L’esame di maturità è da sempre uno dei momenti più aspettati ma anche per certi versi temuti dagli studenti italiani. Soprattutto la parte dell’interrogazione orale: in pochi minuti I ragazzi e le ragazze maturandi si trovano a essere giudicati da una commissione di adulti per il lavoro da loro svolto negli anni passati. Una situazione che può generare stress e tensione, soprattutto in chi in certi momenti, come le persone disfluenti, cioè balbuzienti, faticano a esternare con facilità quello che vorrebbero dire.

Ne parliamo con la dottoressa Dora Siervo, Dora Siervo, psicoterapeuta specialista della cura della balbuzie  di PsicoCare e in Humanitas Medical Care di Bergamo.

Dottoressa Siervo, qual è la difficoltà specifica che riguarda le persone che soffrono di problemi legati alla disfluenza in una situazione particolare come quella dell’esame di maturità?

«La loro difficoltà è quella di non riuscire a esprimere con fluidità quello che vorrebbero dire. La tensione dovuta al fatto di essere sottoposti a esame, aggiunta alla difficoltà che può sorgere dal dover parlare davanti a più persone che per lo più non si conoscono, può creare problemi che riguardano la respirazione. Cioè: l’ansia, l’agitazione modificano il tono della respirazione e procurano una sensazione di “fame d’aria”. Il risultato è che la persona disfluente cerca di inglobare più aria, ma più cerca di farlo e più in canali di passaggio della stessa aria e le corde vocali si occludono, aumentando il senso di disagio e la difficoltà di parlare liberamente».

La tensione può aumentare a seconda di come viene impostata l’interrogazione da parte del professore?

«Sì, questo è un fattore che incide molto. Parlando con alcuni giovani che vivono questo tipo di problema, si scopre che una delle cause della loro difficoltà è dovuta al fatto che spesso il professore, vista la situazione, tenda a tagliare corto non facendo finire la risposta dell’interrogato o dell’interrogata. Questo può essere fatto in buona fede, con l’intento di trarre d’impaccio chi sta cercando di parlare, ma il risultato, dal punto di vista psicologico è sempre negativo».

Perché lo è?

«Perché lo studente vive questa cosa con disagio, per due motivi, che all’apparenza potrebbero sembrare contrastanti tra loro ma che in verità non lo sono. Da una parte può avere la frustrazione di non poter dire tutto quello che sa, perché è stato interrotto mentre lo esponeva. Dall’altra può avere la sensazione di ricevere un aiuto non desiderato, aspetto che lo rende invidioso nei confronti dei compagni che non hanno un problema come il suo e vengono giudicati solo per quello che dicono durante l’interrogazione. Sono entrambe situazioni che creano disagio, e quindi ulteriore tensione e conseguente difficoltà a esprimersi».

Questa tensione si manifesta anche attraverso altri segnali?

«Sì, anzitutto attraverso una tipica rigidità del corpo, che diviene quasi paralizzato. Questo accade perché il fatto di prendere più aria possibile, nel tentativo di combattere la sensazione di “apnea” che si sta vivendo, provoca una compressione, una costrizione che è proprio il contrario di quando il corpo è rilassato, per cui si prova una sensazione di benessere. Un altro aspetto rilevante è quello della sudorazione, che interessa in particolare le mani. Il tutto è dovuto alla reazione delle ghiandole sudorifere presenti nel nostro corpo che reagiscono agli stimoli stressogeni con la forma di sudorazione esasperata che prende il nome di iperidrosi. È come se si creasse un circolo vizioso: fatico a esprimermi e questo mi mette in difficoltà, sudo oltre il normale e questo mi crea una condizione di stress che aumenta ulteriormente il mio stato e la mia sensazione di imbarazzo nei confronti di chi mi sta di fronte. Per cui non vedo l’ora che tutto finisca e questo pensiero agisce sulla mia capacità di attenzione e di concentrazione, rendendo ancor più difficile l’esperienza dell’esame».

Qual è il consiglio che si può dare a chi deve affrontare la maturità e teme di avere problemi di disfluenza?

«Quello di concentrarsi, prima di iniziare l’interrogazione, sul controllo della propria respirazione diaframmatica. Poi di pensare a qualcosa di positivo che aiuti a scacciare il pensiero disfunzionale e consenta di basarsi solamente sul “qui e ora”, focalizzandosi sulle parole che si stanno pronunciando, sul contesto, sul contenuto della frase, parola per parola, tralasciando il resto, così da allontanare il pensiero da questioni emotive che possono creare stress».

E quale consiglio si può dare ai professori che stanno interrogando uno studente che mostra difficoltà nell’esprimersi con facilità?

«I professori in genere sanno come comportarsi, in questi frangenti. Può essere di grande aiuto saper mettere a proprio agio il ragazzo o la ragazza, facendo capire che sono interessati a quanto gli si sta dicendo e aiutandosi anche con frasi del tipo “non ti preoccupare, siamo qui ad ascoltarti, prenditi tutto il tempo necessario, ci interessa quello che stai dicendo”. Il tutto in modo assolutamente naturale, senza dare l’idea di voler aiutare più del dovuto l’interrogato, che non deve avere la sensazione, come detto prima, di essere agevolato rispetto ai compagni perché lui ha qualcosa che non va…».

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La disregolazione delle emozioni corrisponde alla difficoltà o all’incapacità di gestire, riconoscere e accettare efficacemente le proprie emozioni. Può manifestarsi in diversi modi, con una loro attivazione molto repentina, con intensità molto sopra o sotto la “media”, potendo portare talvolta a comportamenti impulsivi e disfunzionali agiti sulla base delle emozioni stesse così come alla diminuzione della motivazione, la cosiddetta abulia data dall’appiattimento affettivo. Ma cosa sono le emozioni e perché sembrano essere associate a molte nostre difficoltà da un punto di vista psicologico?

Per poter rispondere a queste domande è necessario capire il contesto nel quale si inserisce questo discorso, ovvero quello del sistema emozionale.

Ne abbiamo parlato con il dott. Pietro Ramella, Psicologo e Psicoterapeuta di PsicoCare.

Cos’è il sistema emozionale?

Il concetto di sistema emozionale è stato analizzato da molti ricercatori durante gli scorsi decenni. In particolare, dalla psicologa americana Marsha Linehan e da alcuni suoi collaboratori, tra la fine degli anni ’90 e gli anni 2000, secondo i quali ogni emozione può essere rappresentata da almeno 5 elementi concatenati (sottoinsiemi) che si influenzano a vicenda, costituendo il sistema emozionale.

Per spiegare meglio questo concetto sono solito usare una mia metafora, considerando questo sistema espresso da Linehan e dai suoi collaboratori come una casa costituita da almeno 5 stanze comunicanti tra loro, dove al loro interno un evento può creare una reazione a catena (in tutte le stanze), dando quindi vita a un’emozione. 

I 5 elementi che costituiscono il sistema emozionale sono:
1. Eventi esterni e/o interni alla persona, ovvero stimoli che attivano le emozioni.

L’evento esterno può essere, per esempio, la vista di una tigre, la scena struggente di un film o il ricevere una buona notizia.

L’evento interno è un ricordo, un pensiero sul futuro o anche una sensazione fisica che provoca un’emozione (qualcosa che non succede nel mondo esterno ma dentro di noi).

2. Vulnerabilità emotiva, ovvero tutti quegli elementi che potrebbero farci vivere uno stesso evento in modo diverso a seconda di cosa sia accaduto poco prima.  

Proviamo ad immaginare tre scenari differenti: una persona si sveglia la mattina e trova una multa sulla propria auto (scenario 1); un’altra ha passato la notte insonne a causa di un malessere fisico (scenario 2); una terza si sveglia dopo aver dormito normalmente (scenario 3).

Tutte e tre le persone giungono sul posto di lavoro scoprono di avere una scadenza imprevista e dover consegnare una relazione in breve tempo. Quali delle tre reagirà meglio? L’emozione scatenata da una multa o la vulnerabilità causata dal poco riposo e dalla conseguente precaria condizione fisica potrebbero essere considerati fattori di vulnerabilità, che porteranno a reagire peggio di fronte a una cattiva notizia al lavoro, rispetto a come si reagirebbe normalmente (scenario 3) ad una brutta notizia.

3. Le risposte emozionali non visibili agli altri, come:

  • Le risposte fisiologiche (per esempio, il battito cardiaco, la sudorazione, il ritmo respiratorio)
  • Le interpretazioni di un evento: di fronte a uno stesso evento due persone con diverse personalità e storie di vita o diversi fattori di vulnerabilità (vedi sopra) potrebbero dare un’interpretazione differente. In base alla nostra interpretazione di quel preciso momento ne deriverà un’emozione diversa.
  • Impulsi, ovvero quella spinta all’azione che la persona può scegliere o meno di compiere, in base, per esempio, alla propria capacità di accorgersene e/o la sua propensione all’impulsività (quante volte di fronte a un momento di rabbia sentiamo l’impulso di voler scagliare un oggetto e poi riusciamo a non farlo? E quante volte sentiamo l’impulso di rispondere male a qualcuno, ma riusciamo a trattenerci per evitare conseguenze peggiori?).

