Fare attività fisica, mangiare sano e condurre una vita attiva, sono attività fondamentali per la salute fisica. Ma cosa facciamo per il nostro benessere emotivo? Gestire le emozioni è altrettanto importante per la salute psicologica. Spesso ci concentriamo sul corpo, dimenticando di allenare il nostro cervello emotivo. Imparare a gestire lo stress, essere più empatici e vivere in equilibrio con il nostro modo di essere, sono abilità cruciali.

Ce ne parla la dott.ssa Elena Catenacci, psicologa di Humanitas PsicoCare.

Cosa sono le emozioni?

Le emozioni sono processi complessi che si attivano nel nostro organismo in risposta a stimoli ambientali, che ci consentono di valutare rapidamente le situazioni e agire al meglio in un’ottica di adattamento.

L’etimologia della parola emozione è da ricondursi al latino e-movere, “portare fuori”, e indica un movimento: in situazioni di attivazione emotiva l’organismo è spinto ad agire, investendo energia psicofisica.

Da cosa sono costituite le emozioni?

Le emozioni sono costituite da diverse componenti (Camaioni e Di Blasio, 2002):

  • valutazione cognitiva (o appraisal): il nostro cervello in una manciata di secondi valuta le caratteristiche più importanti dello stimolo (pericolosità vs sicurezza; novità vs familiarità; piacevolezza vs spiacevolezza; etc)
  • attivazione fisiologica (o arousal): il nostro corpo modifica i propri parametri per rispondere allo stimolo in modo efficace e rapido (pressione, tono muscolare, frequenza respiratoria, conduttanza cutanea,..)
  • espressioni verbali e non verbali: queste includono sia le parole usate per descrivere l’emozione sia il linguaggio del corpo come espressioni facciali, postura, gesti
  • tendenza all’azione: l’emozione ci spinge ad agire in modo automatico in una determinata direzione.

Di fronte ad un evento attivante, quindi, la valutazione cognitiva di quest’ultimo porterà a cambiamenti fisiologici e espressivi, che si tradurranno in comportamenti adattivi specifici.

Quali sono le emozioni primarie?

Le emozioni sono state studiate in una vasta gamma di contesti e secondo numerose prospettive. Una delle teorie più accreditate, quella evoluzionista, pone l’accento sulla funzione delle emozioni nella nostra vita, partendo da studi che hanno coinvolto popolazioni di tutto il mondo e di tutte le fasce di età. 

A partire dagli anni ‘50 lo psicologo statunitense Paul Ekmann, riprendendo gli studi di Charles Darwin, ha scoperto che alcune emozioni sono riconoscibili in tutte le culture del mondo, poiché vengono descritte ed espresse in modi sostanzialmente sovrapponibili.

Queste emozioni non sembravano essere frutto di processi di apprendimento ambientale, ma sono presenti in ogni essere umano fin dalla nascita. Inoltre, tali emozioni non possono essere scomposte in emozioni più semplici.

Emozioni di questo tipo, universali, innate e primarie, sono state identificate in un numero limitato: la maggior parte degli studi ha individuato 5/6 emozioni di base:

  • Tristezza: è l’emozione che si prova quando si perde qualcosa di caro o in seguito ad eventi sfortunati (valutazione cognitiva di perdita), rispetto ai quali non riusciamo a trovare nessuna possibile alternativa. Le manifestazioni possono includere crisi di pianto, passività, anedonia (incapacità provare piacere per attività che un tempo si amavano), perdita di appetito e insonnia. Le persone tristi presentano segni fisici come postura ricurva, fronte corrugata, labbra piegate e sguardo perso nel vuoto. La tristezza spinge alla solitudine per creare uno spazio/tempo di elaborazione e accettazione della perdita, oppure alla ricerca di vicinanza per trovare conforto e aiuto nel superarla.
  • Gioia: è l’emozione che si prova quando si ottiene qualcosa di importante per il proprio benessere/realizzazione personale (valutazione cognitiva di guadagno). Le manifestazioni includono energia, sensazione di pienezza, desiderio di prolungare la situazione che si sta vivendo. Le persone felici presentano comportamenti non verbali come volto aperto e sorridente, postura morbida e tendenza alla vicinanza prossimale agli altri. La felicità contiene il messaggio “trattieni ciò che hai ottenuto e ripetilo il più spesso possibile”, con la funzione di ottenere e mantenere delle risorse.
  • Rabbia: è l’emozione innata che si manifesta quando le persone percepiscono di aver subito un torto o un’ingiustizia, o davanti a situazioni in cui qualcosa o qualcuno ha impedito il raggiungimento di un obiettivo (valutazione cognitiva di ostacolo). Mentre esperiamo la rabbia possiamo avvertire una grande energia e calore, sentire il corpo teso e i muscoli contratti. Spesso viene accompagnata dall’impulso di colpire, urlare o ferire l’altro. Per le sue possibili conseguenze negative a livello relazionale, la rabbia viene spesso giudicata come “sbagliata”, da evitare, mentre deve solamente essere gestita nella sua modalità espressiva, e ha una funzione adattiva, spingendo la persona ad agire quando si sente minacciata. Il suo scopo è la rimozione dell’ostacolo percepito.
  • Paura: è la risposta a situazioni minacciose (percezione cognitiva di pericolo) e  promuove la sopravvivenza dell’individuo. La risposta fisiologica della paura, anche nota come “risposta di attacco-fuga”, è composta da cambiamenti corporei come: battito cardiaco accelerato, tensione muscolare, respiro veloce, aumento della pressione sanguigna. Tali modificazioni hanno la funzione di mettere l’organismo nella condizione di poter fuggire dal pericolo nel minor tempo possibile. 
  • Disgusto: è l’emozione primaria che si attiva di fronte alla percezione di qualcosa di nocivo per la nostra salute (valutazione cognitiva di veleno). Ci tiene alla larga da alimenti e sostanze che potrebbero arrecare danno, ma si attiva anche di fronte a situazioni moralmente inaccettabili, permettendo di mantenere l’integrità morale oltre che fisica. L’espressione facciale del disgusto è oltremodo tipica, con il naso arricciato e il labbro leggermente sollevato. L’azione a cui ci spinge questa emozione è allontanarci dallo stimolo disgustoso oppure vomitare al fine di espellere il veleno.

Cosa si intende per emozioni secondarie?

Accanto alle emozioni primarie esiste un’ampia gamma di emozioni dette secondarie, che sono più complesse, possono essere una combinazione di più emozioni primarie, e sono sensibili al contesto culturale e sociale di appartenenza. 

Tali emozioni differiscono da popolazione a popolazione e spesso anche da famiglia a famiglia, determinando una costellazione emotiva unica in ciascun individuo. Le emozioni secondarie sono in numero molto maggiore rispetto alle primarie, tutte quelle che possiamo provare nel corso di una vita:

  • Senso di colpa: è un’emozione complessa legata alla morale e al comportamento, che si inizia a delineare più tardivamente rispetto alle emozioni di base (come la gioia e la rabbia), quando una persona percepisce di aver agito in modo trasgressivo rispetto alle norme sociali. Il senso di colpa si manifesta con rimorso e rimpianto rispetto ad un comportamento messo in atto precedentemente, portando ad uno stato di tensione che chiede di essere in qualche modo risolto. 
  • Vergogna: è un’emozione che implica la percezione di un giudizio negativo da parte degli altri. Si sviluppa con la maturazione del sé e riguarda la consapevolezza dell’immagine personale. Il suo ruolo sembra decisivo nell’evitare il rifiuto e l’esclusione da parte del gruppo sociale di appartenenza (amici, famiglia, comunità).

Cosa si intende per emotività patologica?

Abbiamo visto come le nostre emozioni siano meccanismi utili, rapidi e funzionali all’adattamento. Senza di esse non sapremo evitare i pericoli (reali, sociali, futuri), non riusciremo a reagire di fronte alle ingiustizie e non sapremo superare le perdite né capire cosa ci piace e impegnarci nel realizzarlo. E molto altro.

Perché le emozioni possano agire per il nostro bene, tuttavia, esse devono essere coerenti e proporzionali agli eventi che le scatenano. In alcuni casi, può accadere che, per cause complesse di natura biologica, psicologica e sociale, le emozioni non siano funzionali, favorendo quindi il superamento dei problemi e l’adattamento ai cambiamenti, ma possano ostacolare la funzionalità e la qualità di vita delle persone: la paura può diventare fobia, la tristezza depressione, la rabbia può dominare la scena e impedirci di costruire relazioni buone con gli altri, il senso di colpa può diventare pervasivo e dannoso, e così via.

