (es. infarti miocardici con e senza interventi di angioplastica)”, conclude la specialista.

Chi sono le persone più a rischio di eventi cardiovascolari durante il cambio dell’ora?

“Sembra che siano più suscettibili ad eventi sfavorevoli, non solo di tipo cardiovascolare, i soggetti più anziani (>75 anni), i soggetti in condizioni di salute più fragile e coloro che hanno più patologie”, risponde la dott.ssa Comerio; “negli Stati Uniti un recente studio osservazionale ha segnalato come più a rischio di eventi sfavorevoli anche i soggetti caucasici non ispanici e i coloro che vivono nelle zone con fuso orario orientale[2]”.

Quali effetti può avere la privazione del sonno legata all’ora legale?

“Le persone che non riescono a dormire a sufficienza hanno maggior difficoltà a prendere decisioni e sono meno creative ” commenta il dott. Spiti. “Inoltre, sono più inclini a provare stati d’animo negativi; hanno maggiori probabilità di sperimentare angoscia , manifestando un minor coinvolgimento nella dimensione lavorativa con prestazioni al di sotto delle aspettative personali e del team.

Le persone con alterazioni del pattern ipnico corrono un rischio maggiore di mettere in atto comportamenti pericolosi che possono determinare infortuni ed incidenti automobilistici[3].

Inoltre, una componente importante di molti disturbi dell’umore, d’ansia e psicotici è proprio l’interruzione del ciclo sonno-veglia [4] (alcuni disturbi del sonno, in particolare della fase REM, sono stati osservati nel disturbo bipolare (BD) e nella schizofrenia [5]. 

I disturbi del sonno e le alterazioni circadiane sono associati anche a disturbi del neuro-sviluppo, come il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), i disturbi dello spettro autistico (ASD), la sindrome di Prader-Willi (PWS) e la sindrome di Smith-Magenis (SMS) [6],conclude lo psichiatra.

Come alleviare i sintomi del cambiamento dell’ora? 

“Il cambio dell’ora può avere un impatto sul nostro benessere e sulla routine quotidiana”, continua il dott. Spiti. “Per attenuare i sintomi di questo cambiamento, è possibile adottare alcune strategie pratiche. 

In primis, è consigliabile iniziare gradualmente a prepararsi al nuovo orario, modificando leggermente la propria routine del sonno e altri ritmi biologici qualche giorno prima del cambio effettivo, andando a letto dieci minuti prima e anticipando leggermente il risveglio. Questa piccola modifica, assieme al mantenimento di una routine costante, inclusi gli orari di sonno e dei pasti, può aiutare il corpo a stabilizzarsi più facilmente. 

Un altro consiglio è limitare il consumo di sostanze stimolanti come la caffeina che nelle ore precedenti il riposo possono alterare il profilo del sonno, determinando fenomeni nel giorno successivo quali astenia, irritabilità e problemi di concentrazione. Infine, l’esposizione alla luce solare durante il giorno favorisce l’attivazione di alcune regioni del cervello, come l’ipotalamo, che sono fondamentali per regolare positivamente l’adattamento del nostro organismo al nuovo orario.

Se si riscontra una difficoltà significativa nell’adattamento al nuovo orario o se i sintomi persistono, è opportuno considerare il supporto di un professionista della salute mentale”, conclude lo specialista.

Le giornate più lunghe aiutano l’umore? 

“La correlazione positiva tra esposizione alla luce solare (foto-esposizione) e miglioramento dell’umore ormai è dimostrata e confermata da numerosi studi scientifici [7;8;9]”, aggiunge il dott. Spiti. “Le variazioni del fotoperiodo, ovvero della durata del periodo di illuminazione giornaliera, possono incidere sensibilmente sullo stato d’animo delle persone, soprattutto di quelle che sono suscettibili maggiormente allo sviluppo di veri e propri disturbi dell’umore. Solitamente, infatti, questo tipo di persone soffrono di episodi depressivi stagionali, nella fase in cui il fotoperiodo si accorcia nel passaggio dalla stagione autunnale a quella invernale. Al contrario, nei mesi in cui il fotoperiodo si allunga, nel passaggio dall’inverno ai mesi caldi, si assiste a un graduale incremento delle energie, con progressivo recupero del piacere durante le attività quotidiane e scomparsa dei sintomi depressivi

Il meccanismo biologico che media queste variazioni si basa sull’interazione tra varie aree del nostro cervello.