4.   Le risposte e le azioni visibili al mondo esterno, come esultare di gioia, urlare di rabbia o di paura, scappare, o piangere; le espressioni verbali e non verbali, come il tono della voce, il timbro, il volume, la postura, i gesti e soprattutto le espressioni facciali.

5.   Le conseguenze: a ogni emozione corrispondono delle conseguenze (non sempre visibili) che possono essere reazioni di chi ci circonda, nostre azioni, altre emozioni o pensieri che nascono dentro di noi e così via. Quante volte ci è capitato di vergognarci e poi arrabbiarci con noi stessi per averlo fatto? O di esserci arrabbiati con qualcuno e poi esserci sentiti in colpa? 

Le conseguenze che derivano dalle azioni che compiamo emotivamente (come il lancio di un oggetto, le parole dette, o un abbraccio), possono avere un impatto sia negativo che positivo e riuscire ad analizzarle è spesso uno degli obiettivi cruciali di un percorso di psicoterapia.

Ogni cosa che accade in una di queste 5 stanze può quindi influenzare ciò che accade nelle altre 4, come in un sistema appunto, in cui la totalità è più della somma delle parti e dove ogni elemento è legato a tutti gli altri

Perché è importante comprendere il sistema emozionale?

Perché può aiutarci a lavorare sulle emozioni all’interno di un percorso di cura personalizzato. Stiamo parlando di un processo di collaborazione tra psicologo e paziente che oltre a fornire una maggior comprensione delle diverse diagnosi in ambito psicologico e psichiatrico, può anche favorire un miglior esito del percorso stesso, diventando parte integrante di un percorso psicologico e psicoterapeutico.

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La sindrome da alimentazione notturna (Night eating syndrome) è un disturbo piuttosto diffuso: si stima una prevalenza dell’1-1,5% nella popolazione generale che sale a 6-16% nelle persone con obesità; tuttavia, è un disturbo alimentare incluso solo di recente e per la prima volta nella quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), nella sezione “disturbi della nutrizione o dell’alimentazione con altra specificazione”. È una sindrome caratterizzata da episodi ricorrenti di consumo eccessivo di cibo durante la notte, sia dopo il pasto serale (iperfagia serale) sia dopo il risveglio dal sonno (ingestioni notturne) con scarso appetito durante il giorno; i soggetti affetti da tale patologia riferiscono la convinzione di non potersi riaddormentare senza aver mangiato. Inoltre, le persone che ne soffrono sono consapevoli di questi episodi e spesso riescono a ricordarli[1].

Il dott. Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare, ci spiega in dettaglio questo disturbo e come è possibile intervenire.

Come si manifesta la sindrome da alimentazione notturna?

Secondo i criteri del DSM-5, i pazienti con NES devono sperimentare almeno tre delle seguenti caratteristiche associate:

  1. Ricorrenti episodi di alimentazione notturna che si manifestano mangiando dopo i risvegli dal sonno oppure con l’eccessivo consumo di cibo dopo il pasto serale
  2. Consapevolezza e ricordo di aver mangiato
  3. Il comportamento non è conseguenza di influenze esterne come la modificazione del ciclo sonno-veglia dell’individuo oppure da norme sociali
  4. La persona prova un significativo disagio e/o il suo funzionamento è compromesso
  5. Questa modalità di alimentazione disordinata non è spiegata dal disturbo da binge eating (alimentazione incontrollata) o da altri disturbi, compreso il disturbo da uso di sostanze e non è attribuibile ad un altro disturbo medico o all’effetto di farmaci.

Questi sintomi devono essere accompagnati da marcato disagio o compromettere significativamente la qualità della vita per un periodo di almeno 3 mesi.

Altri sintomi significativi possono includere:

  • Mangiare abitualmente almeno il 25% delle calorie giornaliere dopo cena
  • Svegliarsi durante la notte per mangiare almeno due volte a settimana
  • Essere consapevoli degli episodi di consumo di cibo notturno e in grado di ricordarli in seguito
  • Avere voglia di cibo dopo cena o durante la notte
  • Provare angoscia o effetti negativi sul funzionamento quotidiano a causa di episodi di alimentazione notturna[2].

Quali sono le cause della sindrome da alimentazione notturna?

Le cause della NES non sono ancora completamente comprese; tuttavia, si ritiene che questo disturbo possa derivare da una desincronizzazione tra umore, sonno, sazietà e i ritmi circadiani dell’ingestione di cibo. La NES è spesso associata a diagnosi psichiatriche concomitanti e comorbilità; specialmente: 

  • disturbo da alimentazione incontrollata
  • bulimia nervosa
  • disturbo d’ansia generalizzato 
  • disturbo da uso di sostanze[3]

Nonostante i punti di contatto con altri disturbi alimentari, si differenzia dagli altri DA sulla base della quantità di calorie assunte (sia durante il giorno che durante gli episodi iperfagici notturni) e sull’assenza di comportamenti compensatori.

La sindrome da alimentazione notturna si configura, inoltre, come possibile fattore di rischio per obesità, diabete ed altri disturbi metabolici ed endocrini.

A quali complicazioni può portare la sindrome da alimentazione notturna?

Le persone con NES tendono a diventare sovrappeso a causa dell’aumento dell’apporto calorico prima di andare a dormire. Questo comportamento alimentare, inoltre, può portare a una serie di complicazioni, come 

  • diabete
  • ipertensione
  • malattie cardiache  
  • obesità

Senza la psicoterapia possono svilupparsi disturbi psichiatrici.

Numerosi studi hanno riscontrato una forte associazione tra NES e depressione[4].

Come si può trattare la sindrome da alimentazione notturna?

Le opzioni di trattamento per la sindrome da alimentazione notturna includono sia approcci farmacologici che non farmacologici:

  • Farmacologici: farmaci SSRI, ovvero inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina; infatti, il sistema serotoninergico è coinvolto nella regolazione dell’appetito, dell’assunzione di cibo e dei ritmi circadiani.
  • Non farmacologici: terapia cognitivo-comportamentale, bright-light therapy, Progressive-Muscle-Relaxation.

In ogni caso, le review che prendono in esame il disturbo raccomandano un approccio multidisciplinare alla patologia, dato che nessun approccio, preso nella sua singolarità, è risultato efficace quanto il loro intervento combinato. Centrale risulta quindi affidarsi al lavoro sinergico di un’equipe composta da un ventaglio di differenti specialità (medico, psicoterapeuta, nutrizionista) in grado di offrire il miglior trattamento adeguato alle specifiche e soggettive esigenze del paziente.

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[1]  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC10511613/

[2] https://www.sleepfoundation.org/nutrition/night-eating-syndrome

[3] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC10511613/

[4]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK585047/#:~:text=Night%20eating%20syndrome%20is%20a,population%20of%20the%20United%20States.

[5] https://www.e-noos.com/archivio/3774/articoli/37614/

Ansia e stress sono due termini spesso utilizzati in modo intercambiabile, ma rappresentano condizioni distinte con caratteristiche specifiche. Comprendere le differenze è fondamentale per affrontare efficacemente entrambi i problemi.

Ce ne parla la dott.ssa Silvia Negrin, psicologa presso Humanitas Piscocare.

Che cos’è l’ansia?

L’ansia è una risposta emotiva caratterizzata da una preoccupazione riguardo a situazioni future percepite come incerte o rischiose, spesso è associata a tensione muscolare e al comportamento di evitamento. È una parte integrante del nostro essere in quanto ci preserva dai pericoli e ci aiuta ad adattarci ai cambiamenti in maniera efficiente.

Quali sono i sintomi dell’ansia?         

Le manifestazioni possono essere differenti da persona a persona e variare in intensità a seconda della situazione, coinvolgendo non solo la sfera emotiva, ma anche quella fisica e comportamentale.  

Esistono quattro principali tipologie di sintomi: fisici, comportamentali, emozionali e cognitivi.

  • Sintomi fisici: palpitazioni o battito cardiaco accelerato, sensazione di mancanza d’aria, sudorazione eccessiva o tremori, sensazione di vertigini o svenimenti, dolore o tensione muscolare, sintomi gastrointestinali e sensazione di intorpidimento o formicolio nelle mani o nei piedi.
  • Sintomi emotivi: paura irrazionale o preoccupazione costante, sensazione di nervosismo o agitazione, difficoltà di concentrazione o di attenzione, sensazione di impotenza o di perdita di controllo e irritabilità.
  • Sintomi comportamentali: evitamento di situazioni o attività che potrebbero scatenare l’ansia, difficoltà nel dormire o nel riposare adeguatamente, iperattività o ipoattività e la tendenza a isolarsi dagli altri o ad evitare interazioni sociali.
  • Sintomi cognitivi: preoccupazione costante per eventi o situazioni futuri, la difficoltà nel concentrarsi o nel prendere decisioni e la tendenza a sovrastimare i pericoli e prevedere tutti gli scenari possibili catastrofici.

L’ansia può essere una reazione temporanea a uno stimolo stressante o può essere una condizione cronica che richiede un intervento più approfondito.