Come gestire le emozioni in modo consapevole e superare i disturbi emotivi?

Per una buona gestione emotiva il primo passo è nominare e conoscere le proprie emozioni: come si manifestano, cosa le scatena, quali conseguenze hanno. La consapevolezza emotiva, infatti, può aiutare a migliorare il benessere psicologico e a sviluppare relazioni più sane. Uno psicoterapeuta cognitivo-comportamentale può essere d’aiuto nell’apprendere strategie nuove di gestione emotiva e modificazione comportamentale, che possono essere focalizzate sulla situazione scatenante, sull’intensità dell’emozione stessa, sui pensieri disfunzionali che mantengono e prolungano l’emozione o sui comportamenti conseguenti.

Infine, quando le emozioni diventano patologiche può essere necessario l’intervento dello psichiatra capace di permettere la normalizzazione delle emozioni patologiche con mirati interventi farmacologici

Nella maggior parte dei casi, la terapia integrata psicofarmacologica e psicoterapeutica garantisce i risultati migliori per aiutare chi soffre di disturbi emotivi a ritrovare la serenità e la libertà.

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Bibliografia:

Darwin, C. (1872). L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli altri animali.

Ekman, P.; Friesen, W.V.; Ellsworth, P.C. (1972). Ekman, P.; Friesen, W.V. (1978). Facial Action Coding System.

Ekman, P. (2008). Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste. Editore Amrita, collana Scienza e Compassione

Camaioni, L.; Di Blasio, P. (2002). Psicologia dello Sviluppo. Il Mulino.

Siegel, D.J. (2001). Toward an interpersonal neurobiology of the developing mind: Attachment relationships, “mindsight,” and neural integration. Infant Mental Health Journal, 22, 67–94.

Il diabete mellito è una condizione cronica che rappresenta una sfida continua per chi ne è affetto. Una gestione attenta e costante, con terapie quotidiane e monitoraggi regolari, è infatti fondamentale per controllare efficacemente i livelli di glucosio nel sangue e prevenire eventuali complicanze.

Nonostante la necessità di un trattamento continuo, molti pazienti trovano difficile la prospettiva di dover assumere farmaci per tutta la vita. Questa difficoltà può sfociare in disturbi psicologici come depressione e ansia che possono influenzare la capacità di seguire una dieta, fare sport, assumere farmaci e controllare la glicemia in modo adeguato1.

La dott.ssa Sara Piccini, endocrinologa e diabetologa presso il centro Humanitas Medical Care De Angeli a Milano, e la dott.ssa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare, ci spiegano come è possibile convivere con il diabete.

Cosa comporta convivere con il diabete? 

La diagnosi di diabete può avere un impatto psicologico importante, poiché convivere con questa malattia comporta delle sfide che vanno oltre la semplice gestione medica. Un buon controllo glicemico, fondamentale per prevenire le complicazioni a lungo termine, richiede un elevato livello di autogestione da parte del paziente. Questo include una corretta alimentazione, un regolare esercizio fisico, la terapia farmacologica continua, l’automonitoraggio dei livelli di glucosio e visite cliniche periodiche2.

Nonostante i progressi nel trattamento del diabete, i pazienti sono ancora ad alto rischio di sviluppare complicanze micro e macrovascolari. La consapevolezza di questi rischi aggiunge ulteriore stress che può complicare la gestione della malattia.

Inoltre, la diagnosi di diabete di tipo 1 durante l’infanzia o l’adolescenza può interferire con i cambiamenti dello sviluppo e causare disagio psicologico (ansia e depressione)3.

Quali fattori psicologici influenzano il benessere emotivo di una persona con diabete? 

I fattori psicologici che giocano un ruolo cruciale nel processo di adattamento della malattia sono:

1. Rifiuto: negare la diagnosi può ostacolare la gestione della propria condizione e l’adozione di misure preventive contro le complicazioni.

2. Rabbia: una diagnosi inaspettata può generare frustrazione e rabbia, che se non gestite, possono interferire con una corretta gestione della patologia e interferire nella qualità di vita.

3. Colpevolezza: sentimenti di colpa, sia realistici che irrealistici, emergono di frequente.

4. Depressione: la tristezza e il senso di perdita possono evolvere in depressione, con conseguenti problemi di sonno, affaticamento, interruzione dell’appetito, disinteresse per le attività quotidiane e per la corretta gestione del diabete.

5. Accettazione: può richiedere molto tempo, ma alla fine la persona accetta il proprio stato e impara a convivere con il diabete. Tuttavia, questo passaggio necessita pazienza, assistenza da parte di altri, piena comprensione del diabete e dei suoi approcci gestionali4.

Che effetti hanno i fattori psicologici sul diabete? 

La modalità con cui il paziente vive e percepisce la sua malattia può influenzare il suo approccio con il diabete.

Diversi studi hanno dimostrato come un elevato disagio emotivo è spesso correlato a uno scarso controllo glicemico, a un deficit nel comportamento di auto-cura, a esiti avversi di diabete, mentre la riduzione dei sintomi depressivi è associata a un miglioramento del controllo glicemico5.

Inoltre, durante i periodi di stress, il corpo aumenta la produzione di adrenalina e cortisolo che inducono il fegato a produrre più glucosio, aumentando i livelli di zucchero nel sangue.

Come si possono affrontare i bisogni psicologici del paziente con diabete? 

Il diabete mellito è una patologia complessa anche a livello psicologico: le emozioni e i vissuti associati alla malattia sono strettamente connessi al rapporto con il proprio corpo e al tema dell’identità.

Inoltre, molti studi evidenziano come sia frequente un comorbidità tra diabete e depressione, e come i sintomi depressivi influenzino negativamente l’aderenza al trattamento.

Risulta quindi fondamentale avere sempre in mente che al centro della cura non c’è il diabete, ma la persona con diabete.

Per alcuni pazienti, l’adattamento alla malattia può risultare complesso. In questi casi, un percorso psicologico mirato può essere utile per accettare la malattia, migliorare le strategie di coping (i comportamenti adottati per gestire, affrontare o ridurre conflitti e situazioni stressanti) e sostenere il cambiamento dello stile di vita.

Come aiutare il paziente dal punto di vista clinico? 

Aiutare un paziente con diabete a convivere con la malattia richiede un approccio integrato e personalizzato. Fortunatamente, rispetto al passato, le terapie farmacologiche a disposizione sono numerose, permettendo di personalizzare la cura in base alle specifiche caratteristiche di ciascuno. 

L’evoluzione tecnologica ha reso la somministrazione dei farmaci e il monitoraggio glicemico sempre meno invasivi, con l’uso di penne per insulina facili da usare, aghi più piccoli per ridurre il disagio e microinfusori per i pazienti con diabete di tipo 1. 

Inoltre, sono a disposizione sensori glicemici che consentono un monitoraggio continuo, riducendo la necessità di punture al dito. I farmaci più recenti offrono anche significativi effetti protettivi contro le complicanze cardiovascolari e renali, diminuendone l’impatto e migliorando la qualità di vita delle persone con diabete6.

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  1.  ​​Epidemiology of depression and diabetes: a systematic review J. affect. disorder Tapash Roy  1 , Cathy E Lloyd
    Affiliations  expand PMID: 23062861  DOI: 10.1016/S0165-0327(12)70004-6  ↩︎
  2. La terapia del diabete mellito di tipo 2 – ISS, La terapia del diabete mellito di tipo 1 – ISS ↩︎
  3. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7154747/ ↩︎
  4. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6166557/#ref11 ↩︎
  5. https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6166557/#ref11 ↩︎
  6. https://www.apa.org/topics/chronic-illness/control-diabetes ↩︎

La stagione estiva è spesso associata a spensieratezza, vacanze e lunghe giornate di sole. Tuttavia, per molte persone, questo periodo può intensificare l’ansia e gli attacchi di panico. Questo peggioramento è dovuto a diversi fattori, come l’aumento delle temperature e della luce solare, che richiedono all’organismo di adattarsi a nuove condizioni. Questo processo di adattamento può essere particolarmente difficile per chi soffre di ansia, aumentando la percezione delle sensazioni fisiche e creando un senso di allarme. Inoltre, il caldo può disturbare il sonno, causando stanchezza e aumentando i livelli di stress, che a loro volta peggiorano l’ansia.