La luce solare penetra attraverso la retina dell’occhio e attiva le cellule fotosensibili, che trasmettono segnali al nucleo soprachiasmatico nell’ipotalamo, coinvolto nella regolazione del ritmo circadiano. Questo nucleo ipotalamico invia segnali a diverse regioni cerebrali coinvolte nella produzione di monoamine. La serotonina è sintetizzata principalmente nel nucleo del rafe, la noradrenalina nel locus coeruleus e la dopamina nel sistema dopaminergico. L’esposizione alla luce solare stimola l’attività di queste regioni, promuovendo la produzione e il rilascio di serotonina, noradrenalina e dopamina nel cervello.Questi neurotrasmettitori svolgono ruoli distinti ma interconnessi nella regolazione dell’umore, delle emozioni e della motivazione. La serotonina è spesso associata al benessere emotivo, la noradrenalina alla risposta allo stress e all’attenzione, mentre la dopamina al sistema di ricompensa e al piacere. In sintesi, l’esposizione alla luce solare, può attivare la produzione di monoamine nel cervello, contribuendo così a migliorare l’umore e il benessere emotivo attraverso l’azione combinata di serotonina, noradrenalina e dopamina”, conclude lo specialista.

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BIBLIOGRAFIA

[1] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC10921520/

[2] Circadian Mechanisms in Medicine; R. Allada et al;  N Eng J Med 2021; 384: 550-61 – Daylight Saving Time and acute myocardial infarction: a meta-analysis; R. Manfredini et al; Journal Clinical Medicine; 2019, 8, 404 – Daylight saving Time does not seem to be associated with number of percutaneous coronary interventions for acute myocardial infarction in the Netherlands; L.Derks et al; Neth Heart J 2021; 29: 427-432 – All cause and cause specific mortality associated with transition to daylight saving time in US: nationwide, time series, observational study; Shi Zao et al; BMJmedicine  2024; 3: e000771

[3] Kilgore, Balkin e Wesensten, 2006; Harrison e Horne, 1999; Dinges et al., 1997; Glozier et al., 2010; Lanaj, Johnson e Barnes, 2014; Drake et al., 2001; Barnes & Wagner, 2009; Drake et al., 2010

[2]https://www.nejm.org/doi/10.1056/NEJMc0807104?url_ver=Z39.88-2003&rfr_id=ori:rid:crossref.org&rfr_dat=cr_pub%20%200pubmed

[3] https://www.humanitas-care.it/news/la-privazione-del-sonno-influisce-sulla-salute-del-cuore/

[4] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6338075/

[5] https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/20686197/

[6] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6338075/

[7] Siemann, J. K., Grueter, B. A., & McMahon, D. G. (2021). Rhythms, reward, and blues: consequences of circadian photoperiod on affective and reward circuit function. Neuroscience, 457, 220-234.  https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S030645222030779X

[8] Majrashi, N. A., Alyami, A. S., Shubayr, N. A., Alenezi, M. M., & Waiter, G. D. (2022). Amygdala and subregion volumes are associated with photoperiod and seasonal depressive symptoms: A cross‐sectional study in the UK Biobank cohort. European Journal of Neuroscience, 55(5), 1388-1404.  https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/ejn.15624

[9] Partonen, T. (2020). Seasons, Clocks and Mood. Neuroendocrine Clocks and Calendars, 177-187. https://link.springer.com/chapter/10.1007/978-3-030-55643-3_9

