I disturbi alimentari, come il disturbo da alimentazione incontrollata, la bulimia nervosa e l’anoressia nervosa, sono spesso caratterizzati da una percezione distorta dell’immagine corporea, un’alimentazione limitata, abbuffate, vomito autoindotto, uso improprio di lassativi o attività sportiva eccessiva.

Sebbene vengano comunemente associati alle donne, sono presenti anche negli uomini. Tuttavia, tendono a rimanere invisibili a causa di stereotipi legati alla mascolinità e alla percezione comune che queste patologie riguardino soltanto il sesso femminile. 

L’idea di dover essere sempre forti e autosufficienti porta molti uomini a non cercare aiuto per paura di essere percepiti come deboli o “meno maschili”. Questo tabù può rendere difficile ammettere di avere un problema alimentare e cercare aiuto.

 Ce ne parla dott. Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Disturbi alimentari maschili: una questione diagnostica

Le difficoltà diagnostiche dei disturbi del comportamento alimentare negli uomini derivano, come detto, da una pletora di fattori culturali, clinici e psicologici che influenzano il riconoscimento precoce del disturbo e l’accesso al trattamento. Gli ostacoli sono molteplici: 

  • Stereotipi di genere/vergogna e stigma: i disturbi alimentari vengono spesso (ed erroneamente) considerati disturbi ad esclusivo appannaggio femminile; questa convinzione sociale scoraggia molti uomini dal riconoscere, accettare i propri sintomi e quindi chiedere aiuto. Inoltre soggetti di sesso maschile tendono a sperimentare alti livelli di vergogna.
  • Sintomatologia differente: gli uomini con un disturbo alimentare tendono a focalizzarsi maggiormente sull’aumento della massa muscolare piuttosto che sulla magrezza estrema (mediamente, ma non sempre).
  • Comportamenti compensatori mascherati: l’esercizio fisico eccessivo viene spesso normalizzato o addirittura incoraggiato dalla società, rendendo meno evidente nel panorama maschile il suo legame con un disturbo alimentare.
  • Diagnosi ritardata a causa di strumenti diagnostici non sempre adeguati: a causa della visione stereotipata del disturbo, il riconoscimento dei sintomi alimentari può diventare complesso anche per i professionisti; inoltre, sebbene gli strumenti diagnostici utilizzati clinicamente abbiano subito revisioni per includere una più vasta gamma di manifestazioni sintomatologiche maschili, molte diagnosi vengono ancora perse o ritardate perché gli uomini tendono a non soddisfare i classici criteri diagnostici.
  • Comorbidità psichiatriche: il quadro si complica ancor di più al netto del fatto che spesso i disturbi alimentari maschili si manifestano in concomitanza con altri disturbi, come disturbi dell’umore o disturbi da abuso di sostanze. Questi sintomi possono confondere il quadro clinico, portando i professionisti a trattare prima la comorbidità piuttosto che il disturbo alimentare.

Cosa causa i disturbi alimentari negli uomini?

I disturbi alimentari nella popolazione maschile, così come quelli femminili, sono il risultato di un complesso intreccio di fattori culturali, psicologici e biologici. Tuttavia, negli uomini esistono alcuni elementi distintivi che li rendono particolarmente vulnerabili. Da un punto di vista culturale, la società post-moderna promuove ormai da tempo un ideale di mascolinità associato a forza fisica e controllo. I modelli maschili diffusi dai media, dalle pubblicità ai social network, propongono e promuovono un’immagine del corpo maschile sempre più muscoloso e scolpito. 

Questo crea chiaramente una forte pressione nella popolazione di sesso maschile, che si sente spinta a raggiungere standard irrealistici di perfezione fisica.

Sul piano psicologico, molti uomini sviluppano sintomi riconducibili a un disturbo alimentare in risposta a un nucleo di bassa autostima; il bisogno di sentirsi adeguati agli standard sociali di bellezza maschile può portare a comportamenti patologici legati ad alimentazione ed esercizio fisico

Esistono infine anche fattori biologici predisponenti: alcuni studi suggeriscono che ci possano essere componenti genetiche e neurobiologiche che predispongono alcuni individui, sia uomini che donne, a sviluppare disturbi alimentari. Ciò che cambia è la loro interazione con un contesto culturale che, inevitabilmente, crea rimandi differenti per gli uomini e per le donne.

Quali uomini sono più a rischio di sviluppare disturbi alimentari?

Non tutti gli uomini sono ugualmente esposti al rischio di sviluppare un disturbo alimentare. Alcuni gruppi sembrano essere più vulnerabili di altri, come:

  • Atleti: gli uomini che praticano sport a livello agonistico, che richiede quindi un controllo del peso o un’elevata muscolatura sono particolarmente esposti. Bodybuilder e atleti possono sviluppare una vera e propria ossessione per la propria composizione/forma corporea, spingendosi anche all’utilizzo di strumenti potenzialmente pericolosi come steroidi e anabolizzanti.
  • Adolescenti e giovani uomini: la fase di transizione dall’adolescenza all’età adulta rappresenta un periodo critico nello sviluppo dell’identità personale e corporea. I ragazzi che crescono in un contesto in cui l’aspetto fisico è ipervalutato possono sentirsi insicuri e ricorrere a comportamenti alimentari disfunzionali per ottenere un corpo socialmente validabile.
  • Professionisti in ambito media e moda: gli uomini che lavorano in settori in cui l’immagine personale è cruciale – come attori, modelli, influencer – subiscono una pressione continua per mantenere un corpo “perfetto”. 

Quali sono i sintomi più comuni dei disturbi alimentari negli uomini?

Negli uomini, i disturbi alimentari si manifestano più spesso con la dismorfia muscolare, un disturbo psicologico caratterizzato da una percezione distorta del proprio corpo e da una preoccupazione ossessiva per la propria muscolatura.

I comportamenti sintomatici della dismorfia muscolare possono includere:

  • Esercizio fisico ossessivo: allenamenti intensi e frequenti per aumentare la massa muscolare, anche quando il corpo avrebbe bisogno di riposo
  • Dieta iperproteica e restrittiva: consumo eccessivo di proteine e regimi alimentari rigidi. Molti uomini con dismorfia muscolare adottano regimi alimentari eccessivamente rigidi, con un consumo elevato di proteine e l’eliminazione di gruppi alimentari considerati “inutili” o dannosi per la crescita muscolare
  • Uso di integratori e farmaci: assunzione di integratori, farmaci o steroidi anabolizzanti per accelerare lo sviluppo muscolare.
  • Percezione distorta del corpo: nonostante una muscolatura visibilmente sviluppata, le persone affette da dismorfia muscolare si vedono come deboli o poco muscolose, alimentando ulteriormente il loro desiderio di aumentare la massa.

A quali conseguenze possono portare i disturbi alimentari negli uomini?