Da cosa è causata l’ansia?

L’ansia può essere causata da una varietà di fattori, che spesso interagiscono tra loro in modi complessi:

  • Fattori genetici: individui con una storia familiare di ansia hanno dimostrato di avere un rischio maggiore di sviluppare a loro volta tali disturbi.
  • Fattori ambientali: l’esposizione a eventi stressanti o traumatici, il contesto familiare e le dinamiche relazionali disfunzionali, fattori legati all’ambiente sociale e culturale, come pressioni sociali, aspettative culturali o discriminazioni, possono contribuire all’ansia.
  • Fattori psicologici legati a una personalità più ansiosa connotata da perfezionismo e schemi cognitivi: possono amplificare la percezione del pericolo e influenzare negativamente la gestione dello stress.
  • Presenza di determinate condizioni fisiche e patologiche.                             

Che cos’è lo stress?

Lo stress è una risposta fisiologica e psicologica alle pressioni quotidiane, a compiti percepiti dall’individuo come eccessivi. Tuttavia, non ha solo un significato negativo, perché ci permette di adattarci e affrontare le richieste dell’ambiente. Esistono due tipi di stress:

  • Stress positivo (eustress): ci aiuta a trovare la motivazione, a migliorare la nostra produttività e a raggiungere i nostri obiettivi.
  • Stress negativo (distress): si presenta quando una persona percepisce una situazione di minaccia o di pericolo. Provoca sintomi psicofisici come insonnia, mal di testa, irritabilità, senso di frustrazione, di stanchezza, influenzando sia la salute mentale che quella fisica.

Da cosa può essere causato lo stress?

Le cause dello stress possono essere varie e includere: pressioni lavorative, problemi finanziari, relazioni interpersonali difficili e cambiamenti significativi nella vita. Lo stress diventa dannoso quando interferisce con la nostra capacità di affrontare al meglio la vita. In questi casi si parla di stress cronico. Questa condizione è estremamente dannosa per la salute e può portare a una serie di problemi di salute, tra cui disturbi del sonno, problemi cardiaci, disturbi gastrointestinali e disturbi d’ansia.

È tuttavia utile individuare alcuni fattori che risultano tipicamente stressanti per la maggior parte delle persone, come il matrimonio, la nascita di un figlio o un nuovo lavoro, la morte di una persona cara, una separazione o il pensionamento.

Ansia e stress si possono curare allo stesso modo?

Molte tecniche di gestione dello stress possono essere utili anche per trattare l’ansia patologica e viceversa. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT), è uno dei trattamenti più efficaci per i disturbi d’ansia e può aiutare anche nella gestione dello stress, sfruttando le tecniche di rilassamento.

Tecniche efficaci per la gestione dello stress:

  • La respirazione diaframmatica (o respirazione addominale o profonda): è una tecnica di respirazione che coinvolge l’uso del diaframma, il muscolo principale della respirazione situato sotto i polmoni. Questa tecnica stimola il nervo vago, che a sua volta attiva il sistema nervoso parasimpatico, responsabile delle risposte di rilassamento e di distensione. Riduce gli effetti nocivi del cortisolo (l’ormone dello stress) sul corpo, contrastando gli effetti del sistema nervoso simpatico che è attivo durante le situazioni di stress, rallenta la frequenza cardiaca, abbassa la pressione sanguigna e regola il ritmo respiratorio promuovendo un maggiore senso di calma.
  • Il training autogeno: è una tecnica di rilassamento che si basa sulla concentrazione e sull’ auto-suggestione, sviluppata dallo psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz nel 1932. Consiste in una serie di esercizi che si concentrano su diverse parti del corpo e si suddividono in due categorie principali: la pesantezza e il calore. Il training autogeno aiuta a ridurre i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, favorendo una maggiore calma e serenità, migliora il benessere psicofisico e la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni, promuovendo una maggiore consapevolezza emotiva.
  • Il rilassamento muscolare progressivo: lo scopo di questa tecnica, sviluppata dal medico americano Edmund Jacobson negli anni ’20, prevede l’introduzione di modificazioni sul sistema neurovegetativo, con fasi di tensione-distensione muscolare che permettono di far rilassare tutti i muscoli del corpo in modo progressivo, dalle braccia fino alle gambe per promuovere il rilassamento del corpo e della mente.
  • La mindfulness (o consapevolezza, Jon Kabat-Zinn): è una pratica di meditazione che aiuta a ridurre lo stress aumentando la consapevolezza delle proprie sensazioni, pensieri ed emozioni senza cercare di cambiarli o reagire a essi.

Il trattamento farmacologico, combinato alla CBT, può aiutare significativamente nella gestione dei sintomi e a volte è determinante per lavorare sulle condizioni di mantenimento del disturbo.

Concludendo, mentre i trattamenti possono essere simili e sovrapposti, è importante valutare attentamente le specifiche esigenze e circostanze di ogni persona per determinare il miglior approccio per affrontare l’ansia, lo stress o entrambi.

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Fonti

https://link.springer.com/article/10.1007/s12144-021-01747-y

https://www.frontiersin.org/journals/psychology/articles/10.3389/fpsyg.2020.566659/full

https://www.cambridge.org/core/journals/psychological-medicine/article/abs/meditation-techniques-v-relaxation-therapies-when-treating-anxiety-a-metaanalytic-review/6F167C7F5B2A00CB2039C05E89F6E5C2#


[1] Liao et al., 2014; Asmundson e Taylor, 2020; Huang e Zhao, 2020; Lei et al., 2020; Mazza et al., 2020; Moghanibashi-Mansourieh, 2020; Ozamiz-Etxebarria et al., 2020; Özdin e Bayrak Özdin, 2020

Il disturbo d’ansia sociale (SAD), precedentemente conosciuto come fobia sociale, è caratterizzato da marcata paura o ansia rispetto a una o più situazioni sociali in cui la persona  è esposta al possibile giudizio degli altri. Chi soffre di questo disturbo tende a evitare queste situazioni per timore di apparire (o venir considerato) impacciato, ridicolo, incapace, di comportarsi in modo inadeguato. Inoltre, teme di mostrare segni dell’ansia, come la paura di arrossire in volto (eritrofobia) e di essere giudicato negativamente.

Il timore di essere umiliati, derisi, rifiutati o respinti, può portare a un significativo disagio e a una limitazione delle attività quotidiane.

Ce ne parla il dott. Francesco Cuniberti, medico psichiatra, specialista in disturbi depressivi, d’ansia e di panico, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Principe Oddone a Torino.

Quando si può parlare di disturbo d’ansia sociale?

La paura di vivere determinate situazioni in cui si è esposti a un possibile giudizio, dove si teme di fare brutta figura o di non essere adeguati, è assolutamente normale. Tuttavia, questa ansia può evolvere in un disturbo quando l’intensità della paura diventa così eccessiva da causare ansia anticipatoria, evitamento di situazioni sociali e rinunce.

La rinuncia può causare una compromissione in diversi ambiti, come quello sentimentale, la persona rinuncia a invitare qualcuno a uscire, per paura di essere rifiutata; familiare, non esprimendo desideri o necessità durante i momenti di confronto o le discussioni; lavorativo, rinunciando a opportunità di carriera che richiedono interazioni sociali, spingendo alcuni a preferire lavori in smart-working o posizioni che minimizzano il contatto con gli altri.

Un aspetto critico del disturbo d’ansia sociale è la tendenza dei pazienti a non cercare aiuto, spesso per paura del giudizio anche da parte di medici e specialisti, rischiando così di cronicizzare il disturbo.

Esiste una forma definita “legata solo alle performance” dove i timori sono limitati al parlare oppure all’esibirsi in pubblico, mentre negli altri ambiti non ci sono grosse difficoltà.

Che differenza c’è tra ansia sociale e timidezza?

La timidezza è comunemente descritta come l’incapacità di rispondere in modo soddisfacente alle situazioni sociali. Le persone timide possono avere difficoltà a incontrare altre persone e avviare una conversazione con loro, a creare amicizie e innamorarsi. Nonostante la consapevolezza di questa difficoltà, chi è timido può sperimentare reazioni fisiologiche (come. batticuore, respiro accelerato ecc..). La timidezza varia di intensità da persona a persona e può diminuire con l’età e l’acquisizione di maggiori esperienze di vita.

L’ansia sociale, invece, è caratterizzata da un’esperienza cognitiva e affettiva che si scatena dalla percezione di essere valutati dagli altri. Questo disturbo può portare a disabilità significative e ridurre il benessere nella vita quotidiana di chi ne soffre. La timidezza eccessiva diventa patologica, sfociando nel disturbo d’ansia sociale, quando è così estrema da provocare disagio e disfunzioni tali che la persona si sente bloccata.

Le persone con ansia sociale, rispetto a quelle semplicemente timide, mostrano livelli di ansia molto più alti in situazioni percepite valutative e tendono a performare peggio in attività sociali, dimostrando una marcata differenza nel livello di sofferenza e nell’impatto sulle loro capacità quotidiane.

Quanto è comune il disturbo d’ansia sociale?