Il termine “alessitimia” deriva dal greco [a (no) – lexis (parole) – timos (emozione)] e significa letteralmente “nessuna parola per le emozioni”. A coniarlo per la prima volta è stato lo psicoterapeuta Peter Emanuel Sifneos, nel tentativo di descrivere alcuni suoi pazienti che presentavano difficoltà a identificare ed esprimere i propri sentimenti, e quindi a distinguere tra le emozioni. Soprattutto, questo tratto, era identificabile nei soggetti con disturbi psicosomatici dove le emozioni non riconosciute o non espresse tendevano a manifestarsi attraverso sintomi fisici corporei.

L’alessitimia, nei decenni declinata in molteplici definizioni, è frequentemente identificata come una caratteristica presente in pazienti in molte patologie mediche e in diversi disturbi psichiatrici risultando in grado di influenzare l’esordio, il decorso e il percorso terapeutico.

Ce ne parla il dott. Francesco Cuniberti, medico psichiatra di Humanitas Psicocare, specialista in disturbi depressivi, d’ansia, di panico e ossessivo-compulsivo.

Quali possono essere le cause dell’alessitimia?

L’alessitimia è una condizione piuttosto comune nei pazienti con ansia e depressione. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono la prevalenza di questa condizione nei disturbi del neurosviluppo (suggerendo quindi l’esistenza di una componente sia genetica che ambientale), come nel disturbo dello spettro autistico.

L’alessitimia può essere anche acquisita: insorta a seguito di una lesione cerebrale (per esempio, a causa di un incidente automobilistico o ad un infortunio sportivo), a malattie neurovascolari o ad altri disturbi neurodegenerativi, come il Parkinson o l’ictus cerebrale nell’emisfero destro. Inoltre, livelli elevati di alessitimia sono stati riscontrati anche in pazienti affetti da sclerosi multipla, demenza semantica e frontotemporale, malattia di Alzheimer e malattia di Huntington.

Come si manifesta l’alessitimia?

Molto spesso alcuni fenomeni legati alle emozioni (come la soppressione dei propri sentimenti, l’inibizione, l’isolamento, la negazione e la repressione), vengono confusi con l’alessitimia. Tuttavia, queste strategie, consce o inconsce, si riferiscono a processi difensivi che la persona utilizza per ridurre l’esperienza o l’espressione di emozioni eccessive e disturbanti , mentre l’alessitimia è considerata un deficit o una carenza piuttosto che una strategia di difesa

Le persone con alessitimia sperimentano continui problemi a elaborare le proprie emozioni, sviluppando una condizione psichiatrica caratterizzata da una disregolazione affettiva (la persona ha difficoltà a regolare le proprie emozioni in modo efficace, affinché non diventino eccessive o inappropriatamente espresse). Inoltre, l’alessitimia è risultata essere anche legata a un deficit di empatia con una difficoltà nel comprendere non solo le proprie emozioni ma anche quelle altrui. 

L’alessitimia risulta quindi influire sulle relazioni interpersonali e sulla qualità della vita di chi ne soffre.

In letteratura, sono state descritte cinque caratteristiche principali di alessitimia:

1. riduzione o incapacità di provare emozioni

2. riduzione o incapacità di verbalizzare le emozioni

3. riduzione o incapacità di fantasticare

4. assenza di tendenze a pensare alle proprie emozioni

5. difficoltà nell’identificare le emozioni

Come viene diagnosticata l’alessitimia?

L’alessitimia viene diagnosticata attraverso una valutazione psichiatrica o psicologica approfondita. Si può ricorrere anche all’uso di questionari auto-somministrati, che possono aiutare il clinico nell’identificazione di questi aspetti e a comprendere meglio le difficoltà che l’individuo incontra nell’identificare, descrivere e gestire le proprie emozioni. 