Questi comportamenti, seppur percepiti spesso come “pratiche salutari”, possono comportare gravi rischi per la salute. L’abuso di integratori e steroidi, insieme a un allenamento eccessivo, possono avere conseguenze a lungo termine, tra cui danni agli organi, squilibri ormonali e problemi cardiovascolari. Tuttavia, poiché questi comportamenti sono comunemente associati a uno stile di vita “sano”, possono passare inosservati, ritardando così il riconoscimento e il trattamento del disturbo.

Riconoscere i segnali e differenziare le pratiche salutari da comportamenti disfunzionali è fondamentale per prevenire conseguenze negative e promuovere una gestione equilibrata del proprio corpo.

Come si curano i disturbi alimentari negli uomini?

Il trattamento della dismorfia muscolare richiede un approccio multidisciplinare. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) si è rivelata efficace nel ridurre i pensieri distorti e ossessivi riguardanti il corpo e nell’insegnare strategie per affrontare i comportamenti compulsivi. Anche il supporto psicologico e la consulenza nutrizionale giocano un ruolo fondamentale nel trattamento.

In alcuni casi, può essere necessaria l’interruzione dell’uso di steroidi e altri farmaci per migliorare la salute fisica e ridurre i rischi associati a tali sostanze.

Come possono gli uomini superare lo stigma e cercare aiuto per i disturbi alimentari?

Uno dei principali ostacoli per gli uomini che soffrono di disturbi alimentari è sicuramente lo stigma sociale. La paura di essere considerati deboli o “meno uomini” può spingere a nascondere o a non considerare il problema, rimandando drammaticamente il momento in cui decidono di chiedere aiuto. Tuttavia, superare questo tabù è fondamentale. Sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere una visione più flessibile della mascolinità è un passo cruciale per creare un ambiente in cui gli uomini possano sentirsi liberi di tematizzare le proprie difficoltà e la propria sofferenza senza il timore di essere giudicati, grazie anche al supporto di familiari e amici. Il cambiamento sociale è lento e progressivo, ma tutti noi, nella nostra piccola soggettività, possiamo fare la differenza.

I disturbi alimentari negli uomini sono un fenomeno serio e reale, che merita ben più attenzione di quella che ha poi in realtà. Chiedere aiuto non è segno di debolezza, ma, anzi, di grande forza. 

Quando si parla di cura dei disturbi alimentari, che si tratti di un soggetto di sesso maschile o femminile, la tempestività d’intervento è la chiave. Il tasso di remissione dipende infatti fortemente dalla rapidità dell’intervento terapeutico; gli interventi precoci hanno dimostrato di migliorare significativamente i tassi di remissione rispetto agli interventi tardivi, sia per gli uomini che per le donne. Le evidenze scientifiche infatti dimostrano come circa il 50-70% delle persone con disturbi alimentari raggiunge la remissione sintomatica con un intervento precoce, scendendo notevolmente (20-30%) con interventi tardivi a distanza di anni dall’esordio sintomatico. Gli uomini tendono a chiedere aiuto più tardi rispetto alle donne, spesso per l’errata percezione che i disturbi alimentari siano solo “problemi femminili”. Tuttavia, anche per loro un intervento precoce migliora significativamente i risultati, portando a un tasso di remissione sovrapponibile a quello della popolazione femminile. Questo dimostra come le differenze di sesso nei tassi di remissione sono spesso spiegati dal fatto che gli uomini tendano a chiedere aiuto meno spesso e più tardi rispetto alle donne; una volta iniziato il trattamento, però, non emergono significative differenze di sesso nei risultati, sebbene le sfide psicologiche possano variare anche notevolmente. 

Quali sono i campanelli d’allarme dei disturbi alimentari maschili?

  • Cambiamenti comportamentali evidenti (adozione di diete rigide ed estreme, conteggio calorico ossessivo, utilizzo massivo di tecniche compensative come l’esercizio fisico).
  • Modifiche significative delle abitudini alimentari (mangiare troppo poco, abbuffarsi (il cheat day o giorno di sgarro, in cui è possibile allontanarsi dal regime alimentare che si sta seguendo e concedersi dei pasti al di fuori delle restrizioni della dieta) rituali insoliti durante i pasti, come spezzettare il cibo in piccoli pezzi).
  • Sintomi fisici (importanti fluttuazioni di peso, fatica costante, vertigini, problemi gastrointestinali, tutti segnali di stress fisico legato al comportamento alimentare).
  • Isolamento sociale (evitare situazioni sociali legate al cibo come pranzi e cene, ritiro dalle relazioni che un tempo erano significative).

In questi casi rivolgersi a una equipe multidisciplinare (medico, psicoterapeuta, nutrizionista) è il primo passo verso il recupero.

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Il rientro dalle vacanze può essere stressante, con il ritorno ai ritmi frenetici, scadenze serrate e ambienti di lavoro competitivi. Questa situazione può scatenare un’ansia da lavoro correlata, caratterizzata da preoccupazioni e difficoltà a riprendere la routine quotidiana. Vi è progressivamente una disregolazione del nostro sistema dello stress, associato a modifiche ormonali che rendono il nostro corpo e la nostra mente più “stanchi” e sofferenti, facendoci perdere i benefici delle vacanze appena trascorse

Ce ne parla il dott. Francesco Cuniberti, medico psichiatra, specialista in disturbi depressivi, d’ansia e di panico, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Principe Oddone a Torino.

Quali sono i sintomi dell’ansia da lavoro?

I sintomi più comuni dell’ansia da lavoro includono:

  • Aumento di stanchezza e irritabilità
  • Riduzione della capacità di concentrazione e di attenzione
  • Maggior rischio di commettere errori, innescando un circolo vizioso di insicurezze
  • Riduzione dell’autostima
  • Rinuncia a incarichi, opportunità o promozioni per paura di maggiore ansia e stress.

Con il calo dell’autostima, l’aumento dell’ansia e il deterioramento del benessere fisico, lo stress lavorativo inizia a influenzare negativamente sia l’ambiente familiare che quello professionale.

Quali sono le conseguenze dell’ansia sul lavoro?

Quando lo stress lavorativo diventa insostenibile, le conseguenze sul lavoro diventano evidenti, aumentando lo stato di insofferenza, il rapporto con i colleghi, la capacità di lavorare correttamente e il rischio di commettere errori. Ma i problemi non riguardano solo la persona, ma anche il rapporto con i familiari e la vita quotidiana. Inoltre, può compromettere anche la salute fisica, diventando un fattore di rischio per diverse patologie come quelle cardiovascolari, specie se sono associate a orario di lavoro eccessivo, abitudine al fumo, obesità e ipertensione.