Ce ne parla la dott.ssa Cristina Di Nardo, psicoterapeuta e neuropsicologa presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Medical Care Torino Principe Oddone.

Differenze tra ansia e attacco di panico

L’ansia è una condizione di preoccupazione mentale che si riflette nel corpo con sintomi come tensione muscolare, tachicardia, sudorazione e sensazioni di caldo o freddo. Può essere causata da una combinazione di più fattori, tra cui eventi stressanti della vita quotidiana o situazioni a lungo termine che possono generare preoccupazione.

L’attacco di panico è una sensazione improvvisa e intensa di malessere e disagio fisico, che si presenta con sintomi come difficoltà della respirazione, tachicardia e sensazione di perdita dell’equilibrio. È inaspettato e senza motivo apparente, con una fase acuta che dura pochi minuti.

Alcuni studi suggeriscono un’associazione tra l’aumento delle temperature e l’aggravarsi dei sintomi legati ad ansia e attacchi di panico (Oh et al., 2020). 

Quando le temperature e la luce solare aumentano in modo significativo, il corpo deve adattarsi alla nuova condizione e lo stress fisico e mentale legato al cambiamento può accentuare gli stati ansiosi e favorire la comparsa di attacchi di panico.

Questo corpo a disagio può condurre a interpretazioni erronee capaci di aumentare l’ansia e il timore di avere un attacco di panico.

Come comportarsi in caso di ansia o attacchi di panico?

In caso di ansia, è fondamentale non spaventarsi e riuscire a riconoscere che le sensazioni fisiche percepite per il caldo, non sono un pericolo come invece l’ansia fa percepire. È fondamentale imparare ed esercitarsi nell’uso di tecniche di rilassamento, cercare di regolare i livelli di stress e dedicare tempo ad attività rilassanti. Mantenere uno stile di vita adeguato che, in estate, significa mangiare in modo sano, soprattutto frutta e verdura, e idratarsi correttamente. Rinfrescarsi e vivere in ambienti freschi e ben ventilati può essere di grande aiuto.  

In caso di attacco di panico è importante riconoscere i sintomi e tenere a mente che, per quanto si tratti di sensazioni molto spiacevoli, passeranno nell’arco di poco tempo. Anche se la paura e la sensazione di terrore, tipica dell’attacco di panico, induce a pensare il contrario. 

Durante l’attacco di panico si può provare a utilizzare la respirazione diaframmatica o cercare di distrarsi, ad esempio muovendosi o camminando. Queste attività possono aiutare a rilassare i muscoli e ripristinare una respirazione regolare.

Soprattutto in estate, ma anche nelle altre stagioni, è cruciale cercare di interrompere il ciclo negativo di pensieri in cui una persona si preoccupa immediatamente ed eccessivamente per la comparsa di un sintomo fisico. L’ansia che ne consegue può a sua volta scatenare ulteriori sensazioni e sintomi fisici, creando un ciclo crescente che, nell’arco di pochi minuti, può portare a un picco significativo di ansia sia fisica che mentale.

Anche le persone che assistono chi sta sperimentando l’ansia o un attacco di panico, possono aiutare. È importante:

  • Offrire alla persona comprensione e ascolto, mostrando fiducia in ciò che la persona esprime.
  • Mai giudicare o banalizzare la situazione ma incoraggiare la persona a rilassarsi e a regolare il respiro, magari provando a fare gli esercizi insieme.
  • Cercare di distrarre la persona durante i momenti di difficoltà, non parlando di ansia, ma di altri argomenti.
  • Suggerire alla persona di rivolgersi a specialisti per una terapia adeguata, e che farlo, non è un fallimento o non si dimostra di essere incapaci.

Cosa non fare in caso di ansia e attacchi di panico?

In entrambe le situazioni, è importante evitare:

  • il consumo di alcolici, che possono peggiorare il disturbo a lungo termine:
  • tentare di gestire l’ansia con la sola razionalità ma è preferibile agire sul corpo con tecniche di rilassamento fisico.

Inoltre, per aiutare chi sta soffrendo di un attacco di ansia o panico, è importante evitare frasi che minimizzano il problema, come: “Mettici la buona volontà”; “Non hai motivi per sentirti così”; “Controllati”.

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La solitudine è un noto fattore di rischio a livello scientifico per la salute psicofisica, ma questo legame è ancora poco divulgato e conosciuto. Contrariamente allo stereotipo che la associa principalmente agli anziani, la solitudine può colpire persone di tutte le età, rappresentando un rischio significativo per chiunque.

La dott.ssa Giovanna Vanni, psicoterapeuta medico presso Humanitas PsicoCare, sottolinea l’importanza delle relazioni sociali e la necessità di riconoscere e affrontare questo problema.

Che cosa si intende per solitudine?

La solitudine è una sensazione di isolamento, di non appartenenza, disconnessione o mancanza di contatto sociale significativo. Può manifestarsi sia in situazioni di effettivo isolamento fisico, sia in contesti sociali dove l’individuo, nonostante la presenza di altre persone, si sente comunque emotivamente isolato. La solitudine non è necessariamente legata alla quantità di interazioni sociali, ma piuttosto alla qualità di queste e alla percezione personale delle relazioni.

Nel 2018 è stato istituito il Ministero della Solitudine nel Regno Unito, segnalando come questa problematica fosse già rilevante prima della pandemia di COVID-19. Da allora altri paesi come Canada e Giappone hanno seguito l’esempio riconoscendo la solitudine come un problema serio per la salute. Nel 2023, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato la solitudine una minaccia urgente istituendo una commissione presieduta dal dottor Vivek Murthy, chirurgo generale.

Sono entusiasta di lavorare a stretto contatto con un gruppo eccezionale di commissari per promuovere la connessione sociale, una componente vitale del benessere. Insieme, possiamo costruire un mondo meno solitario, più sano e più resiliente. Date le profonde conseguenze sanitarie e sociali della solitudine e dell’isolamento, abbiamo l’obbligo di attuare gli stessi investimenti nella ricostruzione del tessuto sociale della società che abbiamo effettuato per affrontare altri problemi di salute globale, come l’uso del tabacco, l’obesità e le dipendenze“, ha dichiarato il dottor Vivek Murthy.

Quali sono i fattori che predispongono alla solitudine?

L’Istituto Superiore di Sanità afferma che “le persone più vulnerabili alla solitudine includono:

  • coloro che non hanno una rete di amicizie né una famiglia
  • madri o padri soli, o chi si prende cura di qualcun altro, ad esempio le persone che si occupano di un genitore anziano e hanno poco tempo per mantenere una vita sociale
  • pensionati
  • coloro che si sono trasferiti in una nuova zona, hanno cambiato lavoro, scuola o università
  • chi è escluso dalla società, a causa di problemi di mobilità o per mancanza di denaro
  • persone con disabilità o malattie croniche
  • coloro che subiscono discriminazioni, a causa del proprio genere, etnia od orientamento sessuale
  • coloro che hanno subito abusi sessuali, fisici o psicologici
  • coloro che stanno affrontando un lutto
  • persone con problemi di ansia sociale (condizione di disagio e paura in situazioni sociali)

Altri eventi significativi della vita come l’acquisto di una casa, la nascita di un bambino o la pianificazione di un matrimonio possono talora portare a sentimenti di solitudine.

La solitudine può anche essere causata da una bassa autostima, poiché le persone che non hanno fiducia in se stesse credono di non essere degne dell’attenzione degli altri e si isolano fino a evitare qualsiasi tipo di contatto sociale.

È importante non confondere la solitudine con l’essere temporaneamente soli o sentirsi soli in modo saltuario, in quanto quest’ultima situazione può spingere a cercare il supporto delle persone vicine.

Quali sono i rischi associati alla solitudine?

La letteratura scientifica ha evidenziato i seguenti rischi:

  • aumento significativo del rischio di morte prematura, paragonabile ai rischi associati al fumo, all’obesità e all’inattività fisica
  • aumento del rischio di demenza, malattie cardiache e ictus
  • depressione, ansia e rischio di suicidio
  • maggior rischio di morte in chi soffre di scompenso cardiaco
  • aumento del rischio di malattie croniche come diabete di tipo 2 e ipertensione.