La valutazione clinica deve includere un approfondimento sulla presenza di eventuali patologie psichiatriche concomitanti, come la depressione e i disturbi d’ansia, e su come l’individuo gestisce le proprie relazioni interpersonali, affronta situazioni di stress e risolve i conflitti.

Come può essere trattata l’alessitimia?

Nell’ambito di un progetto di cura personalizzato, basato sulle caratteristiche uniche del paziente, si procede a lavorare nel percorso di psicoterapia con lo scopo di aiutare l’individuo a sviluppare una maggiore consapevolezza delle proprie emozioni e migliorare la capacità di identificarle, esprimerle e gestirle. È un percorso che necessita di tempo perché ha l’obiettivo di modificare diversi aspetti personali del paziente e può richiedere, quando presenti sintomatologie concomitanti, anche l’intervento medico con una visita psichiatrica.

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Tutti noi trascorriamo un terzo della nostra vita dormendo. In tanti pensano che sia una perdita di tempo; tuttavia, questo aspetto è fondamentale per la salute cognitiva e mentale.

La quantità e la qualità del sonno hanno infatti un profondo impatto sull’apprendimento e sulla memoria. Dormire consente al nostro organismo di recuperare tutte le energie necessarie per la sopravvivenza mentale: migliora l’apprendimento, la memoria e l’intuizione.

Per questo, non dormire a sufficienza, senza rispettare il proprio fabbisogno in numero di ore e qualità di sonno, può aumentare il rischio di disturbi fisici e mentali: in primis, per i bambini e i ragazzi e, di riflesso, per le loro famiglie, poiché le conseguenze possono influire sul benessere di tutti i membri del nucleo familiare, oltre ad avere effetti sul giovane stesso, come iperattività diurna e calo del rendimento scolastico (dovuto principalmente alla difficoltà di rimanere attenti e mantenere la concentrazione); irritabilità e problemi comportamentali (a causa della privazione del sonno).

Ne parliamo con la dottoressa Marcella Mauro e la dottoressa Elisa Morrone, specialiste di Humanitas PsicoCare.

Quali ripercussioni ha la mancanza di sonno sull’apprendimento?

La mancanza di sonno può avere diverse ripercussioni sull’apprendimento:

  • Porta a una riduzione della vigilanza e della concentrazione: quando si è assonnati, si possono dimenticare e smarrire più facilmente le cose. Inoltre, è più difficile concentrarsi e prestare attenzione a ciò che, per esempio,  accade a scuola.
  • Compromette le capacità della memoria: le connessioni nervose che creano i nostri ricordi si rafforzano proprio mentre dormiamo (durante il sonno il nostro cervello sceglie cosa memorizzare e cosa invece eliminare). Diversi meccanismi legati alla memoria e soprattutto al consolidamento si attivano solo di notte e soprattutto con il sonno profondo, dormire meno e male non permette l’attivazione di tali meccanismi.
  • Pregiudica la capacità di giudizio: prendere decisioni (valutando rischi e benefici ma anche ciò che è giusto e ciò che sbagliato) è più difficile perché non si riesce a valutare bene le situazioni e a scegliere il comportamento adeguato a quella situazione. Dormendo poco e/o male si diventa più impulsivi, si valuta in modo diverso la scelta, si è meno propensi a considerare le eventuali perdite, concentrandosi solo sulle ricompense.
  • Produce cambiamenti non solo nel metabolismo cerebrale, nella cognizione, ma anche nelle emozioni e nel comportamento: quando si dorme poco anche l’umore tende a flettersi, incidendo anche sulla comprensione delle proprie e altrui emozioni, provocando incomprensioni, conflitti, litigi sia a casa che a scuola, con gli amici.
  • Dormire poco e male influenza in negativo anche le prestazioni sportive, aumenta il rischio di incidenti e infortuni. 

Quali fattori possono influire sul sonno?