Se non affrontato, lo stress lavorativo cronico può portare anche allo sviluppo di veri e propri disturbi del sonno, d’ansia e depressione. In alcuni casi, si manifestano attacchi di panico improvvisi, detti “a ciel sereno”, e in situazioni più gravi può essere necessario un intervento specialistico, sia psichiatrico che psicoterapeutico.

Cosa fare quando si presentano i sintomi dell’ansia da lavoro?

Riuscire a mettere come priorità il proprio benessere è essenziale per poter ritrovare la serenità lavorativa e familiare persa. Fondamentale è confidare le difficoltà alle persone vicine, ai familiari o a qualche collega con cui si è più in confidenza. Infatti, condividendo le difficoltà, spesso si può scoprire che altri le hanno già vissute e superate. E in questo modo, non sentirsi sbagliati e non vergognarsi delle proprie difficoltà. Pertanto, è importante:

  • Prendersi cura di sé: mantenere la calma e dedicare del tempo al proprio benessere fisico e mentale. Questo aiuta a gestire meglio il ritorno al lavoro.
  • Curare lo stile di vita: regolare il ritmo sonno-veglia, alimentarsi correttamente, fare attività fisica e ridurre l’uso di sostanze eccitanti come caffè e bevande gassate.
  • Rendere confortevole l’ambiente di lavoro: organizzare la scrivania, inserire oggetti personali che trasmettano tranquillità e riducano l’ansia.
  • Condividere momenti di pausa con i colleghi.

Infine, se lo stress persiste, valutare la possibilità di chiedere un aiuto specialistico, così valutare un possibile cambio di mansioni o, perfino, la possibilità di un nuovo lavoro per interrompere il circolo vizioso dell’ansia lavoro correlata e trovare nuovi stimoli e prospettive.

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L’aracnofobia, o paura dei ragni, è una fobia specifica caratterizzata da una paura intensa dei ragni e di altri aracnidi. Quando entra in contatto con un ragno o pensa a questo animale, la persona aracnofobica prova una paura spesso invalidante, sperimentando uno stato d’ansia che può influenzare significativamente la qualità della vita.

È una delle fobie specifiche più comuni, con una prevalenza di circa il 5% nella vita. Colpisce più frequentemente le femmine rispetto ai maschi. Le fobie specifiche come l’aracnofobia tendono a manifestarsi precocemente e sono associate a un rischio maggiore di sviluppare altri disturbi d’ansia e depressione nel corso della vita.

Ce ne parla la dott.ssa Elena Catenacci, psicologa di Humanitas PsicoCare.

Quali sono i sintomi dell’aracnofobia?

I sintomi tipici dell’aracnofobia includono:

  • Intensa paura alla vista o al pensiero di un ragno
  • Ansia sproporzionata rispetto al reale pericolo rappresentato dal ragno
  • Evitamento di luoghi o situazioni in cui potrebbero esserci ragni.

La paura e l’ansia si manifestano con: 

  • Difficoltà respiratorie
  • Battito cardiaco accelerato
  • Nausea
  • Sudorazione
  • Tremori 
  • Desiderio di fuggire.

Quali sono le cause dell’aracnofobia?

L’aracnofobia, come tutte le fobie, è influenzata da diverse variabili. Le principali cause che possono contribuire allo sviluppo della paura dei ragni sono:

  • Esperienze negative pregresse: assistere a una scena spaventosa o subire un morso di ragno velenoso possono rappresentare delle esperienze di apprendimento importanti, che condizioneranno le reazioni psicofisiche ogni qualvolta ci si troverà in condizioni simili nel futuro (ad esempio alla sola vista di un ragno).
  • Componente evolutiva: alcuni studi suggeriscono che la paura dei ragni (come quella di altri animali, come i serpenti) potrebbe essere innata e legata alla sopravvivenza, quindi non a esperienze specifiche del soggetto.
  • Credenze culturali o religiose: alcuni contesti culturali o religiosi specifici, possono influenzare il modo in cui una persona percepisce l’oggetto della propria paura.
  • Influenza genetica: la predisposizione alle fobie può essere ereditata. Se un familiare soffre di aracnofobia o di altre fobie, è più probabile che anche un altro membro della famiglia possa svilupparla.
  • Ambiente familiare: crescere in un contesto che enfatizza o trasmette paure specifiche può contribuire alla formazione di una fobia, come l’aracnofobia.

Come viene diagnosticata l’aracnofobia?

Secondo il DSM-5, per diagnosticare una fobia specifica, i sintomi devono persistere per almeno sei mesi e causare un disagio significativo o interferire con la vita quotidiana. Durante la valutazione, lo specialista esaminerà la durata e l’intensità dei sintomi, oltre a raccogliere informazioni sulla storia clinica del paziente e sulle sue capacità di affrontare la situazione.

Come si può trattare l’aracnofobia?

L’aracnofobia, come altre fobie specifiche, è generalmente trattata con la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), attraverso più fasi:

1. Psicoeducazione: la persona viene messa a conoscenza dei cambiamenti fisiologici che compongono la sua paura e dei meccanismi che ne regolano l’intensità. In questa fase, si analizzano i comportamenti che mantengono l’aracnofobia nel tempo, come l’evitamento o l’uso di comportamenti protettivi. Comprendere il meccanismo della fobia aiuta il paziente a lavorare su di sé e a ridurre il senso di impotenza, rafforzando la motivazione al cambiamento.

2. Tecniche di respirazione/rilassamento: vengono insegnate strategie che aiutano a diminuire i livelli di paura e riappropriarsi della propria dimensione corporea.

3. Ristrutturazione cognitiva: attraverso il colloquio clinico e l’utilizzo di strumenti come schede e diari giornalieri, vengono individuati e messi in discussione pensieri automatici, credenze, immagini e ricordi che possono ostacolare il superamento dell’aracnofobia.

4. Esposizione alle situazioni temute: consiste nel presentare, ripetutamente e in un ambiente sicuro, la situazione o l’oggetto di cui si ha paura. La desensibilizzazione permette al paziente di sviluppare una tolleranza alla situazione spaventosa, favorendo l’acquisizione di nuovi ricordi che possono sostituire quelli angosciosi. 

Durante questa fase, si individuano gli obiettivi desiderati (possono essere molto diversi da persona a persona) e si stila una lista di situazioni evitate o affrontate con estremo disagio, per poi affrontarne una alla volta, con criteri di gradualità e sequenzialità.

Il criterio della gradualità richiede di suddividere il percorso in piccoli passi, assicurandosi che ciascuno di essi generi un livello di ansia gestibile e mai eccessivo. Ad esempio, un primo passo per una persona con aracnofobia importante e invalidante potrebbe essere quello di nominare la parola “ragno”, scriverla oppure ascoltarla. I passi successivi potrebbero includere vedere un ragno disegnato in modo stilizzato, disegnato in modo realistico, poi in foto/video. Infine, si potrebbe passare all’esposizione al ragno dal vivo.