I dati sono molto variabili anche per la difficoltà a venire a contatto con i pazienti (perché chiedono poco aiuto). Generalmente, il disturbo d’ansia sociale si manifesta in età giovanile e mostra tassi di prevalenza variabili, che possono andare dall’1,5 al 7,1%1. In Italia è stimato intorno al 2,1%2, con una diffusione significativa tra le persone dei paesi occidentali rispetto a quelli orientali nel resto del mondo. Tuttavia, questi numeri non possono tenere conto di tutti quegli individui che preferiscono non chiedere aiuto.

Recenti dati suggeriscono che i livelli di ansia sociale potrebbero essere in aumento a causa di un maggiore utilizzo dei social media, una maggiore connettività e visibilità digitale e più opzioni per la comunicazione non faccia a faccia.

Meno di un quarto degli individui con SAD ricevono cure psicologiche o psichiatriche nei paesi ad alto reddito.

A quali conseguenze può portare il disturbo d’ansia sociale?

Il disturbo di ansia sociale non solo influenza le interazioni quotidiane, ma può anche avere ripercussioni profonde. Le persone possono essere vittime di bullismo e corrono un rischio maggiore di abbandonare la scuola prematuramente. Tendono anche ad avere meno amici, hanno meno probabilità di sposarsi e avere figli e più probabilità di divorziare. Sul posto di lavoro, riferiscono più giorni di assenza e prestazioni inferiori.

Numerosi studi hanno dimostrato che gli individui con SAD hanno un rischio elevato di sviluppare comorbidità psichiatriche, in particolare la depressione.

Ansia sociale e gaming

Alcuni studi hanno esplorato la connessione tra il gaming e il disturbo d’ansia sociale, evidenziano come gli individui affetti da questo disturbo possano avere maggiori probabilità di rimanere “bloccati” nei giochi online. Il gaming online offre un’alternativa alle interazioni sociali della vita reale e permette di evitare il disagio legato al “faccia a faccia”. I videogiochi possono diventare un rifugio sicuro, offrendo la possibilità di acquisire amici e stabilire relazioni, in modo più gestibile e meno ansioso3.

Quali sono i sintomi del disturbo d’ansia sociale?

Il disturbo d’ansia sociale può manifestarsi con sintomi somatici, cognitivi e comportamentali:

Sintomi somatici:

  • Rossore al volto o sudorazione
  • Tremore
  • Malessere o tachicardia
  • Pallore
  • Palpitazioni
  • Tensioni muscolare

Sintomi cognitivi:

  • Autosvalutazione
  • Ipervalutazione del giudizio altrui
  • Aspettativa di essere criticati dagli altri
  • Timore di apparire goffi, ridicoli
  • Timore di comportarsi in maniera inadeguata o paura di arrossire (ereutofobia)

Queste persone attribuiscono un’importanza eccessiva alle proprie manifestazioni d’ansia, ritenendo che queste siano visibili ed evidenti a tutte le persone con cui interagiscono, e che verranno giudicate negativamente.

Le condotte di evitamento, anch’esse fonte di disagio, compromettono ulteriormente il loro comportamento, riducendo il rischio di esposizione.

Sintomi comportamentali:

  • Evitamento situazioni sociali critiche
    • Tipo prestazionale: mangiare in pubblico, parlare, scrivere, usare bagni pubblici, tentare di conoscere qualcuno
    • Interazione sociale: essere presentati, essere al centro dell’attenzione, restituire merce, guardare negli occhi persone poco conosciute, andare ad una festa, ricevere ospiti, parlare con sconosciuti
  • Scarsa partecipazione durante situazioni sociali
  • Aumento del consumo di alcol in situazioni sociali
    Tendenza a relazionarsi mantenendo distanza interpersonale

Questi pazienti possono apparire bizzarri e stravaganti dal momento che chi ne soffre non rivela i propri timori. Il grado di sofferenza dipende dall’intensità della reazione d’allarme successiva all’esposizione, dalla frequenza con cui si è esposti e dai comportamenti di evitamento. Spesso lavorano da soli.

Come si cura il disturbo d’ansia sociale?

Il disturbo d’ansia sociale è trattato principalmente attraverso la psicoterapia, con la terapia cognitiva comportamentale (CBT). Questo approccio si concentra su tecniche terapeutiche come la psicoeducazione, l’esposizione e gli esperimenti comportamentali.

Durante gli esperimenti comportamentali, basati sull’esposizione, ai pazienti viene chiesto di omettere comportamenti di evitamento o di sicurezza e di affrontare la situazione che temono, per mettere alla prova e modificare le convinzioni disfunzionali e i processi cognitivi che sostengono l’ansia.

Recentemente, vengono impiegate le nuove tecnologie della realtà virtuale e aumentata per esporre il paziente in ambiente psicoterapeutico, offrendo un modo sicuro e controllato per fare “training” prima di affrontare la situazione dal vivo4.

La terapia farmacologica varia in base alla gravità della sintomatologia e viene sempre prescritta dopo una visita psichiatrica con una valutazione approfondita e personalizzata sulle caratteristiche del paziente; soprattutto quando la sintomatologia è invalidante e impedisce di avere una vita globale soddisfacente o di effettuare con efficacia il lavoro in psicoterapia.

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  1. https://www.cambridge.org/core/journals/european-psychiatry/article/abs/european-perspective-on-social-anxiety-disorder/B2228E9882D0093DAE649F47428928CA ↩︎
  2. https://d1wqtxts1xzle7.cloudfront.net/44653294/Girolamo_G_Polidori_G_Morosini_PL_et_al.20160412-15993-1ljr0ap-libre.pdf?1460457251=&response-content-disposition=inline%3B+filename%3DPrevalence_of_common_mental_disorders_in.pdf&Expires=1719497372&Signature=GyV-Af5I4tjBkROatUNlQ9eTmlgbnaog2jVpynOb9UhLw6Ag9kC2Ax-gwkSh2HgZVrwbc3pr2OGQ7z6RmZTg5t9i2VHIaAOxEW4Ps2la7uAW9lyFBZyi0-i9wJEpUsLuyVaiaKU41VEFATBS~r7oMNWwuyvLIYzC6Gle5ZuEsHeSmA3HtBZjVDIsJp80e-OKHD-I9RWPGzUdN1wlaAEfoyPDxxoYGlrN6m86tD2xhLG4hBYtmI8L0tLkkclNftqIwoHlDVudXjV-Njwp6MOx~G6Nx2V2NCLrJmREIC~TgsP4zIzuXIEdFnsd3953ndzoc8Yg-xAyCzYE~eVqffHlsw__&Key-Pair-Id=APKAJLOHF5GGSLRBV4ZA ↩︎
  3. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32750032/ ↩︎
  4.  https://trialsjournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/s13063-022-06320-x ↩︎

La parola “selfie” è apparsa per la prima volta in Inghilterra nel 2000, arrivando in Italia nel 2012 e diventano parola dell’anno nel 2013. Secondo l’Accademia della Crusca, un “selfie” è una: “fotografia scattata a sé stessi, senza temporizzazione, con l’obiettivo di postarla in rete”.  Questo fenomeno è così diffuso che è diventato ormai comune vedere persone scattarsi selfie in luoghi pubblici di qualsiasi tipo. Sebbene questa pratica sia ormai parte integrante nella nostra quotidianità, dal punto di vista psicologico, che implicazioni può avere?

Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Elisa Morrone, psicologa e psicoterapeuta, neuropsicologa ed esperta in disturbi del sonno dello PsicoCare.

Implicazioni psicologiche dei selfie

Sebbene in letteratura scientifica non ci siano dati certi che classificano la “selfite” come disturbo mentale, nel 2014 si diffuse la notizia che l’American Psychiatric Association la considerava un potenziale disturbo.

Questa condizione, presente ancora oggi, identifica tre livelli di gravità di un ipotetico disturbo (un po’ come lo shopping compulsivo, tutti sappiamo cos’è, quanto è pericoloso, quanto si accentua in alcuni periodi dell’anno, ma ad oggi non esistono dei veri e propri criteri diagnostici):

1. Borderline: scattare selfie almeno tre volte al giorno senza pubblicarli

2. Acuto: scattare e pubblicare foto sui social media

3. Cronico: incontrollabile bisogno di scattare foto di sé tutto il giorno, pubblicandole online più di sei volte al giorno

Tendenze ed età

I selfie sono più diffusi tra gli adolescenti, che spesso basano la propria identità sui like ricevuti e sui selfie postati durante il giorno. 

Un recente studio italiano ha dimostrato che ragazzi e ragazze utilizzano i selfie in modi diversi: le ragazze tendono a ritoccare le foto per avvicinarsi ad un ideale estetico, mentre i ragazzi li usano per rafforzare la propria autostima.

Il postare foto, racconta lo studio, ha l’obiettivo di soddisfare due principi sociali fondamentali: il senso di appartenenza e l’autopresentazione. In un mondo sempre più virtuale avere decine e decine di like aumenta l’autostima, dà l’illusione di appartenere a qualcosa ma limita nella realtà, nelle capacità comunicative, nelle abilità sociali.