I fattori che possono incidere sul sonno sono comportamentali, fisicipsicologici. Ne sono un esempio: uso dei device, videogiochi, social, telefono, ansia da prestazione, stress legato agli esami e alle interrogazioni, maggiore propensione alla tristezza, calo dell’umore, problemi di respirazione di notte, come il russamento o le apnee, movimenti delle gambe notturne, irregolarità nella funzionalità della tiroide.

Come aiutare bambini e ragazzi a dormire meglio?

Per creare un ambiente favorevole al sonno, è consigliabile:

  • Dormire in un ambiente familiare
  • Prendere un letto confortevole
  • Mantenere una temperatura corretta nella stanza (molti bambini/ragazzi si svegliano di notte perché hanno troppo caldo o troppo freddo)
  • Mantenere la stanza buia e silenziosa
  • Spegnere luce di pc, cellulari e tablet
  • Non associare al sonno un’emozione negativa (ad esempio, andare a letto per punizione) 
  • Andare a letto solo quando si è assonnati e a orari regolari. 

Inoltre, occorre evitare alcune abitudini che potrebbero compromettere il sonno, come:

  • Sonnellini eccessivi o tardivi, dopo le 16, durante il giorno
  • Giochi e videogiochi dopo le 18 di sera (per evitare un’eccessiva eccitazione vicino al momento di andare a letto)
  • Esercizio fisico a tarda sera
  • Bevande contenenti caffeina o zuccheri a fine giornata
  • Pensare ai problemi e ai progetti prima di andare a letto.

Quando il problema è cronico e incide sulla qualità di vita del bambino/ragazzo è opportuno chiedere l’aiuto di uno specialista.

I farmaci possono aiutare i bambini/ragazzi a dormire meglio?

Alcuni genitori ricorrono spesso all’uso della melatonina per aiutare i propri bambini/ragazzi a dormire meglio. Tuttavia, a oggi non ci sono studi scientifici che ne dimostrino la reale efficacia sul sonno e sul lungo termine. Sicuramente, la prima cosa da fare è la diagnosi, capire perché il bambino non dorme o dorme male, per poi scegliere la terapia migliore.  Per l’insonnia e i disturbi del ritmo circadiano, il trattamento più adeguato e funzionale è quello psicoterapeutico cognitivo/comportamentale mirato al sonno. Un neuropsichiatra, un pediatra o lo specialista psicoterapeuta del sonno potranno fornirvi maggiori informazioni.

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Sono molti gli atleti che prima di una gara soffrono di ansia da prestazione. Le competizioni sportive, infatti, specie se praticate ad alti livelli, possono portare a pensieri disfunzionali, come la paura di sbagliare o non ricordarsi cosa fare. Tante volte, gli sportivi, prima di accedere alla competizione vedono una sorta di nebbia dettata dal timore di essere giudicati negativamente. Dalla famiglia, dal coach o dalla propria squadra. 

In un momento come questo, in cui molti atleti stanno già iniziando a prepararsi per i Giochi olimpici, è fondamentale provare a spiegare come imparare a gestire questi stati d’ansia, poiché più l’atleta sale di livello, più forte sarà l’agitazione e più sarà difficile controllarla.

Per gestire questi sentimenti che oltre a provocare disagio, possono anche precludere l’esito stesso della gara, è necessario adottare una serie di strategie che possono aiutare lo sportivo ad affrontare la prova al meglio. Ma da dove cominciare?

Il consiglio che potrebbe sembrare più banale è anche quello più importante: ovvero imparare a respirare.

Ce ne parla la dott.ssa Dora Siervo, psicoterapeuta di PsicoCare.

Perché gli atleti soffrono spesso di ansia da prestazione?

Molti gli atleti che vedono lo sport come una sorta di riscatto da una vita che magari non è andata esattamente come si sarebbero aspettati. Inoltre, molto spesso, accanto allo sportivo c’è una forte pressione sociale e familiare che porta la persona a giocarsi tutto in quel momento. Per cui l’idea di sbagliare, di non ricordarsi (tipici dell’ansioso), possono provocare l’ansia da prestazione.