Il criterio di sequenzialità implica che non sia consentito procedere con il passo successivo se non si è adeguatamente superato quello precedente. Ad esempio, non è possibile chiedere alla persona di toccare un ragno se prima non si è superato il passo di guardarlo nelle mani di un’altra persona, senza toccarlo.

In questo modo la persona riuscirà, in breve tempo, ad affrontare l’intera gamma delle situazioni temute fino a quando sarà in grado di raggiungere l’obiettivo finale desiderato.

5. Esposizione in immaginazione: più flessibile e utilizzabile in caso di terapie da remoto.

6. Terapie che utilizzano la realtà virtuale: la persona viene esposta gradualmente a rappresentazioni virtuali di ragni, riducendo la risposta fobica nel tempo.

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Bibliografia:

  • Terapia di esposizione alla realtà virtuale per la paura dei ragni: uno studio aperto e di fattibilità di un nuovo trattamento per l’aracnofobia di Giacobbe Andersson,Joel Hallin,Anders Tingströme di Jens Knutsson
  • Trattamento dei disturbi d’ansia. Guide per il clinico e manuali per chi soffre del disturbo. G.Andrews. Centro Scientifico Editore, 2003
  • Il manuale dell’ansia e delle preoccupazioni. La soluzione cognitivo comportamentale. David A. Clark, Aaron T. Beck. Positive Press, 2016.
  • Fondamenti di psicologia e psicoterapia cognitivo comportamentale.
  • Modelli clinici e tecniche d’intervento. G. Melli, C. Sica Erickson, 2018.
  • Erickson Advantages

La lettura è molto più di un semplice passatempo. È un potente strumento di crescita personale, che favorisce la nostra capacità di comprendere il mondo e sviluppare empatia verso gli altri. Ce ne parla la dott.ssa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

Quali sono i benefici della lettura?

La lettura coinvolge i processi psicologici, inclusi quelli cognitivi, emotivi e sociali, apportando numerosi benefici. Leggere promuove la crescita personale, favorisce la visione critica e l’empatia, ci aiuta a trovare risposte alle domande della vita, ampliando le nostre prospettive. Inoltre, ci incoraggia a ritagliarci spazi personali di “solitudine scelta” e, a differenza dei film, ci offre un ruolo più attivo nella costruzione delle storie.

Durante la lettura, il nostro cervello può percepire di aver vissuto le esperienze descritte nei libri, creando una connessione profonda con il testo.  La lettura attiva gli stessi neuroni coinvolti in altre attività, come scrivere, correre o semplicemente toccare un oggetto, rendendo l’esperienza particolarmente coinvolgente.

Recenti studi* dimostrano che la lettura è uno dei metodi più efficaci per rilassarsi. Anche solo 6 minuti di lettura al giorno possono ridurre i livelli di stress del 68%, diminuendo la frequenza cardiaca e la tensione muscolare. La lettura rappresenta un potente strumento di rilassamento, capace di generare un senso di evasione e stimolare la produzione di immagini mentali.

Infine, leggere e comprendere le emozioni dei personaggi aiuta a migliorare la nominazione, comprensione, espressione e riconoscimento delle emozioni in sé e negli altri; definisce le opportunità di comprensione dei problemi personali, e dunque crescita emotiva e guarigione; aiuta a creare una distanza di sicurezza, soprattutto con bambini e adolescenti, portando la persona indirettamente al limite delle questioni sensibili, forse troppo minacciose e dolorose da affrontare direttamente.

Attraverso l’identificazione con i personaggi delle storie, i bambini imparano a risolvere le difficoltà di amicizia, gestione della rabbia, paura, divorzio e trasferimento. Questo li aiuta a trovare soluzioni per risolvere questi problemi.

Per gli adolescenti, identificarsi coi personaggi delle storie può ridurre significativamente il senso di isolamento e alienazione, spesso presenti in questa fase della vita. La lettura di libri o storie aiuta a sviluppare una nuova visione dei problemi, stimola l’identificazione coi personaggi e favorisce la comprensione di alcune tematiche interne ed esterne. 

Libroterapia: quali libri scegliere?

Romanzi, biografie, poesie e racconti, sono tutti utili a generare riflessioni atte a favorire il benessere psicologico per ragazzi e adolescenti con la libroterapia.

La libroterapia è l’uso dei libri e della letteratura per migliorare il benessere psicologico. Si divide in due principali categorie:

1. Libroterapia clinica: utilizzata come metodologia al servizio della psicoterapia per ottenere benefici psicologici mirati.

2. Libroterapia umanistica (o umanistico-educativa): mira ad obiettivi specifici, come la prevenzione del bullismo, senza finalità di cura.

La libroterapia può essere impiegata in vari modi:

  • Condivisione di gruppo: permette di condividere con altri il senso personale ricavato dalla lettura di un testo e dare avvio ad un percorso di enpowerment.
  • Integrazione nella psicoterapia: le riflessioni derivanti dalla lettura possono essere utilizzate e integrate nel percorso psicoterapico. 

*Studio condotto dal Dr. David Lewis “Reading a Book Can Reduce Stress by 68 Percent”; “Iniziazione alla libroterapia”, di Manuela Racci.

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L’inizio del nido o della scuola materna rappresenta una fase delicata nella crescita dei bambini, caratterizzata da un mix di emozioni contrastanti come gioia, paura, grandi aspettative e apprensione. È un momento che comporta cambiamenti significativi, sia per i bambini che per i loro genitori, che devono affrontare il primo distacco. 

Ce ne parla la dott.ssa Simona Sartori, psicoterapeuta specializzata in età evolutiva, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Medical Care Torino Principe Oddone.

Come affrontare l’ingresso al nido o alla materna?

Ogni bambino vive in modo diverso l’ingresso al nido o alla materna, e nessuna reazione è sbagliata. Alcuni possono essere subito entusiasti delle nuove esperienze, mentre altri potrebbero affrontare il cambiamento con maggiore difficoltà. 

I primi giorni di asilo possono essere caratterizzati da pianti, nervosismo o atteggiamenti regressivi. Queste reazioni sono comprensibili poiché il bambino si trova ad affrontare un nuovo ambiente fisico e regole di convivenza differenti da quelle che vive in casa propria.

L’inserimento graduale che viene proposto nelle scuole ha proprio la finalità di aiutare il bambino e i genitori a scoprire e ad adattarsi a un nuova realtà  e a imparare a fidarsi delle insegnanti che si prenderanno cura del proprio bambino.