Parallelamente altri studi evidenziano come le ‘buone’ relazioni proteggano la nostra salute. Per esempio l’Harvard Study, uno studio longitudinale iniziato nel 1938 negli Stati Uniti, ha indagato per tre generazioni molteplici fattori psicofisici che potessero essere associati al benessere e alla longevità: tra essi, è spiccato maggiormente avere delle relazioni appaganti e riferite come di buona qualità.

Il bisogno di appartenenza a un gruppo è profondamente biologico, ci fa sentire sicuri e ci rende più resilienti allo stress, contribuendo alla nostra salute.

Come combattere la solitudine?

Il primo passo per combattere la solitudine è riconoscerla e riflettere su come ci si sente all’interno delle proprie relazioni. Non ci si deve criticare per il fatto di sentirsi soli, poiché ciò peggiora la situazione. L’autonomia nella nostra cultura è un valore importante, ma deve essere intesa come un equilibrio tra indipendenza e appartenenza sociale.

Chi avesse il dubbio di soffrire di solitudine può  rivolgersi al medico di base o a uno psicoterapeuta. Lo specialista dovrà informarsi rispetto alla vita sociale della persona e chiedere apertamente se si senta supportata o sola. Andare da uno psicoterapeuta per occuparsi di questo fattore di rischio è importante quanto andare dal cardiologo, dal diabetologo o qualunque altro specialista.

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Fonti:

I.         The U.S. Surgeon General’s Advisory on the Healing Effects of Social Connections and Community, 2023

II.        Lezioni sulla felicità, R. Waldinger, 2023

III.       Istituto Superiore di Sanità, 2022

IV.       Allen KA, et al. “Belonging: A Review of Conceptual Issues, an Integrative Framework, and Directions for Future Research,” Aust J Psychol, 2021

 V.      Introduzione alle neuroscienze sociali, Cacioppo & Cacioppo, 2021

L’esame di maturità è uno dei momenti più attesi ma anche per certi versi temuti dagli studenti italiani. Soprattutto la parte dell’interrogazione orale: in pochi minuti i ragazzi e le ragazze maturandi si trovano a essere giudicati da una commissione di adulti per il lavoro svolto negli anni passati. Una situazione che può generare stress e tensione, soprattutto in chi in certi momenti, come le persone con disfluenza, cioè con balbuzie, faticano a esternare con facilità quello che vorrebbero dire.

Ne parliamo con la dottoressa Dora Siervo, psicoterapeuta specialista nella cura della balbuzie, di Humanitas PsicoCare e in Humanitas Medical Care di Bergamo.

Maturità: le difficoltà legate alla balbuzie

La difficoltà delle persone con disfluenza è quella di non riuscire a esprimere con fluidità quello che vorrebbero dire. La tensione dovuta al fatto di essere sottoposti a esame, aggiunta alla difficoltà che può sorgere dal dover parlare davanti a più persone che per lo più non si conoscono, può creare problemi che riguardano la respirazione. L’ansia e l’agitazione modificano il tono della respirazione e procurano una sensazione di dispnea (affanno, “fame d’aria”).

Una delle cause della difficoltà è dovuta al fatto che spesso il professore, vista la situazione, tende a tagliare corto non facendo finire la risposta dell’interrogato o dell’interrogata. Questo può essere fatto in buona fede, con l’intento di trarre d’impaccio chi sta cercando di parlare, ma il risultato, dal punto di vista psicologico è sempre negativo perché lo studente vive questa situazione con disagio, per due motivi, che all’apparenza potrebbero sembrare contrastanti tra loro ma che in verità non lo sono. Da una parte può avere la frustrazione di non poter dire tutto quello che sa, perché è stato interrotto mentre lo esponeva. Dall’altra può avere la sensazione di ricevere un aiuto non desiderato, aspetto che lo rende invidioso nei confronti dei compagni che non hanno un problema come il suo e vengono giudicati solo per quello che dicono durante l’interrogazione. Sono entrambe situazioni che creano disagio, e quindi ulteriore tensione e conseguente difficoltà a esprimersi.

Questa tensione può manifestarsi anche attraverso una tipica rigidità del corpo, che diviene quasi paralizzato. Questo accade perché il fatto di prendere più aria possibile, nel tentativo di combattere la sensazione di “apnea” che si sta vivendo, provoca una compressione, una costrizione che è proprio il contrario di quando il corpo è rilassato, per cui si prova una sensazione di benessere. Un altro aspetto rilevante è quello della sudorazione, che interessa in particolare le mani. Il tutto è dovuto alla reazione delle ghiandole sudorifere presenti nel nostro corpo che reagiscono agli stimoli stressogeni con la forma di sudorazione esasperata che prende il nome di iperidrosi. È come se si creasse un circolo vizioso: la fatico a esprimersi mette in difficoltà, si suda oltre il normale e questo crea una condizione di stress che aumenta ulteriormente lo stato e la sensazione di imbarazzo nei confronti di chi si ha di fronte. Per cui non si vede l’ora che tutto finisca e questo pensiero agisce sulla capacità di attenzione e di concentrazione, rendendo ancor più difficile l’esperienza dell’esame.

Balbuzie: cosa fare alla maturità

Il consiglio è quello di concentrarsi, prima di iniziare l’interrogazione, sul controllo della propria respirazione diaframmatica. Poi di pensare a qualcosa di positivo che aiuti a scacciare il pensiero disfunzionale e consenta di basarsi solamente sul “qui e ora”, focalizzandosi sulle parole che si stanno pronunciando, sul contesto, sul contenuto della frase, parola per parola, tralasciando il resto, così da allontanare il pensiero da questioni emotive che possono creare stress.

I professori in genere sanno come comportarsi in questi frangenti. Può essere di grande aiuto saper mettere a proprio agio il ragazzo o la ragazza, facendo capire che sono interessati a quanto gli si sta dicendo e aiutandosi anche con frasi del tipo “non ti preoccupare, siamo qui ad ascoltarti, prenditi tutto il tempo necessario, ci interessa quello che stai dicendo”. Il tutto in modo assolutamente naturale, senza dare l’idea di voler aiutare più del dovuto l’interrogato, che non deve avere la sensazione, come detto prima, di essere agevolato rispetto ai compagni perché ha qualcosa che non va.

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La disregolazione delle emozioni corrisponde alla difficoltà o all’incapacità di gestire, riconoscere e accettare efficacemente le proprie emozioni. Può manifestarsi in diversi modi, con una loro attivazione molto repentina, con intensità molto sopra o sotto la “media”, potendo portare talvolta a comportamenti impulsivi e disfunzionali agiti sulla base delle emozioni stesse così come alla diminuzione della motivazione, la cosiddetta abulia data dall’appiattimento affettivo. Ma cosa sono le emozioni e perché sembrano essere associate a molte nostre difficoltà da un punto di vista psicologico?

Per poter rispondere a queste domande è necessario capire il contesto nel quale si inserisce questo discorso, ovvero quello del sistema emozionale.

Ne abbiamo parlato con il dott. Pietro Ramella, Psicologo e Psicoterapeuta di PsicoCare.

Cos’è il sistema emozionale?

Il concetto di sistema emozionale è stato analizzato da molti ricercatori durante gli scorsi decenni. In particolare, dalla psicologa americana Marsha Linehan e da alcuni suoi collaboratori, tra la fine degli anni ’90 e gli anni 2000, secondo i quali ogni emozione può essere rappresentata da almeno 5 elementi concatenati (sottoinsiemi) che si influenzano a vicenda, costituendo il sistema emozionale.

Per spiegare meglio questo concetto sono solito usare una mia metafora, considerando questo sistema espresso da Linehan e dai suoi collaboratori come una casa costituita da almeno 5 stanze comunicanti tra loro, dove al loro interno un evento può creare una reazione a catena (in tutte le stanze), dando quindi vita a un’emozione. 

I 5 elementi che costituiscono il sistema emozionale sono:
1. Eventi esterni e/o interni alla persona, ovvero stimoli che attivano le emozioni.

L’evento esterno può essere, per esempio, la vista di una tigre, la scena struggente di un film o il ricevere una buona notizia.

L’evento interno è un ricordo, un pensiero sul futuro o anche una sensazione fisica che provoca un’emozione (qualcosa che non succede nel mondo esterno ma dentro di noi).

2. Vulnerabilità emotiva, ovvero tutti quegli elementi che potrebbero farci vivere uno stesso evento in modo diverso a seconda di cosa sia accaduto poco prima.  