Come possono superare l’ansia da prestazione agonistica?

Tutti gli sportivi dovrebbero essere seguiti da un coach che li possa aiutare e sostenere nei momenti che precedono una gara. Uno degli strumenti più importanti che abbiamo per gestire l’ansia è la respirazione. Con una respirazione adeguata, che prevede l’uso del diaframma, è infatti possibile controllare tutti i sintomi tipici dell’ansia (freddo, battito aumentato, tremori).

Per capire quanto incide la respirazione pensiamo all’equitazione: il cavallo percepisce la tensione del cavaliere da come respira, perché le conseguenze di una cattiva respirazione trasmettono una sorta di vibrazione che l’animale riesce a percepire, irrigidendosi e ribellandosi al cavaliere.

I diversi modi di respirare

La frequenza respiratoria dell’uomo adulto è normalmente compresa tra 15 e 18 atti respiratori al minuto. Tuttavia, la respirazione può non essere sempre uguale. Il ritmo può essere lento o veloce (a seconda dello stato in cui si trova la persona) con effetti molto diversi sui parametri fisiologici e psicologici.

Il ritmo lento può apportare benefici agli atleti in vari modi (non solo fisicamente ma anche mentalmente): 

·  migliorando la forma cardiovascolare

·  riducendo lo stress e l’ansia

·  migliorando la salute e il benessere generale

·  aiutando gli atleti a mantenere attenzione e concentrazione durante l’allenamento e la competizione. 

Il ritmo veloce, normale durante l’allenamento fisico e la competizione, al di fuori dell’allenamento, può causare:

·  sentimenti di ansia e panico

·  vertigini e stordimento

·  risposta allo stress nel corpo (influenzando la qualità della vita dell’atleta)

Che cos’è il diaframma?

Il diaframma è un grande muscolo che separa la cavità toracica da quella addominale. La sua contrazione determina l’espansione della cavità toracica che consente l’ingresso del flusso di aria necessario all’atto inspiratorio.

Si tratta di un muscolo che è possibile contrarre volontariamente attraverso una respirazione guidata che viene definita respirazione diaframmatica e che può essere utilizzata sia per cercare di ridurre l’ansia e lo stress, sia per aumentare l’espansione polmonare e migliorare l’efficacia della ventilazione.

Come si fa a respirare con il diaframma?

Posizionarsi seduti su una sedia oppure supini su una superficie piana, con le ginocchia piegate e i piedi appoggiati a terra, oppure con un cuscino sotto le ginocchia.


Appoggiare entrambe le mani sull’addome ed eseguire una profonda inspirazione, cercando di gonfiare l’addome contando mentalmente 1001, 1002 1003. Durante l’espirazione l’addome si svuota naturalmente, accompagnare lo svuotamento con una piccola contrazione dei muscoli addominali contando mentalmente 1004, 1005, 1006.

In caso di necessità è possibile praticare la respirazione diaframmatica in qualsiasi posizione anche in piedi respirando “con la pancia”.

In quali altri modi è possibile combattere l’ansia da prestazione agonistica?

Esiste anche una tecnica di rilassamento, il cosiddetto “luogo sicuro”, dove il soggetto può “immergersi” prima della competizione. Il luogo sicuro è un posto dove siamo stati bene, di cui conserviamo dei bei ricordi e che anche solo immaginarlo permette al nostro cervello di riprodurre le stesse sensazioni positive già vissute, aiutandoci a calmarci.

Fondamentale è anche la presenza della famiglia che deve sostenere la passione dell’atleta al di là del risultato ottenuto in gara. Il compito dei familiari, insieme a quello del coach, è quello di credere nel ragazzo o nella ragazza, sia dal punto di vista sportivo che prestazionale.

Tuttavia, la cosa più importante, resta la fiducia che ogni sportivo deve avere in sé stesso. Ti sei allenato tanto e duramente? Ce la puoi fare. 

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