Consigli per facilitare l’inserimento del bambino

Ecco alcuni suggerimenti per rendere più facile l’inserimento del bambino al nido o alla scuola materna: 

  • Parlare del nido o della scuola dell’infanzia prima del primo giorno: raccontate al bambino come sarà la nuova routine, aiutandolo a immaginare dove pranzerà, quali bambini incontrerà. Se possibile, portatelo a vedere la struttura anche dall’esterno e fantasticate sui giochi che potrà fare quando sarà lì.
  • Utilizzate albi illustrati: gli albi illustrati che descrivono ciò che accade possono aiutare il bambino a ritrovare conferma dei sentimenti che prova.
  • Salutate sempre il vostro bambino: non andate mai via di nascosto. Salutate sempre il vostro bambino e rassicuratelo sul fatto che poi tornerete a prenderlo a fine giornata, spiegategli chi troverà all’uscita se non sarete voi.
  • Create un rituale come saluto: può essere un saluto speciale, una filastrocca, una canzoncina che lo aiuti a prevedere che subito dopo vi lascerete e il bambino verrà affidato agli insegnanti della scuola. Evitate di prolungare eccessivamente il distacco per la paura che il bambino possa soffrire.
  • Accogliete il pianto come reazione normale: il pianto è il modo in cui i bambini esprimono come si sentono. Accoglietelo con comprensione.Non vi spaventate e siate fiduciosi: i bambini hanno dei buoni strumenti innati di autoconsolazione e di adattamento.
  • Mantenete un atteggiamento positivo: la serenità dei piccoli passa attraverso noi adulti. Se vi sentite eccessivamente affaticati e preoccupati per l’inserimento al nido o per come il vostro bambino sta reagendo al cambiamento, oppure se avvertite molta ansia nel momento del distacco dal vostro bambino, non esitate a chiedere aiuto a uno specialista dell’età evolutiva per riuscire ad affrontare al meglio questa esperienza. Sono momenti molto delicati per la crescita del vostro bambino e per la costruzione della relazione genitore bambino. Dategli l’attenzione e la cura di cui necessitano.

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Il post-vacation blues, noto come depressione post vacanze, è una sindrome caratterizzata da sintomi depressivi e/o ansiosi che emergono al ritorno alla routine quotidiana dopo un periodo di vacanza. Questa condizione può colpire chiunque, ma per alcuni può essere particolarmente difficile. Ce ne parla il dott. Francesco Cuniberti, medico psichiatra, specialista in disturbi depressivi, d’ansia e di panico, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Principe Oddone a Torino.

Quali sono le cause del post-vacation blues? 

Le vacanze rappresentano per molti l’unico momento per rilassarsi e staccare la spina dalla routine quotidiana. Il ritorno alla vita di tutti i giorni, con le responsabilità e i suoi ritmi frenetici, può generare uno stato di malessere generale. Questo può accadere non solo dopo lunghi periodi di vacanza, ma anche dopo brevi pause.

Quanto dura il post-vacation blues? 

Il post vacation blues di solito dura alcune settimane, ma in alcuni casi può persistere più a lungo e rilevare problemi legati ad ansia e depressione, soprattutto in persone predisposte a questi disturbi a causa di fattori genetici e ambientali.

Come si manifesta il post vacation blues?

I sintomi del post-vacation blues possono essere sia mentali che fisici e comprendono:

Sintomi mentali

  • Apatia/appiattimento delle emozioni
  • Sensazione di stordimento
  • Difficoltà di concentrazione
  • Mancanza di iniziativa
  • Irritabilità/nervosismo
  • Aumento d’ansia, malinconia, demoralizzazione, tristezza, sbalzi d’umore e senso di vuoto.

Sintomi fisici

  • Spossatezza
  • Dolori o tensione muscolare
  • Affaticamento ingiustificato
  • Cefalea
  • Calo della qualità del sonno/insonnia
  • Problemi di digestione.

Si può prevenire il post vacation blues?

Per prevenire il post vacation blues, si possono adottare alcuni accorgimenti:

  • Preparazione prima della vacanza: rallentare i ritmi prima di partire per migliorare l’organizzazione del viaggio (per favorire un periodo vacanziero più rilassante e senza imprevisti che possono causare un rientro improvviso a cui non si era “preparati”). 
  • Rientro graduale: tornare qualche giorno prima di riprendere la propria routine, la scuola o il lavoro, per organizzarsi e prepararsi sia fisicamente che mentalmente alla ripresa delle attività (per evitare sintomi di carattere ansioso legati alla previsione della ripresa immediata delle attività che ci aspettano a discapito del riposo e del relax degli ultimi giorni).
  • Lasciare la casa in ordine prima di partire per un rientro più sereno, simile a un “ben tornato” (rientrare in una casa in disordine implicherebbe togliere tempo al momento di “assestamento” sopra descritto).
  • Riprendere una sana alimentazione e curare la forma fisica e la qualità del sonno.
  • Continuare a dedicarsi a momenti di relax e svago anche dopo il rientro dalle vacanze per prendere uno spazio solo per la cura del proprio corpo ma anche per la mente svolgendo attività piacevoli, gratificanti, facendo sport e coltivando le relazioni con familiari e amici.
  • Riprendere le attività a piccoli passi, in maniera graduale, per evitare un cambio repentino di ritmo (dopo alcuni giorni/settimane di relax, sia il nostro corpo che la nostra mente si sono abituati a funzionare con ritmi a cadenza differenti).

Come affrontare i sintomi del post vacation blues?

I sintomi del post vacation blues possono presentarsi anche durante gli ultimi giorni di vacanza. In questo caso si possono adottare tecniche di rilassamento e meditazione e di mindfulness.

Pianificare le attività scolastiche o lavorative durante gli ultimi giorni di vacanza può favorire un rientro più graduale. È consigliabile contattare uno psicologo e psicoterapeuta (anche con un incontro a distanza), in caso di sintomi persistenti come:

  • Cambiamenti nel sonno che causano sonnolenza diurna o difficoltà nello svolgimento dei nostri compiti giornalieri
  • Calo di motivazione/voglia o per difficoltà a concentrarci
  • Preoccupazioni eccessive 
  • Umore basso per la maggior parte del giorno
  • Sbalzi d’umore improvvisi
  • Cambiamenti nelle relazioni con gli altri
  • Sintomi fisici come stanchezza, spossatezza, cefalea, sintomi gastrointestinali o altro, non comprensibili o giustificati da qualche malattia medica riscontrata.

Se la sintomatologia è intensa, una visita psichiatrica può essere di grande aiuto per affrontare il post-vacation blues. Consultare uno specialista permette di ottenere una valutazione approfondita e di ricevere un piano di trattamento personalizzato, che potrebbe includere terapie farmacologiche, psicoterapia o una combinazione di entrambe, fondamentale per gestire efficacemente i sintomi e migliorare il benessere generale.