Proviamo ad immaginare tre scenari differenti: una persona si sveglia la mattina e trova una multa sulla propria auto (scenario 1); un’altra ha passato la notte insonne a causa di un malessere fisico (scenario 2); una terza si sveglia dopo aver dormito normalmente (scenario 3).

Tutte e tre le persone giungono sul posto di lavoro scoprono di avere una scadenza imprevista e dover consegnare una relazione in breve tempo. Quali delle tre reagirà meglio? L’emozione scatenata da una multa o la vulnerabilità causata dal poco riposo e dalla conseguente precaria condizione fisica potrebbero essere considerati fattori di vulnerabilità, che porteranno a reagire peggio di fronte a una cattiva notizia al lavoro, rispetto a come si reagirebbe normalmente (scenario 3) ad una brutta notizia.

3. Le risposte emozionali non visibili agli altri, come:

  • Le risposte fisiologiche (per esempio, il battito cardiaco, la sudorazione, il ritmo respiratorio)
  • Le interpretazioni di un evento: di fronte a uno stesso evento due persone con diverse personalità e storie di vita o diversi fattori di vulnerabilità (vedi sopra) potrebbero dare un’interpretazione differente. In base alla nostra interpretazione di quel preciso momento ne deriverà un’emozione diversa.
  • Impulsi, ovvero quella spinta all’azione che la persona può scegliere o meno di compiere, in base, per esempio, alla propria capacità di accorgersene e/o la sua propensione all’impulsività (quante volte di fronte a un momento di rabbia sentiamo l’impulso di voler scagliare un oggetto e poi riusciamo a non farlo? E quante volte sentiamo l’impulso di rispondere male a qualcuno, ma riusciamo a trattenerci per evitare conseguenze peggiori?).

4.   Le risposte e le azioni visibili al mondo esterno, come esultare di gioia, urlare di rabbia o di paura, scappare, o piangere; le espressioni verbali e non verbali, come il tono della voce, il timbro, il volume, la postura, i gesti e soprattutto le espressioni facciali.

5.   Le conseguenze: a ogni emozione corrispondono delle conseguenze (non sempre visibili) che possono essere reazioni di chi ci circonda, nostre azioni, altre emozioni o pensieri che nascono dentro di noi e così via. Quante volte ci è capitato di vergognarci e poi arrabbiarci con noi stessi per averlo fatto? O di esserci arrabbiati con qualcuno e poi esserci sentiti in colpa? 

Le conseguenze che derivano dalle azioni che compiamo emotivamente (come il lancio di un oggetto, le parole dette, o un abbraccio), possono avere un impatto sia negativo che positivo e riuscire ad analizzarle è spesso uno degli obiettivi cruciali di un percorso di psicoterapia.

Ogni cosa che accade in una di queste 5 stanze può quindi influenzare ciò che accade nelle altre 4, come in un sistema appunto, in cui la totalità è più della somma delle parti e dove ogni elemento è legato a tutti gli altri

Perché è importante comprendere il sistema emozionale?

Perché può aiutarci a lavorare sulle emozioni all’interno di un percorso di cura personalizzato. Stiamo parlando di un processo di collaborazione tra psicologo e paziente che oltre a fornire una maggior comprensione delle diverse diagnosi in ambito psicologico e psichiatrico, può anche favorire un miglior esito del percorso stesso, diventando parte integrante di un percorso psicologico e psicoterapeutico.

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La sindrome da alimentazione notturna (Night eating syndrome) è un disturbo piuttosto diffuso: si stima una prevalenza dell’1-1,5% nella popolazione generale che sale a 6-16% nelle persone con obesità; tuttavia, è un disturbo alimentare incluso solo di recente e per la prima volta nella quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), nella sezione “disturbi della nutrizione o dell’alimentazione con altra specificazione”. È una sindrome caratterizzata da episodi ricorrenti di consumo eccessivo di cibo durante la notte, sia dopo il pasto serale (iperfagia serale) sia dopo il risveglio dal sonno (ingestioni notturne) con scarso appetito durante il giorno; i soggetti affetti da tale patologia riferiscono la convinzione di non potersi riaddormentare senza aver mangiato. Inoltre, le persone che ne soffrono sono consapevoli di questi episodi e spesso riescono a ricordarli[1].

Il dott. Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare, ci spiega in dettaglio questo disturbo e come è possibile intervenire.

Come si manifesta la sindrome da alimentazione notturna?

Secondo i criteri del DSM-5, i pazienti con NES devono sperimentare almeno tre delle seguenti caratteristiche associate:

  1. Ricorrenti episodi di alimentazione notturna che si manifestano mangiando dopo i risvegli dal sonno oppure con l’eccessivo consumo di cibo dopo il pasto serale
  2. Consapevolezza e ricordo di aver mangiato
  3. Il comportamento non è conseguenza di influenze esterne come la modificazione del ciclo sonno-veglia dell’individuo oppure da norme sociali
  4. La persona prova un significativo disagio e/o il suo funzionamento è compromesso
  5. Questa modalità di alimentazione disordinata non è spiegata dal disturbo da binge eating (alimentazione incontrollata) o da altri disturbi, compreso il disturbo da uso di sostanze e non è attribuibile ad un altro disturbo medico o all’effetto di farmaci.

Questi sintomi devono essere accompagnati da marcato disagio o compromettere significativamente la qualità della vita per un periodo di almeno 3 mesi.

Altri sintomi significativi possono includere:

  • Mangiare abitualmente almeno il 25% delle calorie giornaliere dopo cena
  • Svegliarsi durante la notte per mangiare almeno due volte a settimana
  • Essere consapevoli degli episodi di consumo di cibo notturno e in grado di ricordarli in seguito
  • Avere voglia di cibo dopo cena o durante la notte
  • Provare angoscia o effetti negativi sul funzionamento quotidiano a causa di episodi di alimentazione notturna[2].

Quali sono le cause della sindrome da alimentazione notturna?

Le cause della NES non sono ancora completamente comprese; tuttavia, si ritiene che questo disturbo possa derivare da una desincronizzazione tra umore, sonno, sazietà e i ritmi circadiani dell’ingestione di cibo. La NES è spesso associata a diagnosi psichiatriche concomitanti e comorbilità; specialmente: 

  • disturbo da alimentazione incontrollata
  • bulimia nervosa
  • disturbo d’ansia generalizzato 
  • disturbo da uso di sostanze[3]

Nonostante i punti di contatto con altri disturbi alimentari, si differenzia dagli altri DA sulla base della quantità di calorie assunte (sia durante il giorno che durante gli episodi iperfagici notturni) e sull’assenza di comportamenti compensatori.

La sindrome da alimentazione notturna si configura, inoltre, come possibile fattore di rischio per obesità, diabete ed altri disturbi metabolici ed endocrini.

A quali complicazioni può portare la sindrome da alimentazione notturna?

Le persone con NES tendono a diventare sovrappeso a causa dell’aumento dell’apporto calorico prima di andare a dormire. Questo comportamento alimentare, inoltre, può portare a una serie di complicazioni, come 

  • diabete
  • ipertensione
  • malattie cardiache  
  • obesità

Senza la psicoterapia possono svilupparsi disturbi psichiatrici.

Numerosi studi hanno riscontrato una forte associazione tra NES e depressione[4].

Come si può trattare la sindrome da alimentazione notturna?

Le opzioni di trattamento per la sindrome da alimentazione notturna includono sia approcci farmacologici che non farmacologici:

  • Farmacologici: farmaci SSRI, ovvero inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina; infatti, il sistema serotoninergico è coinvolto nella regolazione dell’appetito, dell’assunzione di cibo e dei ritmi circadiani.
  • Non farmacologici: terapia cognitivo-comportamentale, bright-light therapy, Progressive-Muscle-Relaxation.

In ogni caso, le review che prendono in esame il disturbo raccomandano un approccio multidisciplinare alla patologia, dato che nessun approccio, preso nella sua singolarità, è risultato efficace quanto il loro intervento combinato. Centrale risulta quindi affidarsi al lavoro sinergico di un’equipe composta da un ventaglio di differenti specialità (medico, psicoterapeuta, nutrizionista) in grado di offrire il miglior trattamento adeguato alle specifiche e soggettive esigenze del paziente.