Caratteristiche di personalità 

Le persone che amano scattare e postare selfie amano stare al centro dell’attenzione e sentirsi gratificati, hanno una buona autostima di base e vogliono alimentarla, anche con i like. Per parlare in termini psicologici, tendono ad avere tratti narcisistici. Ancora una volta, la ricerca scientifica dimostra che, tuttavia, il narcisista, sia maschio che femmina, è vulnerabile e cerca di aumentare la propria autostima attraverso post e like, partendo da aspettative alte.

Cosa succede se i like non arrivano?

La mancanza di like può portare a una riduzione dell’autostima, specialmente nei giovani, causando sensazioni di fallimento e non accettazione, con tendenza a dover cambiare, inseguire le mode, superare i limiti (anche quelli pericolosi), isolarsi socialmente, con un calo del rendimento scolastico, mancanza di piacere, disturbi del sonno, fino a sfociare in problemi di depressione.  

Ci sono state molte preoccupazioni riguardo all’eccessiva auto-presentazione promossa dai selfie. Già nel 2014, Roman, evidenziava come l’ossessione per scattare il selfie perfetto poteva compromettere l’esperienza del momento e causare conflitti sociali. Le persone, cercando di catturare l’immagine perfetta, ignoravano l’etichetta sociale e l’attenzione agli altri.

Gli effetti negativi si estendevano anche alla salute mentale e alle relazioni interpersonali:

  • Insoddisfazione corporea: la condivisione di selfie tra adolescenti, soprattutto ragazze, veniva associata ad una maggiore insoddisfazione corporea, nonché a una sottile interiorizzazione ideale ( McLean et al., 2015 )
  • Conflitti relazionali: un’alta frequenza di pubblicazione di selfie su piattaforme veniva correlata al conflitto nelle relazioni romantiche. ( Ridgway e Clayton, 2016 ).
  • Narcisismo: diversi studi hanno trovato un legame tra l’uso dei selfie e il narcisismo ( Barry et al., 2015 ; Sorokowski et al., 2015 ; Weiser, 2015 ).

Anche la percezione di inautenticità associata ai selfie è stata più volte indagata. Nel 2015, Lobinger e Brantner, hanno scoperto che i selfie venivano spesso giudicati non autentici, specialmente quelli con pose riconoscibili o dove era visibile il processo di produzione fotografica, come il braccio che tiene la fotocamera. Questo contrastava con le foto normali che catturano momenti più naturali e spontanee[1].

Aspetti creativi del selfie

Alcuni vedevano, invece, i selfie come un mezzo espressivo che poteva offrire opportunità creative. Per esempio, Rettberg (2014), descriveva come la cultura del selfie riusciva a promuovere la sperimentazione e l’ispirazione reciproca. Grazie a questa pratica, si sono sviluppati nuovi generi come i selfie seriali o i selfie time-lapse. Un esempio, sono i video che si trovano ancora oggi sui social, con selfie scattati ogni giorno per un tot di anni consecutivi.

Perché si scattano selfie?

Scattare selfie non è solo questione social. Una revisione di sei studi, che ha coinvolto 2.100 persone, pubblicata sulla rivista Social Psychological and Personality Science da un team di esperti guidato da Zachary Niese dell’Università di Tubinga, dimostra che le fotografie personali aiutano a riconnettersi con esperienze passate e a costruire la propria narrazione di sè.

Le foto personali possono svolgere molteplici funzioni, tra cui:

  • aiutare le persone a rivivere esperienze fisiche di eventi passati
  • servono a documentare momenti importanti della vita.
  • trasmettere qualcosa di significativo sulla propria identità, valori o obiettivi, ecc.

Alcuni consigli

  • Prima di scattare un selfie godiamoci il panorama, assaporiamo le emozioni del luogo, di ciò che sentiamo e vediamo
  • Se inseguiamo i like fermiamoci a pensare che il mondo reale è altro, almeno per il momento
  • Se avvertiamo sintomi negativi, delusione, se ci sembra di dipendere dai like ai nostri selfie, parliamone con i nostri cari, amici, genitori, fidanzate, insegnanti e chiediamo aiuto. 

Un uso responsabile dei social aiuta a crescere e apprezzare tutto ciò che di positivo la realtà virtuale può darci.

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Fonti

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2214139124000106
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6628890
https://link.springer.com/article/10.1007/s11469-017-9844-x
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7460134
https://www.frontiersin.org/journals/psychology/articles/10.3389/fpsyg.2017.00007/full#B38

L’eccessivo tempo trascorso davanti agli schermi potrebbe risultare particolarmente dannoso per bambini e adolescenti. L’esposizione a contenuti e relazioni inadeguati per la loro età e la sovrastimolazione sensoriale continua, causata da notifiche, messaggi, ecc, possono rendere i giovani particolarmente vulnerabili all’uso degli smartphone (Kwon et al. 2013; Mitchell e Hussain, 2018). L’uso precoce (sotto i 12 anni) e non controllato dello smartphone può, infatti, compromettere i risultati scolastici e portare ad un uso patologico del dispositivo. Gli effetti non sono gli stessi per tutti gli adolescenti: colpiscono maggiormente coloro che presentano difficoltà e problemi già esistenti, peggiorando ulteriormente tali condizioni. 

Ce ne parla la dott.ssa Giorgia Sanvito, psicologa di PsicoCare.

Quali sono i pericoli e gli effetti collaterali?

L’eccessivo tempo trascorso davanti agli schermi può essere dannoso per bambini e adolescenti per diverse ragioni, sia fisiche che psicologiche. Ecco alcune delle principali problematiche legate all’uso eccessivo dei dispositivi elettronici:

  • Problemi di vista: l’esposizione prolungata agli schermi può causare affaticamento visivo, secchezza oculare e miopia. L’American Optometric Association (2022), ha rilevato un aumento dei casi di miopia tra i giovani che passano molto tempo davanti agli schermi.
  • Disturbi del sonno: la luce blu emessa dagli schermi può interferire con il ciclo sonno-veglia naturale, sopprimendo la produzione di melatonina. La National Sleep Foundation (2023) ha evidenziato come l’uso dei dispositivi elettronici prima di andare a dormire riduce la qualità e la durata del sonno nei bambini e negli adolescenti.
  • Obesità: il tempo trascorso seduti davanti a schermi è associato a una diminuzione dell’attività fisica, che può contribuire all’aumento di peso e all’obesità. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (2024) ha collegato l’inattività fisica e l’uso prolungato degli schermi all’incremento dei tassi di obesità infantile.
  • Problemi psicologici: l’uso eccessivo dei social media e dei videogiochi è stato associato a livelli più alti di ansia, depressione e bassa autostima. Uno studio pubblicato su JAMA Pediatrics (2018) ha rilevato che gli adolescenti che passano più tempo sui social media riportano un maggior grado di insoddisfazione e problemi di salute mentale.
  • Riduzione delle capacità sociali: passare molto tempo online può ridurre le opportunità di interazioni sociali faccia a faccia, cruciali per lo sviluppo delle competenze sociali nei bambini. La American Academy of Pediatrics (2016) ha suggerito che l’eccessivo uso dei dispositivi elettronici può influenzare negativamente le abilità di comunicazione e le relazioni interpersonali.
  • Impatto sullo sviluppo cognitivo e sul rendimento scolastico: una ricerca pubblicata su The Lancet Child & Adolescent Health (Walsh et al. 2018) ha trovato che i bambini che trascorrono più di due ore al giorno davanti agli schermi hanno risultati peggiori nei test cognitivi rispetto ai loro coetanei che passano meno tempo sugli schermi. 
  • Assottigliamento prematuro della corteccia cerebrale: dai risultati di uno studio statunitense (Wiederhold 2019) emerge che i bambini di età compresa tra 9 e 10 anni con un alto livello di esposizione a smartphone, tablet o videogiochi mostrano un differente lo sviluppo della struttura cerebrale.

Come possono i genitori sapere qual è la quantità di tempo ‘sana’?

Determinare la quantità “sana” di tempo che bambini e adolescenti dovrebbero passare davanti agli schermi può essere complesso, ma esistono linee guida e raccomandazioni che possono aiutare i genitori.

  • American Academy of Pediatrics: raccomanda che i bambini di età inferiore ai 18 mesi evitino l’uso degli schermi, ad eccezione delle videochiamate. Per i bambini dai 18 ai 24 mesi, l’uso degli schermi dovrebbe essere limitato e supervisionato dai genitori, assicurandosi che i contenuti siano di alta qualità. Per i bambini dai 2 ai 5 anni, è consigliabile limitare l’uso degli schermi a un’ora al giorno di contenuti di qualità. Dai 6 anni in su, i genitori dovrebbero stabilire limiti coerenti sul tempo passato davanti agli schermi, assicurandosi che questo non interferisca con il sonno, l’attività fisica e altre attività essenziali per la salute.
  • Organizzazione Mondiale della Sanità: suggerisce che i bambini sotto i 2 anni non siano esposti agli schermi e che i bambini dai 2 ai 4 anni non superino la soglia di un’ora. Inoltre, sottolinea l’importanza di attività fisica e sonno adeguato.