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Negli ultimi anni, l’importanza del sonno è diventata sempre più evidente, anche per gli atleti. Il riposo adeguato non solo migliora le prestazioni fisiche e mentali, ma è anche fondamentale per prevenire infortuni e promuovere un recupero ottimale. Nonostante ciò, molti atleti non dormono abbastanza, con conseguenze negative sulle loro prestazioni. La dott.ssa Elisa Morrone, psicologa e psicoterapeuta, neuropsicologa ed esperta in disturbi del sonno di Humanitas  PsicoCare, ci spiega perché il sonno è così importante per gli atleti e offre consigli preziosi per migliorare la qualità del riposo.

Perché il sonno è importante per gli atleti?

  • Migliora le prestazioni fisiche: dormire adeguatamente è essenziale per il recupero muscolare e la rigenerazione cellulare. Gli atleti che dormono bene vedono miglioramenti nella resistenza, nella velocità e nella forza.
  • Migliora la vigilanza e i tempi di reazione: la mancanza di sonno può compromettere l’attenzione e i tempi di reazione. Alcuni studi dimostrano che anche una sola notte di privazione del sonno può avere effetti negativi.  
  • Migliora le funzioni cognitive: il sonno ha un effetto benefico sulla corteccia prefrontale, l’area del nostro cervello coinvolta nelle capacità più fini: programmazione, ragionamento, processi decisionali, sviluppo di strategie funzionali per risolvere i problemi e raggiungere obiettivi.
  • Favorire l’apprendimento e la memoria: il sonno è fondamentale per il consolidamento della memoria e l’apprendimento di nuove abilità.
  • Previene gli infortuni: un sonno insufficiente aumenta il rischio di infortuni. Gli atleti stanchi sono più inclini a errori e incidenti durante l’allenamento e le competizioni.
  • Supporta la salute mentale: il sonno ha un ruolo cruciale nella gestione dell’ansia e dello stress che possono influenzare negativamente le prestazioni sportive. Durante il sonno il cervello esegue una manutenzione costante e fine che coinvolge anche i centri delle emozioni e permette di ripartire più lucidi e meno emotivi al mattino. Una notte di sonno ridotto o disturbato, aumenta l’irascibilità, l’ansia da prestazione e la fatica nel trovare soluzioni adeguate.

Quanto sonno serve a un atleta?

Gli adulti generalmente necessitano di 7-9 ore di sonno per notte, ma gli atleti potrebbero aver bisogno di più riposo per recuperare dagli allenamenti intensi. Dormire 8-10 ore per notte è spesso raccomandato per ottimizzare le prestazioni e il recupero. È importante saper sempre riconoscere il proprio fabbisogno di sonno per poter essere efficienti il giorno dopo.

Quali sono i disturbi del sonno più comuni negli atleti?

Un sonno insufficiente può avere un impatto sul metabolismo, sulla funzione endocrina, sui risultati atletici e cognitivi, arrivando ad aumentare lo sforzo percepito durante l’esercizio. Secondo studi recenti, i principali disturbi del sonno negli atleti sono:

  • Insonnia: la difficoltà a dormire può essere aggravata dalla pressione delle competizioni e dalla routine frenetica degli allenamenti.
  • Apnea del sonno: gli atleti con un’elevata massa corporea, come i giocatori di football, sono più inclini all’apnea ostruttiva del sonno.
  • Disturbi del ritmo circadiano: prevalenti nella fase posticipata del sonno, caratterizzati da difficoltà ad addormentarsi presto la sera. Solitamente, l’addormentamento avviene dopo le 2-3 di notte, causando notevoli ripercussioni durante la giornata. Questo problema è particolarmente accentuato quando, a causa degli allenamenti intensi, è necessario svegliarsi presto, portando a una significativa deprivazione di sonno.

Consigli per migliorare la qualità del sonno

Alcune strategie che possono aiutare a migliorare il sonno sono:

  • Creare una routine del sonno: andare a letto e svegliarsi alla stessa ora ogni giorno aiuta a regolare l’orologio biologico.
  • Ambiente di sonno confortevole: assicurarsi che la camera da letto sia buia, silenziosa e fresca. Utilizzare un materasso e cuscini confortevoli.
  • Limitare l’uso di dispositivi elettronici: evitare l’uso di telefoni, tablet e computer almeno un’ora prima di andare a letto, poiché la luce blu emessa da questi dispositivi può interferire con la produzione di melatonina, l’ormone del sonno.
  • Alimentazione e idratazione: evitare pasti pesanti e caffeina prima di dormire. Assicurarsi di essere ben idratati durante il giorno.
  • Tecniche di rilassamento: praticare tecniche di rilassamento come lo yoga, la meditazione o il respiro profondo può aiutare a preparare il corpo e la mente al sonno.

Quali sono i sintomi di un sonno insufficiente per un atleta? 

I segni includono:

  • Stanchezza costante
  • Difficoltà a concentrarsi
  • Diminuzione delle prestazioni
  • Irritabilità  
  • Maggiore suscettibilità agli infortuni.

Come può il sonno influenzare il recupero da un infortunio?

Il sonno promuove la guarigione dei tessuti e la rigenerazione cellulare. Un sonno di qualità può accelerare il recupero e ridurre i tempi di recupero.

Il sonno diurno può sostituire il sonno notturno per gli atleti?

Sebbene i sonnellini possano aiutare a recuperare la mancanza di sonno, non possono sostituire completamente il sonno notturno. È importante mantenere una routine di sonno notturno regolare per garantire un riposo adeguato e continuo.

In linea con l’importanza che riveste il sonno nella vita, la National Collegiate Athletics Association (NCAA) ha deciso di includere la valutazione del sonno degli atleti come screening di base per il benessere mentale e fisico

Il sonno continua a dimostrarsi fondamentale per l’esistenza umana. In un mondo in continua evoluzione e ricco di stimoli, sarebbe necessario rivalutare il ruolo che gli attribuiamo nella quotidianità. Purtroppo, gli studi indicano che, in media, le persone dormono almeno un’ora in meno rispetto a circa 5-6 anni fa, e sicuramente questo non è un bene per l’organismo, anche se dotato di meccanismi di “riparazione”.

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Fonti

  • Charest J, Grandner MA. Sleep and Athletic Performance: Impacts on Physical Performance, Mental Performance, Injury Risk and Recovery, and Mental Health. Sleep Med Clin. 2020 Mar;15(1):41-57. doi: 10.1016/j.jsmc.2019.11.005. PMID: 32005349; PMCID: PMC9960533.
  • Fullagar HHK, Vincent GE, McCullough M, Halson S, Fowler P. Sleep and Sport Performance. J Clin Neurophysiol. 2023 Jul 1;40(5):408-416. doi: 10.1097/WNP.0000000000000638. Epub 2023 Mar 16. PMID: 36930212.