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[1]  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC10511613/

[2] https://www.sleepfoundation.org/nutrition/night-eating-syndrome

[3] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC10511613/

[4]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK585047/#:~:text=Night%20eating%20syndrome%20is%20a,population%20of%20the%20United%20States.

[5] https://www.e-noos.com/archivio/3774/articoli/37614/

Ansia e stress sono due termini spesso utilizzati in modo intercambiabile, ma rappresentano condizioni distinte con caratteristiche specifiche. Comprendere le differenze è fondamentale per affrontare efficacemente entrambi i problemi.

Ce ne parla la dott.ssa Silvia Negrin, psicologa presso Humanitas Piscocare.

Che cos’è l’ansia?

L’ansia è una risposta emotiva caratterizzata da una preoccupazione riguardo a situazioni future percepite come incerte o rischiose, spesso è associata a tensione muscolare e al comportamento di evitamento. È una parte integrante del nostro essere in quanto ci preserva dai pericoli e ci aiuta ad adattarci ai cambiamenti in maniera efficiente.

Quali sono i sintomi dell’ansia?         

Le manifestazioni possono essere differenti da persona a persona e variare in intensità a seconda della situazione, coinvolgendo non solo la sfera emotiva, ma anche quella fisica e comportamentale.  

Esistono quattro principali tipologie di sintomi: fisici, comportamentali, emozionali e cognitivi.

  • Sintomi fisici: palpitazioni o battito cardiaco accelerato, sensazione di mancanza d’aria, sudorazione eccessiva o tremori, sensazione di vertigini o svenimenti, dolore o tensione muscolare, sintomi gastrointestinali e sensazione di intorpidimento o formicolio nelle mani o nei piedi.
  • Sintomi emotivi: paura irrazionale o preoccupazione costante, sensazione di nervosismo o agitazione, difficoltà di concentrazione o di attenzione, sensazione di impotenza o di perdita di controllo e irritabilità.
  • Sintomi comportamentali: evitamento di situazioni o attività che potrebbero scatenare l’ansia, difficoltà nel dormire o nel riposare adeguatamente, iperattività o ipoattività e la tendenza a isolarsi dagli altri o ad evitare interazioni sociali.
  • Sintomi cognitivi: preoccupazione costante per eventi o situazioni futuri, la difficoltà nel concentrarsi o nel prendere decisioni e la tendenza a sovrastimare i pericoli e prevedere tutti gli scenari possibili catastrofici.

L’ansia può essere una reazione temporanea a uno stimolo stressante o può essere una condizione cronica che richiede un intervento più approfondito.

Da cosa è causata l’ansia?

L’ansia può essere causata da una varietà di fattori, che spesso interagiscono tra loro in modi complessi:

  • Fattori genetici: individui con una storia familiare di ansia hanno dimostrato di avere un rischio maggiore di sviluppare a loro volta tali disturbi.
  • Fattori ambientali: l’esposizione a eventi stressanti o traumatici, il contesto familiare e le dinamiche relazionali disfunzionali, fattori legati all’ambiente sociale e culturale, come pressioni sociali, aspettative culturali o discriminazioni, possono contribuire all’ansia.
  • Fattori psicologici legati a una personalità più ansiosa connotata da perfezionismo e schemi cognitivi: possono amplificare la percezione del pericolo e influenzare negativamente la gestione dello stress.
  • Presenza di determinate condizioni fisiche e patologiche.                             

Che cos’è lo stress?

Lo stress è una risposta fisiologica e psicologica alle pressioni quotidiane, a compiti percepiti dall’individuo come eccessivi. Tuttavia, non ha solo un significato negativo, perché ci permette di adattarci e affrontare le richieste dell’ambiente. Esistono due tipi di stress:

  • Stress positivo (eustress): ci aiuta a trovare la motivazione, a migliorare la nostra produttività e a raggiungere i nostri obiettivi.
  • Stress negativo (distress): si presenta quando una persona percepisce una situazione di minaccia o di pericolo. Provoca sintomi psicofisici come insonnia, mal di testa, irritabilità, senso di frustrazione, di stanchezza, influenzando sia la salute mentale che quella fisica.

Da cosa può essere causato lo stress?

Le cause dello stress possono essere varie e includere: pressioni lavorative, problemi finanziari, relazioni interpersonali difficili e cambiamenti significativi nella vita. Lo stress diventa dannoso quando interferisce con la nostra capacità di affrontare al meglio la vita. In questi casi si parla di stress cronico. Questa condizione è estremamente dannosa per la salute e può portare a una serie di problemi di salute, tra cui disturbi del sonno, problemi cardiaci, disturbi gastrointestinali e disturbi d’ansia.

È tuttavia utile individuare alcuni fattori che risultano tipicamente stressanti per la maggior parte delle persone, come il matrimonio, la nascita di un figlio o un nuovo lavoro, la morte di una persona cara, una separazione o il pensionamento.

Ansia e stress si possono curare allo stesso modo?

Molte tecniche di gestione dello stress possono essere utili anche per trattare l’ansia patologica e viceversa. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT), è uno dei trattamenti più efficaci per i disturbi d’ansia e può aiutare anche nella gestione dello stress, sfruttando le tecniche di rilassamento.

Tecniche efficaci per la gestione dello stress:

  • La respirazione diaframmatica (o respirazione addominale o profonda): è una tecnica di respirazione che coinvolge l’uso del diaframma, il muscolo principale della respirazione situato sotto i polmoni. Questa tecnica stimola il nervo vago, che a sua volta attiva il sistema nervoso parasimpatico, responsabile delle risposte di rilassamento e di distensione. Riduce gli effetti nocivi del cortisolo (l’ormone dello stress) sul corpo, contrastando gli effetti del sistema nervoso simpatico che è attivo durante le situazioni di stress, rallenta la frequenza cardiaca, abbassa la pressione sanguigna e regola il ritmo respiratorio promuovendo un maggiore senso di calma.
  • Il training autogeno: è una tecnica di rilassamento che si basa sulla concentrazione e sull’ auto-suggestione, sviluppata dallo psichiatra tedesco Johannes Heinrich Schultz nel 1932. Consiste in una serie di esercizi che si concentrano su diverse parti del corpo e si suddividono in due categorie principali: la pesantezza e il calore. Il training autogeno aiuta a ridurre i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, favorendo una maggiore calma e serenità, migliora il benessere psicofisico e la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni, promuovendo una maggiore consapevolezza emotiva.
  • Il rilassamento muscolare progressivo: lo scopo di questa tecnica, sviluppata dal medico americano Edmund Jacobson negli anni ’20, prevede l’introduzione di modificazioni sul sistema neurovegetativo, con fasi di tensione-distensione muscolare che permettono di far rilassare tutti i muscoli del corpo in modo progressivo, dalle braccia fino alle gambe per promuovere il rilassamento del corpo e della mente.
  • La mindfulness (o consapevolezza, Jon Kabat-Zinn): è una pratica di meditazione che aiuta a ridurre lo stress aumentando la consapevolezza delle proprie sensazioni, pensieri ed emozioni senza cercare di cambiarli o reagire a essi.

Il trattamento farmacologico, combinato alla CBT, può aiutare significativamente nella gestione dei sintomi e a volte è determinante per lavorare sulle condizioni di mantenimento del disturbo.

Concludendo, mentre i trattamenti possono essere simili e sovrapposti, è importante valutare attentamente le specifiche esigenze e circostanze di ogni persona per determinare il miglior approccio per affrontare l’ansia, lo stress o entrambi.

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Fonti

https://link.springer.com/article/10.1007/s12144-021-01747-y

https://www.frontiersin.org/journals/psychology/articles/10.3389/fpsyg.2020.566659/full

https://www.cambridge.org/core/journals/psychological-medicine/article/abs/meditation-techniques-v-relaxation-therapies-when-treating-anxiety-a-metaanalytic-review/6F167C7F5B2A00CB2039C05E89F6E5C2#


[1] Liao et al., 2014; Asmundson e Taylor, 2020; Huang e Zhao, 2020; Lei et al., 2020; Mazza et al., 2020; Moghanibashi-Mansourieh, 2020; Ozamiz-Etxebarria et al., 2020; Özdin e Bayrak Özdin, 2020

Il disturbo d’ansia sociale (SAD), precedentemente conosciuto come fobia sociale, è caratterizzato da marcata paura o ansia rispetto a una o più situazioni sociali in cui la persona  è esposta al possibile giudizio degli altri. Chi soffre di questo disturbo tende a evitare queste situazioni per timore di apparire (o venir considerato) impacciato, ridicolo, incapace, di comportarsi in modo inadeguato. Inoltre, teme di mostrare segni dell’ansia, come la paura di arrossire in volto (eritrofobia) e di essere giudicato negativamente.