In generale, è fondamentale prestare attenzione ai segnali, osservando come il tempo trascorso davanti agli schermi influisce sui bambini e adolescenti. Se si nota che l’uso degli schermi interferisce con il sonno, il rendimento scolastico, le interazioni sociali o la salute fisica, potrebbe essere necessario ridurre il tempo sugli smartphone.

Come regolare il tempo trascorso sullo schermo?

Regolare il tempo che bambini e adolescenti trascorrono davanti agli schermi richiede un approccio consapevole e strutturato. Ecco alcuni suggerimenti utili:

  • Sviluppare un piano familiare per l’uso dei media: l’American Academy of Pediatrics (2021) consiglia di stabilire regole chiare su quando e dove è permesso l’uso degli schermi, includendo limiti di tempo appropriati per ogni fascia d’età. Il piano può essere personalizzato per adattarsi alle esigenze e agli interessi della famiglia e dovrebbe essere rivisitato e aggiornato regolarmente.
  • Stabilire zone e tempi senza schermi: definire aree e momenti della giornata in cui l’uso degli schermi non è consentito può promuovere abitudini più sane. Ad esempio, vietando l’uso degli schermi durante i pasti, in bagno e un’ora prima di andare a letto. 
  • Creare “zone senza schermi”: l’Organizzazione Mondiale della Sanità (2019) suggerisce di incoraggiare interazioni sociali e attività fisiche. Giochi all’aperto, lettura, hobby creativi e giochi da tavolo sono ottime alternative.
  • Genitori come modello di comportamento positivo: i bambini tendono a imitare il comportamento degli adulti. Limitare il proprio tempo davanti agli schermi e mostrare interesse per altre attività può avere un effetto positivo su di loro.
  • Monitorare e selezionare i contenuti: assicurarsi che i contenuti a cui i bambini hanno accesso siano appropriati per la loro età e di alta qualità,  utilizzando software di controllo parentale (per monitorare e limitare l’accesso a contenuti inappropriati) e impostando filtri per proteggere i bambini online.
  • Coinvolgere i bambini nella creazione delle regole: discutere apertamente dei motivi per cui è importante limitare il tempo davanti agli schermi può favorire una maggiore cooperazione.
  • Osservare e adattare le regole in base alle necessità di ogni bambino: monitorare il comportamento, il rendimento scolastico, la qualità del sonno e le interazioni sociali per capire se le regole sono efficaci o se devono essere modificate.

Come gestire la resistenza o le obiezioni dei bambini ai limiti di tempo sugli schermi?

Gestire la resistenza dei bambini quando si impongono limiti di tempo davanti agli schermi può essere una sfida. Ecco alcuni suggerimenti utili:

  • Avere una comunicazione aperta: spiegare chiaramente ai bambini il motivo per cui si stanno imponendo i limiti di tempo sugli schermi può aiutarli a comprendere meglio le ragioni dietro le regole e a sentirsi più partecipi nel processo decisionale.  
  • Coinvolgere dei bambini nella creazione delle regole riguardanti: chiedere loro di suggerire idee su come possono bilanciare il tempo sugli schermi con altre attività li farà sentire ascoltati e parte attiva nel processo.
  • Essere disposti a negoziare e adattare le regole in base alle circostanze e alle esigenze dei bambini: ascoltare i loro feedback e fare modifiche ragionevoli può dimostrare che le loro opinioni sono prese in considerazione.
  • Mostrare coerenza nell’applicazione delle regole: stabilire chiaramente le regole e le aspettative riguardanti l’uso degli schermi, assicurandosi che i bambini sappiano quando e per quanto tempo possono usare i dispositivi elettronici.
  • Offrire alternative interessanti e coinvolgenti: promuovere attività che non prevedano l’uso degli schermi, come sport, giochi all’aperto, lettura, progetti artistici, hobby e giochi da tavolo può aiutare a distrarre i bambini dallo smartphone.
  • Modellare comportamenti positivi: dimostrare un uso equilibrato degli schermi e mostrare interesse per altre attività può influenzare positivamente i bambini che tendono a imitare il comportamento degli adulti.
  • Premiare il comportamento positivo: offrire ricompense come elogi, adesivi, punti premio o tempo extra per un’attività che amano.
  • Integrare il tempo sugli schermi in una routine quotidiana strutturata: può aiutare a rendere più prevedibile e accettabile il momento in cui si utilizzano i dispositivi elettronici. Ad esempio, stabilire un periodo specifico della giornata per l’uso degli schermi, seguito da altre attività pianificate.
  • Mantenere la calma e non reagire in modo eccessivo: quando si affrontano resistenze o conflitti, è importante discutere le preoccupazioni e trovare soluzioni insieme può aiutare a risolvere i conflitti in modo costruttivo.
    Implementare queste strategie può aiutare i genitori a gestire meglio la resistenza dei bambini e a stabilire un uso sano e bilanciato degli schermi.

Raccomandazioni sul tempo trascorso sullo schermo per le diverse fasce d’età

Diverse organizzazioni sanitarie, tra cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità (2019) e l’American Academy of Pediatrics (2016, 2021) hanno fornito linee guida per aiutare i genitori a gestire l’uso dei dispositivi elettronici:

Neonati (0-18 mesi): evitare l’uso degli schermi, ad eccezione delle videochiamate per mantenere i contatti con familiari e amici.

Bambini piccoli (18-24 mesi): se si introduce l’uso degli schermi, farlo in modo limitato e sempre insieme a un adulto per aiutare il bambino a capire cosa sta guardando. Preferire contenuti di alta qualità educativa.

Bambini in età prescolare (2-5 anni): limitare l’uso degli schermi a un massimo di un’ora al giorno di contenuti di alta qualità. Co-visionare i contenuti con i bambini per aiutarli a capire e applicare ciò che vedono nel mondo reale.

Bambini in età scolare (6 anni e oltre): stabilire limiti coerenti sul tempo passato davanti agli schermi. Assicurarsi che il tempo trascorso sugli schermi non interferisca con il sonno, l’attività fisica e altre attività essenziali per la salute e lo sviluppo. Promuovere un uso equilibrato degli schermi e attività alternative.

Adolescenti: continuare a monitorare e limitare l’uso degli schermi, assicurandosi che gli adolescenti abbiano un tempo adeguato per il sonno, l’attività fisica, le attività scolastiche e le interazioni sociali faccia a faccia. Discutere insieme l’importanza di un uso responsabile e consapevole dei media digitali.

Quando è necessario rivolgersi al professionista?

Riconoscere quando è necessario cercare aiuto professionale per gestire l’uso degli schermi da parte dei bambini può essere fondamentale per il loro benessere. Ecco alcuni segnali che potrebbero indicare la necessità di consultare un esperto:

  1. Cambiamenti Comportamentali e Emotivi:

●  Il bambino mostra segni di dipendenza dagli schermi, come irritabilità o ansia quando non ha accesso ai dispositivi elettronici.

●  Comportamenti compulsivi o difficoltà a smettere di usare i dispositivi anche quando viene chiesto.

●  Calo significativo dell’umore, depressione o isolamento sociale dovuto all’uso eccessivo degli schermi.

  1. Difficoltà Scolastiche:

●  Calo del rendimento scolastico, difficoltà a concentrarsi sui compiti o disinteresse per le attività scolastiche.

●  Assenteismo o mancanza di partecipazione alle attività scolastiche a causa del tempo trascorso sugli schermi.

  1. Problemi di Salute Fisica:

●  Disturbi del sonno, come difficoltà ad addormentarsi o insonnia, legati all’uso eccessivo di dispositivi elettronici prima di andare a letto.

●  Affaticamento oculare, mal di testa o dolori muscolari dovuti all’uso prolungato degli schermi.

●  Aumento di peso o sedentarietà eccessiva causata dalla mancanza di attività fisica.

  1. Conflitti Familiari:

●  Discussioni frequenti o conflitti tra genitori e figli riguardo l’uso degli schermi.

●  Il bambino preferisce passare il tempo sugli schermi piuttosto che partecipare ad attività familiari o sociali.

  1. Perdita di Interesse per Attività Non Tecnologiche:

●  Disinteresse per attività che non coinvolgono dispositivi elettronici, come sport, hobby, giochi all’aperto o socializzazione con coetanei.

Consultare il pediatra può essere il primo passo per discutere delle preoccupazioni riguardanti l’uso degli schermi e ricevere consigli o essere indirizzati verso specialisti, se necessario.

Rivolgersi a uno psicologo può aiutare a identificare problemi legati all’uso degli schermi e offrire strategie per gestirli. Partecipare a gruppi di supporto per genitori consente di condividere esperienze e ricevere consigli da altri che affrontano sfide simili. Inoltre, risorse online e linee telefoniche di supporto, come quelle offerte da Telefono Azzurro, possono fornire ulteriore aiuto e consigli per i genitori alle prese con problemi legati all’uso della tecnologia da parte dei figli.

Come possono i genitori aiutare i loro figli a sviluppare abitudini sane a lungo termine per quanto riguarda il tempo trascorso sullo schermo?