La depressione è un disturbo dell’umore caratterizzato da umore deflesso, sentimenti di tristezza, pessimismo, perdita di interesse o piacere, e riduzione della capacità di provare emozioni. Questi sintomi sono spesso accompagnati da manifestazioni fisiche e cognitive, come stanchezza fisica, rallentamento psico-motorio, alterazioni dell’attenzione, della concentrazione e della memoria, alterazioni del sonno e dell’alimentazione. Nelle forme più gravi, possono comparire segnali psicotici come deliri di colpa e di rovina. La depressione può influenzare in modo significativo la vita quotidiana e la capacità di funzionamento dell’individuo.

Un luogo comune è che andare in vacanza sia sufficiente per migliorare l’umore. Tuttavia, sebbene prendersi una pausa dal lavoro, dalla vita frenetica e dalla routine quotidiana, possa essere utile, le vacanze non sempre risolvono i problemi psicologici, come l’ansia e la depressione. Anzi, possono essere un periodo difficile ed emotivamente faticoso.

Ce ne parla il dott. Francesco Cuniberti, medico psichiatra, specialista in disturbi depressivi, d’ansia e di panico, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Principe Oddone a Torino.

Perché le vacanze possono essere difficili?

L’arrivo delle vacanze porta con sé una serie di eventi, interazioni sociali, spese e cambiamenti nelle abitudini, insieme a elevate aspettative di felicità. Alcune persone possono sviluppare una forma depressiva nota come disturbo affettivo stagionale (SAD), caratterizzata dall’insorgenza e remissione di episodi depressivi in specifici periodi dell’anno.

Il SAD deriva generalmente da un disturbo depressivo maggiore con “con andamento stagionale”, in cui i sintomi depressivi si manifestano con l’inizio di una stagione e si attenuano con il cambiamento stagionale successivo. Anche fattori esterni come l’intensità luminosa o condizioni metereologiche, come le ondate di caldo, oltre ad avere un impatto sulla salute fisica, possono peggiorare le condizioni di salute mentale. Le alte temperature e l’umidità sono collegate ad un aumento di sintomi nelle persone con depressione, disturbo d’ansia generalizzato e disturbo bipolare.

Al rientro dalle vacanze, alcune persone possono sperimentare il post-vacation blues (o post-holidays blues), una risposta psico-fisica al ritorno alla routine quotidiana, che spesso è diversa dai ritmi tranquilli e rilassati delle vacanze. Solitamente, questo stato è transitorio e non evolve in un vero episodio depressivo.

Come affrontare le vacanze in modo sereno?

La chiave per vivere le vacanze serenamente è mantenere un equilibrio durante tutto l’anno. È importante ridurre lo stress quotidiano, prendersi del tempo per se stessi, dedicarsi ai propri hobby, fare sport e trascorrere tempo con le persone care. Spesso si arriva alle vacanze stanchi, stressati, con un carico d’aspettative di recupero irrealistiche, con il rischio, nelle persone predisposte, che possano comparire problemi d’ansia e d’umore che influenzeranno non solo il periodo di vacanza ma anche il rientro a casa.

Arrivare alle vacanze già riposati, evitando di accumulare stress eccessivo durante l’anno, è fondamentale per prevenire questi problemi. In caso di necessità, è utile rivolgersi a specialisti per ricevere il giusto supporto.  

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Negli ultimi anni, i telefoni cellulari sono diventati indispensabili nella vita quotidiana, rivoluzionando non solo il modo in cui ci relazioniamo con gli altri, ma anche le dinamiche lavorative e di intrattenimento. Ci permettono di telefonare, inviare messaggi, rimanere informati, navigare sui social media, scattare foto, leggere e-mail e molto altro.

Tuttavia, l’uso spasmodico del cellulare può avere anche conseguenze negative, come tutti i modelli di consumo che creano dipendenza, e portare alla nomofobia, ovvero la paura di restare senza cellulare.

Ce ne parla la dott.ssa Simona Sartori, psicoterapista specializzata in età evolutiva, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Medical Care Torino Principe Oddone.

Che cos’è la nomofobia?

La nomofobia (No MObile PHone PhoBIA) si riferisce alla preoccupazione o alla paura che le persone provano quando sono senza il cellulare o non possono usarlo. Il termine è stato coniato per la prima volta nel 2008.

È un disturbo che interessa tutte le fasce di età, ma in particolare sono gli adolescenti e i giovani adulti ad utilizzare lo smartphone in tutti gli ambiti della propria vita: scuola, relazioni di amicizia e sentimentali, divertimento, interessi, intrattenimento.

In una ricerca del 2020 condotta dal professore dell’Università del Connecticut David Greenfield sulla correlazione tra uso di smartphone e sintomi ansiosi tra gli adolescenti è emerso che la nomofobia è significativamente associata a depressione, ansia e scarsa qualità della vita. Su 1386 adolescenti, 569 (41,05%), 303 (21,86%) e 82 (5,1%) presentano rispettivamente una nomofobia lieve, moderata e grave. Il fenomeno sembrerebbe interessare soprattutto gli adolescenti maschi. Questo confermerebbe quanto la dipendenza da smartphone abbia effetti sulla salute psico-fisica dei ragazzi.

Nomofobia: come si manifesta nei giovani 

Gli adolescenti e i giovani adulti con nomofobia hanno la paura costante di perdere qualcosa (come messaggi, eventi e post sui social media) e si sentono ansiosi quando dimenticano il proprio smartphone o riscontrano problemi di batteria o di connessione. Il loro interesse principale è ciò che succede nel mondo virtuale più che in quello reale, dimostrando poco coinvolgimento nelle attività scolastiche, nello studio (pur avendo scelto il percorso di studi universitari) nelle relazioni con i propri amici. Non resistono all’impulso di utilizzarlo durante le lezioni o mentre dovrebbero e vorrebbero studiare e vivono nel costante bisogno di controllo su ciò che viene “pubblicato” su TiK Tok e nell’ansia di “perdersi qualcosa” di importante. Invece di essere uno strumento utile che scelgono di utilizzare con consapevolezza, diventa uno strumento da cui dipendono e che attiva in loro veri e propri sintomi di astinenza.

Si può parlare di dipendenza da cellulare?

Sì, perché  si instaura un circolo vizioso in cui aumenta il bisogno di stare al cellulare e quindi si attivano dei comportamenti disfunzionali: pensieri ricorrenti indirizzati verso il cellulare, sintomi di astinenza (nel caso in cui non si possa utilizzare il cellulare), ansia, irritabilità, compromissione delle relazioni sociali e affettive.

Come emerge in una ricerca del 2002 sempre condotta dal professore David Greenfield, l’attaccamento allo smartphone è molto simile a tutte le altre dipendenze, in particolare a quella del giocatore d’azzardo. L’utilizzo dello smartphone attiva la produzione di dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito cerebrale della ricompensa, Quando compare una notifica sul cellulare sale il livello di dopamina, e la spinta a trovare qualcosa di gratificante e sorprendente, indipendentemente da quello che il messaggio effettivamente comunicherà. Si attiva un continuo controllo per verificare se arriverà davvero qualcosa di piacevole e sorprendente come succede al giocatore di azzardo che è in continua attesa di una eccitante e sorprendente vincita.