Il timore di essere umiliati, derisi, rifiutati o respinti, può portare a un significativo disagio e a una limitazione delle attività quotidiane.

Ce ne parla il dott. Francesco Cuniberti, medico psichiatra, specialista in disturbi depressivi, d’ansia e di panico, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Principe Oddone a Torino.

Quando si può parlare di disturbo d’ansia sociale?

La paura di vivere determinate situazioni in cui si è esposti a un possibile giudizio, dove si teme di fare brutta figura o di non essere adeguati, è assolutamente normale. Tuttavia, questa ansia può evolvere in un disturbo quando l’intensità della paura diventa così eccessiva da causare ansia anticipatoria, evitamento di situazioni sociali e rinunce.

La rinuncia può causare una compromissione in diversi ambiti, come quello sentimentale, la persona rinuncia a invitare qualcuno a uscire, per paura di essere rifiutata; familiare, non esprimendo desideri o necessità durante i momenti di confronto o le discussioni; lavorativo, rinunciando a opportunità di carriera che richiedono interazioni sociali, spingendo alcuni a preferire lavori in smart-working o posizioni che minimizzano il contatto con gli altri.

Un aspetto critico del disturbo d’ansia sociale è la tendenza dei pazienti a non cercare aiuto, spesso per paura del giudizio anche da parte di medici e specialisti, rischiando così di cronicizzare il disturbo.

Esiste una forma definita “legata solo alle performance” dove i timori sono limitati al parlare oppure all’esibirsi in pubblico, mentre negli altri ambiti non ci sono grosse difficoltà.

Che differenza c’è tra ansia sociale e timidezza?

La timidezza è comunemente descritta come l’incapacità di rispondere in modo soddisfacente alle situazioni sociali. Le persone timide possono avere difficoltà a incontrare altre persone e avviare una conversazione con loro, a creare amicizie e innamorarsi. Nonostante la consapevolezza di questa difficoltà, chi è timido può sperimentare reazioni fisiologiche (come. batticuore, respiro accelerato ecc..). La timidezza varia di intensità da persona a persona e può diminuire con l’età e l’acquisizione di maggiori esperienze di vita.

L’ansia sociale, invece, è caratterizzata da un’esperienza cognitiva e affettiva che si scatena dalla percezione di essere valutati dagli altri. Questo disturbo può portare a disabilità significative e ridurre il benessere nella vita quotidiana di chi ne soffre. La timidezza eccessiva diventa patologica, sfociando nel disturbo d’ansia sociale, quando è così estrema da provocare disagio e disfunzioni tali che la persona si sente bloccata.

Le persone con ansia sociale, rispetto a quelle semplicemente timide, mostrano livelli di ansia molto più alti in situazioni percepite valutative e tendono a performare peggio in attività sociali, dimostrando una marcata differenza nel livello di sofferenza e nell’impatto sulle loro capacità quotidiane.

Quanto è comune il disturbo d’ansia sociale?

I dati sono molto variabili anche per la difficoltà a venire a contatto con i pazienti (perché chiedono poco aiuto). Generalmente, il disturbo d’ansia sociale si manifesta in età giovanile e mostra tassi di prevalenza variabili, che possono andare dall’1,5 al 7,1%1. In Italia è stimato intorno al 2,1%2, con una diffusione significativa tra le persone dei paesi occidentali rispetto a quelli orientali nel resto del mondo. Tuttavia, questi numeri non possono tenere conto di tutti quegli individui che preferiscono non chiedere aiuto.

Recenti dati suggeriscono che i livelli di ansia sociale potrebbero essere in aumento a causa di un maggiore utilizzo dei social media, una maggiore connettività e visibilità digitale e più opzioni per la comunicazione non faccia a faccia.

Meno di un quarto degli individui con SAD ricevono cure psicologiche o psichiatriche nei paesi ad alto reddito.

A quali conseguenze può portare il disturbo d’ansia sociale?

Il disturbo di ansia sociale non solo influenza le interazioni quotidiane, ma può anche avere ripercussioni profonde. Le persone possono essere vittime di bullismo e corrono un rischio maggiore di abbandonare la scuola prematuramente. Tendono anche ad avere meno amici, hanno meno probabilità di sposarsi e avere figli e più probabilità di divorziare. Sul posto di lavoro, riferiscono più giorni di assenza e prestazioni inferiori.

Numerosi studi hanno dimostrato che gli individui con SAD hanno un rischio elevato di sviluppare comorbidità psichiatriche, in particolare la depressione.

Ansia sociale e gaming

Alcuni studi hanno esplorato la connessione tra il gaming e il disturbo d’ansia sociale, evidenziano come gli individui affetti da questo disturbo possano avere maggiori probabilità di rimanere “bloccati” nei giochi online. Il gaming online offre un’alternativa alle interazioni sociali della vita reale e permette di evitare il disagio legato al “faccia a faccia”. I videogiochi possono diventare un rifugio sicuro, offrendo la possibilità di acquisire amici e stabilire relazioni, in modo più gestibile e meno ansioso3.

Quali sono i sintomi del disturbo d’ansia sociale?

Il disturbo d’ansia sociale può manifestarsi con sintomi somatici, cognitivi e comportamentali:

Sintomi somatici:

  • Rossore al volto o sudorazione
  • Tremore
  • Malessere o tachicardia
  • Pallore
  • Palpitazioni
  • Tensioni muscolare

Sintomi cognitivi:

  • Autosvalutazione
  • Ipervalutazione del giudizio altrui
  • Aspettativa di essere criticati dagli altri
  • Timore di apparire goffi, ridicoli
  • Timore di comportarsi in maniera inadeguata o paura di arrossire (ereutofobia)

Queste persone attribuiscono un’importanza eccessiva alle proprie manifestazioni d’ansia, ritenendo che queste siano visibili ed evidenti a tutte le persone con cui interagiscono, e che verranno giudicate negativamente.

Le condotte di evitamento, anch’esse fonte di disagio, compromettono ulteriormente il loro comportamento, riducendo il rischio di esposizione.

Sintomi comportamentali:

  • Evitamento situazioni sociali critiche
    • Tipo prestazionale: mangiare in pubblico, parlare, scrivere, usare bagni pubblici, tentare di conoscere qualcuno
    • Interazione sociale: essere presentati, essere al centro dell’attenzione, restituire merce, guardare negli occhi persone poco conosciute, andare ad una festa, ricevere ospiti, parlare con sconosciuti
  • Scarsa partecipazione durante situazioni sociali
  • Aumento del consumo di alcol in situazioni sociali
    Tendenza a relazionarsi mantenendo distanza interpersonale

Questi pazienti possono apparire bizzarri e stravaganti dal momento che chi ne soffre non rivela i propri timori. Il grado di sofferenza dipende dall’intensità della reazione d’allarme successiva all’esposizione, dalla frequenza con cui si è esposti e dai comportamenti di evitamento. Spesso lavorano da soli.

Come si cura il disturbo d’ansia sociale?

Il disturbo d’ansia sociale è trattato principalmente attraverso la psicoterapia, con la terapia cognitiva comportamentale (CBT). Questo approccio si concentra su tecniche terapeutiche come la psicoeducazione, l’esposizione e gli esperimenti comportamentali.

Durante gli esperimenti comportamentali, basati sull’esposizione, ai pazienti viene chiesto di omettere comportamenti di evitamento o di sicurezza e di affrontare la situazione che temono, per mettere alla prova e modificare le convinzioni disfunzionali e i processi cognitivi che sostengono l’ansia.

Recentemente, vengono impiegate le nuove tecnologie della realtà virtuale e aumentata per esporre il paziente in ambiente psicoterapeutico, offrendo un modo sicuro e controllato per fare “training” prima di affrontare la situazione dal vivo4.

La terapia farmacologica varia in base alla gravità della sintomatologia e viene sempre prescritta dopo una visita psichiatrica con una valutazione approfondita e personalizzata sulle caratteristiche del paziente; soprattutto quando la sintomatologia è invalidante e impedisce di avere una vita globale soddisfacente o di effettuare con efficacia il lavoro in psicoterapia.