I genitori possono aiutare i figli a sviluppare abitudini sane riguardo al tempo trascorso davanti agli schermi con diverse strategie:

  • Creare un piano familiare per l’uso dei media: stabilire regole chiare e limiti di tempo appropriati.
  • Definire zone e momenti senza schermi: ad esempio, durante i pasti e prima di dormire, per migliorare la qualità del sonno e le interazioni familiari.
  • Promuovere attività alternative: coinvolgere i bambini in attività non digitali.
  • Modellare comportamenti positivi
  • Monitorare i contenuti digitali
  • Coinvolgere i bambini nella creazione delle regole
  • Consultare pediatri o psicologi per ulteriori suggerimenti su come gestire l’uso degli schermi
  • Partecipare a gruppi di supporto
  • Utilizzare risorse online

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Il mind-wandering è la naturale tendenza della mente a vagare, spostando l’attenzione da un argomento all’altro in breve tempo. Questo fenomeno, parte integrante della mente umana, porta spesso a riflettere su eventi passati o a immaginare situazioni future che potrebbero non avverarsi mai.

Questa funzione mentale è considerata un traguardo dell’evoluzione umana, perché permette di:

·  pianificare

·  apprendere

·  ipotizzare

·  immaginare

·  sognare ad occhi aperti.

Tuttavia, il mind-wandering eccessivo può avere costi emotivi significativi. Quando la mente vaga troppo, diventa difficile controllare. Pensare costantemente a situazioni passate, ormai immodificabili, o preoccuparsi per eventi che potrebbero non verificarsi mai, può rendere infelici.

Ad esempio, se occorre preparare un esame universitario o leggere urgentemente una relazione di lavoro, il mind-wandering può far perdere tempo prezioso. Trovarsi a rileggere lo stesso paragrafo più volte perché distratti da altri pensieri può compromettere la capacità di studiare efficacemente o essere produttivi sul lavoro. Questo non influisce solo sulle performance, ma può anche causare conseguenze emotive negative, come frustrazione e stanchezza.

Ce ne parla la dott.ssa Cristina Di Nardo, psicoterapeuta e neuropsicologa presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Medical Care Torino Principe Oddone.

Il mind-wandering e le emozioni negative

Alcuni studi hanno osservato che, durante le emozioni negative, si tende ad incrementare il mind-wandering. Tuttavia, uno studio del 2010 pubblicato su Science, ha rilevato che il mind-wandering può essere la causa stessa delle emozioni negative. In altre parole, mentre è comune passare rapidamente da un pensiero all’altro durante momenti di stress o tristezza, questo vagare mentale può generare sentimenti negativi.

La natura del mind-wandering

Il mind-wandering è un processo naturale. La nostra mente è predisposta a passare facilmente da un pensiero all’altro, specialmente quando eseguiamo attività automatiche che non richiedono piena concentrazione. Ad esempio, mentre guidiamo, una parte delle nostre energie mentali rimane libera di vagare. Questo può accadere anche durante un viaggio in metropolitana, prima di addormentarsi, o quando ascoltiamo qualcuno che non ci interessa particolarmente.

Impatto del mind-wandering sulle nostre attività quotidiane

Il mind-wandering può influire negativamente sulla capacità di concentrazione, specialmente durante compiti impegnativi. È difficile, ad esempio, rimanere concentrati su una lettura complessa se la mente è costantemente distratta da altri pensieri.

Inoltre, l’attività mentale, come qualunque altra attività fisica, consuma energie: quando siamo preoccupati e continuiamo a rimuginare sui nostri dubbi, potremmo arrivare a fine giornata stanchi a causa del dispendio energetico che si è aggiunto alle nostre normali attività quotidiane.

Gestione del mind-wandering

Per gestire il mind-wandering, si possono adottare diversi metodi. Secondo recenti studi, quelli più efficaci sono i training di mindfulness, l’aumento della consapevolezza riguardo i propri pensieri ed il coinvolgimento in attività:

1. Training di mindfulness

Quando il mind-wandering provoca emozioni negative o pensieri dolorosi, la mindfulness aiuta a rimanere nel presente, a focalizzarsi sulle situazioni attuali, dirigendo la propria attenzione verso ciò che sta accadendo nel “qui ed ora”, aiutando a mantenere la concentrazione e a raggiungere uno stato d’animo più sereno.

Diversi studi hanno dimostrato che i training di mindfulness riducono il tempo occupato dal mind-wandering, aumentando la capacità di attenzione e migliorando le performance (Smallwood & Schoooler, 2015). Ad esempio, un breve esercizio di focalizzazione sul proprio respiro può ridurre gli errori di distrazione in compiti di vigilanza attentiva (Mrazek et al., 2012b).

2. Monitoraggio regolare del contenuto dei propri pensieri

Il monitoraggio regolare del contenuto dei propri pensieri può ridurre gli episodi di mind-wandering. Fare regolarmente il punto della situazione tra i propri pensieri permette di identificare e controllare il vagabondaggio mentale, riducendone gli effetti negativi.

3. Tenersi impegnati in attività coinvolgenti

Impegnarsi in attività coinvolgenti è uno dei metodi più efficaci per contrastare il mind-wandering. Il tipo di attività varia da persona a persona e dovrebbe essere scelto in base ai propri interessi e attitudini. Attività come la lettura, il giardinaggio, l’esercizio fisico, la pittura, possono aiutare a mantenere la mente occupata e ridurre il vagabondaggio mentale.

Bibliografia

Killingsworth, M.A., Gilbert, D. T. (2010), “A wandering mind is an unhappy mind”, Science, Vol. 330, Issue 6006: 932.

Smallwoos, J., Schooler, J.W. (2015), “The science of mind wandering: empirically navigating the stream of consciousness”, Annual Review of Psychology, Vol. 66: 487-518.

Mrazek, M.D., Smallwood, J., Schooler, J.W. (2012b), “Mindfulness and mind-wandering: finding convergence through opposing constructs”, Emotion, 12(3): 442-448.

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La depressione è comunemente associata a sentimenti quali perdita del piacere (anedonia), mancanza di interesse per le attività quotidiane e una generale perdita di energia. Tuttavia, esiste una forma meno riconoscibile di questa condizione, chiamata depressione mascherata, in cui i segnali tipici sono sostituiti o offuscati da sintomi fisici, rendendo la diagnosi particolarmente sfidante.

Ce ne parla il dott. Alessandro Spiti, psichiatra di Humanitas PsicoCare.

Depressione mascherata: con quali sintomi si manifesta?

La depressione mascherata si manifesta con sintomi non convenzionali che non vengono immediatamente identificati come segni di depressione. Invece di anedonia e apatia, i pazienti possono lamentare disturbi come mal di testa, dolori muscolari, problemi digestivi o stanchezza estrema. Questi sintomi somatici possono portare i pazienti a cercare inizialmente aiuto medico internistico piuttosto che psicologico/psichiatrico, ritardando così una diagnosi accurata e l’accesso al trattamento adeguato.

Un problema crescente

Secondo un manuale specialistico nella materia [1], fino al 50% dei pazienti che si rivolgono al medico di base presentano sintomi somatici per i quali non viene identificata una causa fisica immediata. Questo fenomeno, spesso associato a disturbi come somatizzazione e ipocondria, è stato incluso nelle classificazioni psichiatriche moderne all’interno della categoria “Disturbi da Sintomi Somatici” [2]. Tuttavia, molti di questi casi presentano una sintomatologia somatica che accompagna disturbi psichiatrici più ampi, suggerendo nella maggior parte dei casi una diagnosi di depressione.

La ricerca diagnostica e il ritardo nel trattamento

La ricerca di una diagnosi accurata può essere lunga e complessa, con i pazienti che subiscono ripetute visite mediche, accertamenti diagnostici inutili e terapie inefficaci, il che comporta costi elevati per il sistema sanitario e un peggioramento del disagio per il paziente. Una diagnosi psichiatrica tempestiva potrebbe evitare queste complicazioni, riducendo il costo e migliorando la prognosi del paziente.

L’importanza della consapevolezza e della diagnosi precoce

Aumentare la consapevolezza sulla depressione mascherata è cruciale. Riconoscere che i sintomi fisici persistenti possono avere una causa psicologica e/o psichiatrica permette un approccio diagnostico più ampio e una migliore comprensione del paziente nel suo complesso. La diagnosi precoce è fondamentale per prevenire l’aggravarsi della condizione e per iniziare un trattamento efficace, migliorando significativamente la qualità della vita del paziente.

Come si cura la depressione mascherata?

Il trattamento efficace della depressione mascherata inizia con una diagnosi accurata, essenziale per escludere eventuali patologie organiche che potrebbero manifestarsi con sintomi simili. Una volta stabilita la diagnosi di depressione mascherata, il percorso terapeutico può articolarsi su due principali direttrici: la farmacoterapia e/o la psicoterapia.