Quali potrebbero essere i sintomi di nomofobia?

Alcuni degli indicatori di nomofobia sono:

  1. Incapacità di spegnere il dispositivo mobile.  
  2. Disagio all’idea di essere fisicamente distanti dal dispositivo mobile.
  3. Preoccupazione di non poter chiedere aiuto in assenza del dispositivo.
  4. Cercare sollievo dalle frustrazioni della vita reale nel mondo virtuale.
  5. Scarso interesse e capacità progettuali sulla vita reale con conseguente senso di ansia, di angoscia  e depressione.

Quali sono i fattori di rischio per la nomofobia?

Si ritiene che tra i fattori di rischio che possano contribuire allo sviluppo della nomofobia ci sia la difficoltà dei ragazzi di sentirsi all’altezza di vivere le relazioni interpersonali e di realizzare i propri compiti evolutivi nella vita reale. Si sviluppa come una dipendenza a tutti gli effetti e per questo di difficile gestione. Più i ragazzi si rifugiano nel mondo virtuale, più si sentono e diventano incapaci di affrontare le frustrazioni, le delusioni, le gioie e le soddisfazioni del mondo reale.

Come può essere trattata la nomofobia?

Il trattamento della nomofobia deve partire da un primo riconoscimento da parte del ragazzo di quanto la nomofobia lo renda infelice e incapace di realizzare un progetto personale di crescita soddisfacente. Oppure possono essere i genitori a richiedere un supporto su come gestire le difficoltà dei figli rispetto all’utilizzo del cellulare.

Ci si può rivolgere ad uno psicoterapeuta specializzato in età evolutiva che potrà aiutare, attraverso l’utilizzo di tecniche specifiche, a comprendere e a modificare il proprio rapporto con lo smartphone e con gli altri e a costruire relazioni migliori con le persone e con se stessi.

In alcuni casi potrebbe anche essere necessario una terapia farmacologica, ma sarà uno psichiatra a dare le indicazioni più consone al caso specifico.

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Bibliografia:

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/33223716

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/29502754

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7504166

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC10823380

https://www.mdpi.com/2254-9625/13/8/107

L’odontofobia, chiamata anche stomatofobia, rappresenta la paura irrazionale, morbosa e incontrollata del dentista. Il paziente odontofobico sperimenta livelli di tensione e paure elevate. Tale disturbo può essere: 

1. lieve: detta anche “ansia dentale”, è la più frequente tra la popolazione;

2. moderata: chiamata “paura del dentista”;

3. grave: la vera “odontofobia”, decisamente più rara e difficile da gestire da parte del dentista.

Ce ne parla la dott.ssa Ilaria Salvaderi, psicologa e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare.

Come si manifesta l’odontofobia?

La paura del dentista può variare da una condizione di ansia crescente (con l’avvicinarsi della visita) ad una vera e propria fobia (che porta il paziente non solo a non effettuare visite dentistiche ma a provare disagio anche solo nel parlarne). Il paziente odontofobico può sperimentare sintomatologia ansiosa dinanzi allo scenario: cioè immaginando, prospettando o pensando allo studio di un dentista e agli strumenti da lui utilizzati L’odontofobia è una fobia specifica situazionale, rientrante tra i disturbi d’ansia (DSM V-TR).

Chi soffre di odontofobia trova difficile affrontare una seduta dentistica, nonostante gli sforzi di autocontrollo. La reazione può manifestarsi con crisi fobiche, con sintomi come battito accelerato, nausea o sudorazione eccessiva; tremori, senso di irrealtà, mal di testa, brividi e di calore. Tra i comportamenti osservabili potrebbero esserci l’arrivo in anticipo allo studio, un incremento ingiustificato della sintomatologia ansiosa all’arrivo in studio dentistico, blocchi (freezing) durante la seduta (ad esempio, mancata risposta a richieste semplici), l’assunzione preventiva di antidolorifici (prima della seduta). Il paziente odontofobico, proprio a causa della sintomatologia sofferta, tende a mettere in atto comportamenti di evitamento, spesso inconsapevolmente: tende a rimandare continuamente le cure dentali, affidandosi spesso a terapie alternative. Tuttavia, queste condotte di evitamento conducono ad un incremento della paura e della sintomatologia associata, complicando ulteriormente la situazione psicopatologica e la gestione medico-dentistica.

Cosa causa l’odontofobia?

L’odontofobia può presentarsi come conseguenza di una precedente esperienza negativa o traumatica con un dentista o essere del tutto irrazionale.

Chi soffre di odontofobia spesso presenta problematiche pregresse relative all’ansia o a disturbi depressivi. Le cause possono essere ricondotte a: 

  • Problemi pregressi dello spettro ansioso: diversi studi hanno dimostrato un legame tra questi disturbi e la paura del dentista
  • Alta sensibilità al dolore: è collegata a maggiori probabilità di sviluppare la fobia
  • Condizionamento classico o apprendimento osservativo: chi ha avuto esperienze dolorose dal dentista risulta maggiormente esposto al rischio di sviluppare paura del dentista e di evitare le cure odontoiatriche tempestive
  • Aver osservato figure vicine che temevano il dentista, la visita dentistica o una procedura dentistica specifica: l’odontofobico può aver interiorizzato il loro modello comportamentale.  

Come si cura l’odontofobia?

La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) è il trattamento d’elezione per i disturbi d’ansia, tra cui rientrano le fobie specifiche quali l’odontofobia. La terapia CBT è finalizzata a identificare e ristrutturare le credenze negative e i pensieri automatici che alimentano la paura del dentista. Inoltre, insegna al paziente strategie di coping più adattive e funzionali. Tra le tecniche più efficaci risultano la desensibilizzazione sistematica e il modeling; La terapia espositiva è la strategia terapeutica efficace per trattare l’odontofobia, consentendo al paziente di affrontare gradualmente la paura associata al dentista e ai trattamenti dentali. La pratica espositiva può prevedere i seguenti tipi di intervento

1. Esposizione in vivo 

2. Esposizione immaginativa

3. Esposizione tramite realtà virtuale (VR) o realtà aumentata (AR).

Come gestire la paura e prendersi cura della propria salute orale in serenità?

Ecco alcuni consigli pratici:

  • Non andare soli dal dentista: la presenza di una persona cara può aiutare a mantenere uno stato d’animo più rilassato.
  • Fissare appuntamenti in orari tranquilli: una minore affluenza riduce l’ansia legata all’attesa
  • Comunicare con il proprio dentista, instaurando una relazione di fiducia con il professionista. 

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