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  1. https://www.cambridge.org/core/journals/european-psychiatry/article/abs/european-perspective-on-social-anxiety-disorder/B2228E9882D0093DAE649F47428928CA ↩︎
  2. https://d1wqtxts1xzle7.cloudfront.net/44653294/Girolamo_G_Polidori_G_Morosini_PL_et_al.20160412-15993-1ljr0ap-libre.pdf?1460457251=&response-content-disposition=inline%3B+filename%3DPrevalence_of_common_mental_disorders_in.pdf&Expires=1719497372&Signature=GyV-Af5I4tjBkROatUNlQ9eTmlgbnaog2jVpynOb9UhLw6Ag9kC2Ax-gwkSh2HgZVrwbc3pr2OGQ7z6RmZTg5t9i2VHIaAOxEW4Ps2la7uAW9lyFBZyi0-i9wJEpUsLuyVaiaKU41VEFATBS~r7oMNWwuyvLIYzC6Gle5ZuEsHeSmA3HtBZjVDIsJp80e-OKHD-I9RWPGzUdN1wlaAEfoyPDxxoYGlrN6m86tD2xhLG4hBYtmI8L0tLkkclNftqIwoHlDVudXjV-Njwp6MOx~G6Nx2V2NCLrJmREIC~TgsP4zIzuXIEdFnsd3953ndzoc8Yg-xAyCzYE~eVqffHlsw__&Key-Pair-Id=APKAJLOHF5GGSLRBV4ZA ↩︎
  3. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32750032/ ↩︎
  4.  https://trialsjournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/s13063-022-06320-x ↩︎

La parola “selfie” è apparsa per la prima volta in Inghilterra nel 2000, arrivando in Italia nel 2012 e diventano parola dell’anno nel 2013. Secondo l’Accademia della Crusca, un “selfie” è una: “fotografia scattata a sé stessi, senza temporizzazione, con l’obiettivo di postarla in rete”.  Questo fenomeno è così diffuso che è diventato ormai comune vedere persone scattarsi selfie in luoghi pubblici di qualsiasi tipo. Sebbene questa pratica sia ormai parte integrante nella nostra quotidianità, dal punto di vista psicologico, che implicazioni può avere?

Lo abbiamo chiesto alla dott.ssa Elisa Morrone, psicologa e psicoterapeuta, neuropsicologa ed esperta in disturbi del sonno dello PsicoCare.

Implicazioni psicologiche dei selfie

Sebbene in letteratura scientifica non ci siano dati certi che classificano la “selfite” come disturbo mentale, nel 2014 si diffuse la notizia che l’American Psychiatric Association la considerava un potenziale disturbo.

Questa condizione, presente ancora oggi, identifica tre livelli di gravità di un ipotetico disturbo (un po’ come lo shopping compulsivo, tutti sappiamo cos’è, quanto è pericoloso, quanto si accentua in alcuni periodi dell’anno, ma ad oggi non esistono dei veri e propri criteri diagnostici):

1. Borderline: scattare selfie almeno tre volte al giorno senza pubblicarli

2. Acuto: scattare e pubblicare foto sui social media

3. Cronico: incontrollabile bisogno di scattare foto di sé tutto il giorno, pubblicandole online più di sei volte al giorno

Tendenze ed età

I selfie sono più diffusi tra gli adolescenti, che spesso basano la propria identità sui like ricevuti e sui selfie postati durante il giorno. 

Un recente studio italiano ha dimostrato che ragazzi e ragazze utilizzano i selfie in modi diversi: le ragazze tendono a ritoccare le foto per avvicinarsi ad un ideale estetico, mentre i ragazzi li usano per rafforzare la propria autostima.

Il postare foto, racconta lo studio, ha l’obiettivo di soddisfare due principi sociali fondamentali: il senso di appartenenza e l’autopresentazione. In un mondo sempre più virtuale avere decine e decine di like aumenta l’autostima, dà l’illusione di appartenere a qualcosa ma limita nella realtà, nelle capacità comunicative, nelle abilità sociali.

Caratteristiche di personalità 

Le persone che amano scattare e postare selfie amano stare al centro dell’attenzione e sentirsi gratificati, hanno una buona autostima di base e vogliono alimentarla, anche con i like. Per parlare in termini psicologici, tendono ad avere tratti narcisistici. Ancora una volta, la ricerca scientifica dimostra che, tuttavia, il narcisista, sia maschio che femmina, è vulnerabile e cerca di aumentare la propria autostima attraverso post e like, partendo da aspettative alte.

Cosa succede se i like non arrivano?

La mancanza di like può portare a una riduzione dell’autostima, specialmente nei giovani, causando sensazioni di fallimento e non accettazione, con tendenza a dover cambiare, inseguire le mode, superare i limiti (anche quelli pericolosi), isolarsi socialmente, con un calo del rendimento scolastico, mancanza di piacere, disturbi del sonno, fino a sfociare in problemi di depressione.  

Ci sono state molte preoccupazioni riguardo all’eccessiva auto-presentazione promossa dai selfie. Già nel 2014, Roman, evidenziava come l’ossessione per scattare il selfie perfetto poteva compromettere l’esperienza del momento e causare conflitti sociali. Le persone, cercando di catturare l’immagine perfetta, ignoravano l’etichetta sociale e l’attenzione agli altri.

Gli effetti negativi si estendevano anche alla salute mentale e alle relazioni interpersonali:

  • Insoddisfazione corporea: la condivisione di selfie tra adolescenti, soprattutto ragazze, veniva associata ad una maggiore insoddisfazione corporea, nonché a una sottile interiorizzazione ideale ( McLean et al., 2015 )
  • Conflitti relazionali: un’alta frequenza di pubblicazione di selfie su piattaforme veniva correlata al conflitto nelle relazioni romantiche. ( Ridgway e Clayton, 2016 ).
  • Narcisismo: diversi studi hanno trovato un legame tra l’uso dei selfie e il narcisismo ( Barry et al., 2015 ; Sorokowski et al., 2015 ; Weiser, 2015 ).

Anche la percezione di inautenticità associata ai selfie è stata più volte indagata. Nel 2015, Lobinger e Brantner, hanno scoperto che i selfie venivano spesso giudicati non autentici, specialmente quelli con pose riconoscibili o dove era visibile il processo di produzione fotografica, come il braccio che tiene la fotocamera. Questo contrastava con le foto normali che catturano momenti più naturali e spontanee[1].

Aspetti creativi del selfie

Alcuni vedevano, invece, i selfie come un mezzo espressivo che poteva offrire opportunità creative. Per esempio, Rettberg (2014), descriveva come la cultura del selfie riusciva a promuovere la sperimentazione e l’ispirazione reciproca. Grazie a questa pratica, si sono sviluppati nuovi generi come i selfie seriali o i selfie time-lapse. Un esempio, sono i video che si trovano ancora oggi sui social, con selfie scattati ogni giorno per un tot di anni consecutivi.

Perché si scattano selfie?

Scattare selfie non è solo questione social. Una revisione di sei studi, che ha coinvolto 2.100 persone, pubblicata sulla rivista Social Psychological and Personality Science da un team di esperti guidato da Zachary Niese dell’Università di Tubinga, dimostra che le fotografie personali aiutano a riconnettersi con esperienze passate e a costruire la propria narrazione di sè.

Le foto personali possono svolgere molteplici funzioni, tra cui:

  • aiutare le persone a rivivere esperienze fisiche di eventi passati
  • servono a documentare momenti importanti della vita.
  • trasmettere qualcosa di significativo sulla propria identità, valori o obiettivi, ecc.

Alcuni consigli

  • Prima di scattare un selfie godiamoci il panorama, assaporiamo le emozioni del luogo, di ciò che sentiamo e vediamo
  • Se inseguiamo i like fermiamoci a pensare che il mondo reale è altro, almeno per il momento
  • Se avvertiamo sintomi negativi, delusione, se ci sembra di dipendere dai like ai nostri selfie, parliamone con i nostri cari, amici, genitori, fidanzate, insegnanti e chiediamo aiuto. 

Un uso responsabile dei social aiuta a crescere e apprezzare tutto ciò che di positivo la realtà virtuale può darci.

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Fonti

https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S2214139124000106
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6628890
https://link.springer.com/article/10.1007/s11469-017-9844-x
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7460134
https://www.frontiersin.org/journals/psychology/articles/10.3389/fpsyg.2017.00007/full#B38