Farmacoterapia: Il trattamento farmacologico prevede l’uso di antidepressivi serotoninergici (SSRI) e serotoninergici/noradrenergici (SNRI), che incrementano la disponibilità di serotonina e delle altre monoamine (noradrenalina e dopamina) a livello delle sinapsi cerebrali [3]. Allo stesso modo, gli stabilizzanti dell’umore possono essere efficaci una volta impiegati per moderare le oscillazioni emotive, stabilizzando le condizioni del paziente, nel caso di una depressione mascherata in un paziente con diagnosi di disturbo bipolare.

Psicoterapia: In parallelo al trattamento farmacologico, la psicoterapia si rivela cruciale. L’approccio della psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) è quella che presenta maggiori evidenze nella letteratura scientifica. Questo tipo di terapia guida il paziente verso una maggiore consapevolezza delle proprie esperienze di vita e delle proprie emozioni. Attraverso la CBT, i pazienti apprendono a identificare, analizzare e modificare i pattern di pensiero negativi o disfunzionali. Il lavoro terapeutico si focalizza anche sull’esplorazione delle interpretazioni personali e sulle reazioni comportamentali, facilitando il riconoscimento e la correzione dei comportamenti che contribuiscono al disagio psicologico [4].

Riferimenti Bibliografici

[1] Pancheri, P. (2006). La depressione mascherata. Masson.

[2] American Psychiatric Association. (2022). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed., text rev.). https://doi.org/10.1176/appi.books.9780890425787

[3] Guidi, J., & Fava, G. A. (2021). Sequential combination of pharmacotherapy and psychotherapy in major depressive disorder: a systematic review and meta-analysis. JAMA psychiatry, 78(3), 261-269.

[4] Prisco, V., Donnarumma, B., & Prisco, L. (2023). Evolution of Psychosomatic Diagnosis: From Masked Depression to Somatic Symptoms and Related Disorders. OBM Geriatrics, 7(1), 1-6.

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La tele-riabilitazione è un trattamento che grazie alle tecnologie digitali consente di fornire servizi di riabilitazione a distanza. Nell’ambito della psicologia, esistono diversi programmi ed esercizi che possono essere attuati.

Tuttavia, la scelta specifica dipenderà dalle esigenze individuali del paziente e dalla natura del problema in questione.

Ce ne parla la dott.ssa Giorgia Sanvito, psicologa di PsicoCare.

Quando è utile la tele-riabilitazione e a chi è rivolta?

Lo scopo del trattamento riabilitativo dei DSA e delle funzioni neuropsicologiche alla base della letto-scrittura e del calcolo, come ad esempio le funzioni esecutive (memoria di lavoro, attenzione, pianificazione, inibizione, ecc.), è quello di stimolare una competenza non comparsa o comparsa in ritardo e in modo anomalo rispetto a quanto si verifica nello sviluppo., in età evolutiva è essenziale intervenire precocemente per evitare lo strutturarsi di alcune fragilità e per ostacolare il verificarsi di un “effetto a cascata” di una certa difficoltà su altri ambiti dello sviluppo. Frequentemente, infatti, la mancanza di una riabilitazione tempestiva e l’attivazione di trattamenti ritardati o poco efficaci possono avere effetti a lungo termine sulle opportunità educative, come ad esempio la scelta della scuola superiore, e sul successo professionale di un individuo e, di conseguenza, contribuire allo strutturarsi di disturbi psicologici, tra cui ansia e depressione (Brizzolara et al., 2011). 

Con la teleriabilitazione, è invece possibile avvalersi di programmi riabilitativi che possono essere svolti fuori dall’ambulatorio specialistico, a casa o a scuola, attraverso l’uso di piattaforme informatiche e tecnologiche, facilitando così l’accesso ai trattamenti, la riduzione dei costi e la precocità della presa in carico. 

Nello specifico, è possibile proporre una teleriabilitazione per potenziare:

●  la lettura, lavorando sulla diminuzione degli errori e sulla riduzione dei tempi di decodifica ad alta voce. Le persone con dislessia risultano infatti più lente e scorrette nella lettura e questo può portare anche a difficoltà nella comprensione del testo; 

●  le abilità aritmetiche, cercando di migliorare le strategie di calcolo, la discriminazione tra quantità numeriche e la comprensione dei problemi;

●  la scrittura, con l’obiettivo di ridurre gli errori ortografici e migliorare l’esposizione scritta;

●  le funzioni esecutive, come la memoria di lavoro, la pianificazione, l’automonitoraggio e l’inibizione, che sono le fondamenta su cui poggiano gli apprendimenti (lettura, scrittura, calcolo).

Inoltre, attraverso la via telematica è possibile eseguire attività indirizzate a promuovere nei ragazzi con DSA l’utilizzo di app e strumenti compensativi informatici.

Come avviene la presa in carico riabilitativa?

Dopo un’attenta valutazione del caso, tramite una buona raccolta dei dati anamnestici e un’analisi del profilo cognitivo e psicologico della persona, è possibile scegliere la modalità più opportuna di presa in carico e di trattamento. 

Per quanto concerne la teleriabilitazione, esistono tre modalità di trattamento a distanza: 

  • Sincrona, in cui il clinico, in tempo reale, conduce la seduta da remoto.
  • Asincrona, che si basa sull’invio di materiali o video delle attività da svolgere per poi ricevere un feedback dall’utente o dalla piattaforma se prevede un monitoraggio a distanza.
  • Mista (o Ibrida), in cui alla seduta in tempo reale segue un programma di homework strutturati in modalità asincrona. Questo doppio canale consente da una parte un intervento più intensivo, dall’altra un monitoraggio continuo delle attività proposte con un’interazione circolare, che permette un intervento più ragionato e organizzato.

Quali sono i programmi e gli esercizi più utilizzati?

Ad oggi disponiamo di diverse piattaforme con cui è possibile strutturare interventi riabilitativi mirati sia al potenziamento degli apprendimenti come lettura, scrittura e calcolo, sia al potenziamento delle abilità cognitive che li supportano (funzioni esecutive, memoria di lavoro e attenzione). 

Resta comunque fondamentale ricordare che il trattamento a distanza deve conservare quelle caratteristiche di individualità dell’intervento che scaturiscono dal ragionamento clinico, dalle evidenze scientifiche e dall’esperienza professionale, e non dalla applicazione automatica di piattaforme e format riabilitativi.

Quali sono i vantaggi della tele-riabilitazione?

La teleriabilitazione offre un’ottima soluzione a problemi «di accesso» e di comunicazione, consentendo di avvicinare le persone al di là della distanza. Ciò garantisce all’utente la possibilità di raggiungere e avere accesso a servizi di strutture specialistiche anche lontano da casa.

Inoltre, la teleriabilitazione consente l’inizio tempestivo degli interventi che possono essere erogati con intensità e per periodi di tempi anche prolungati. 

Infine, come sottolineato soprattutto nella letteratura di oltreoceano, la teleriabilitazione permette anche l’erogazione di servizi a costo minore, specie se in modalità asincrona (Savard et al., 2003).

Questi punti di forza hanno sostenuto lo sviluppo della teleriabilitazione fin dalle prime fasi, portando a rimuovere barriere nell’accesso a trattamenti riabilitativi tradizionali e consentendo un inizio tempestivo degli interventi, con obiettivi e intensità definite e possibilità di supervisione.

Quali sono i limiti della tele-riabilitazione?

Oltre a questi vantaggi, la teleriabilitazione presenta a tutt’oggi limiti e difficoltà, che non sono ancora stati superati. Tra questi, la possibilità di accedere alla rete. Una parte della popolazione, infatti non dispone ancora di una connessione internet o ne ha un accesso limitato. Questo è un elemento ad alto impatto, che può configurare una discriminazione.

Inoltre, il venir meno di un contatto di persona con il terapeuta, può portare con sé potenziali conseguenze negative, sia dal punto di vista dell’efficacia del trattamento riabilitativo che dal punto di vista socio relazionale. Un intervento tecnicamente perfetto e proposto con i supporti più aggiornati sarà inefficace, se non controproducente, qualora non tenga conto della persona nella sua interezza, sia essa un bambino o un adulto. In particolare, la motivazione dell’utente deve essere costantemente sostenuta.

La tele-riabilitazione può sostituire la visita in presenza?

La teleriabilitazione, se portata avanti in modo sufficientemente autonomo, con adeguata compliance e motivazione da parte dell’utente, può essere scelta come intervento d’elezione. Tuttavia, prima di poter intraprendere un percorso riabilitativo a distanza, è essenziale esaminare il profilo funzionale del paziente, così da poter cucire su misura l’intervento più adatto. 
Il processo di valutazione neuropsicologica, fondamentale per avere un quadro chiaro dei punti di forza e di debolezza del paziente, risulta ancora difficilmente attuabile a distanza, soprattutto in merito alla possibilità di osservare alcuni aspetti qualitativi che potrebbero essere più evidenti in presenza fisica del paziente e in secondo luogo perché gli strumenti utilizzati per indagare il profilo cognitivo e gli apprendimenti richiedono procedure di somministrazione standardizzate sulla base delle quali poter attribuire valori di attendibilità e validità alle nostre valutazioni e formulare diagnosi che confluiscano in documenti ufficiali (le certificazioni per i DSA).

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