L’inizio del nido o della scuola materna rappresenta una fase delicata nella crescita dei bambini, caratterizzata da un mix di emozioni contrastanti come gioia, paura, grandi aspettative e apprensione. È un momento che comporta cambiamenti significativi, sia per i bambini che per i loro genitori, che devono affrontare il primo distacco.
Come affrontare l’ingresso al nido o alla materna?
Ogni bambino vive in modo diverso l’ingresso al nido o alla materna, e nessuna reazione è sbagliata. Alcuni possono essere subito entusiasti delle nuove esperienze, mentre altri potrebbero affrontare il cambiamento con maggiore difficoltà.
I primi giorni di asilo possono essere caratterizzati da pianti, nervosismo o atteggiamenti regressivi. Queste reazioni sono comprensibili poiché il bambino si trova ad affrontare un nuovo ambiente fisico e regole di convivenza differenti da quelle che vive in casa propria.
L’inserimento graduale che viene proposto nelle scuole ha proprio la finalità di aiutare il bambino e i genitori a scoprire e ad adattarsi a un nuova realtà e a imparare a fidarsi delle insegnanti che si prenderanno cura del proprio bambino.
Consigli per facilitare l’inserimento del bambino
Ecco alcuni suggerimenti per rendere più facile l’inserimento del bambino al nido o alla scuola materna:
Parlare del nido o della scuola dell’infanzia prima del primo giorno: raccontate al bambino come sarà la nuova routine, aiutandolo a immaginare dove pranzerà, quali bambini incontrerà. Se possibile, portatelo a vedere la struttura anche dall’esterno e fantasticate sui giochi che potrà fare quando sarà lì.
Utilizzate albi illustrati: gli albi illustrati che descrivono ciò che accade possono aiutare il bambino a ritrovare conferma dei sentimenti che prova.
Salutate sempre il vostro bambino: non andate mai via di nascosto. Salutate sempre il vostro bambino e rassicuratelo sul fatto che poi tornerete a prenderlo a fine giornata, spiegategli chi troverà all’uscita se non sarete voi.
Create un rituale come saluto: può essere un saluto speciale, una filastrocca, una canzoncina che lo aiuti a prevedere che subito dopo vi lascerete e il bambino verrà affidato agli insegnanti della scuola. Evitate di prolungare eccessivamente il distacco per la paura che il bambino possa soffrire.
Accogliete il pianto come reazione normale: il pianto è il modo in cui i bambini esprimono come si sentono. Accoglietelo con comprensione.Non vi spaventate e siate fiduciosi: i bambini hanno dei buoni strumenti innati di autoconsolazione e di adattamento.
Mantenete unatteggiamento positivo: la serenità dei piccoli passa attraverso noi adulti. Se vi sentite eccessivamente affaticati e preoccupati per l’inserimento al nido o per come il vostro bambino sta reagendo al cambiamento, oppure se avvertite molta ansia nel momento del distacco dal vostro bambino, non esitate a chiedere aiuto a uno specialista dell’età evolutiva per riuscire ad affrontare al meglio questa esperienza. Sono momenti molto delicati per la crescita del vostro bambino e per la costruzione della relazione genitore bambino. Dategli l’attenzione e la cura di cui necessitano.
Il post-vacation blues, noto come depressione post vacanze, è una sindrome caratterizzata da sintomi depressivi e/o ansiosi che emergono al ritorno alla routine quotidiana dopo un periodo di vacanza. Questa condizione può colpire chiunque, ma per alcuni può essere particolarmente difficile. Ce ne parla il dott.Francesco Cuniberti, medico psichiatra, specialista in disturbi depressivi, d’ansia e di panico, pressoHumanitas PsicoCare eHumanitas Principe Oddone a Torino.
Quali sono le cause delpost-vacation blues?
Le vacanze rappresentano per molti l’unico momento per rilassarsi e staccare la spina dalla routine quotidiana. Il ritorno alla vita di tutti i giorni, con le responsabilità e i suoi ritmi frenetici, può generare uno stato di malessere generale. Questo può accadere non solo dopo lunghi periodi di vacanza, ma anche dopo brevi pause.
Quanto dura ilpost-vacation blues?
Il post vacation blues di solito dura alcune settimane, ma in alcuni casi può persistere più a lungo e rilevare problemi legati ad ansia e depressione, soprattutto in persone predisposte a questi disturbi a causa di fattori genetici e ambientali.
Come si manifesta il post vacation blues?
I sintomi del post-vacation blues possono essere sia mentali che fisici e comprendono:
Sintomi mentali
Apatia/appiattimento delle emozioni
Sensazione di stordimento
Difficoltà di concentrazione
Mancanza di iniziativa
Irritabilità/nervosismo
Aumento d’ansia, malinconia, demoralizzazione, tristezza, sbalzi d’umore e senso di vuoto.
Sintomi fisici
Spossatezza
Dolori o tensione muscolare
Affaticamento ingiustificato
Cefalea
Calo della qualità del sonno/insonnia
Problemi di digestione.
Si può prevenire il post vacation blues?
Per prevenire il post vacation blues, si possono adottare alcuni accorgimenti:
Preparazione prima della vacanza: rallentare i ritmi prima di partire per migliorare l’organizzazione del viaggio (per favorire un periodo vacanziero più rilassante e senza imprevisti che possono causare un rientro improvviso a cui non si era “preparati”).
Rientro graduale: tornare qualche giorno prima di riprendere la propria routine, la scuola o il lavoro, per organizzarsi e prepararsi sia fisicamente che mentalmente alla ripresa delle attività (per evitare sintomi di carattere ansioso legati alla previsione della ripresa immediata delle attività che ci aspettano a discapito del riposo e del relax degli ultimi giorni).
Lasciare la casa in ordine prima di partire per un rientro più sereno, simile a un “ben tornato” (rientrare in una casa in disordine implicherebbe togliere tempo al momento di “assestamento” sopra descritto).
Riprendere una sana alimentazione e curare la forma fisica e la qualità del sonno.
Continuare a dedicarsi a momenti di relax e svago anche dopo il rientro dalle vacanze per prendere uno spazio solo per la cura del proprio corpo ma anche per la mente svolgendo attività piacevoli, gratificanti, facendo sport e coltivando le relazioni con familiari e amici.
Riprendere le attività a piccoli passi, in maniera graduale, per evitare un cambio repentino di ritmo (dopo alcuni giorni/settimane di relax, sia il nostro corpo che la nostra mente si sono abituati a funzionare con ritmi a cadenza differenti).
Come affrontare i sintomi del post vacation blues?
I sintomi del post vacation blues possono presentarsi anche durante gli ultimi giorni di vacanza. In questo caso si possono adottare tecniche di rilassamento e meditazione e di mindfulness.
Pianificare le attività scolastiche o lavorative durante gli ultimi giorni di vacanza può favorire un rientro più graduale. È consigliabile contattare uno psicologo e psicoterapeuta (anche con un incontro a distanza), in caso di sintomi persistenti come:
Cambiamenti nel sonno che causano sonnolenza diurna o difficoltà nello svolgimento dei nostri compiti giornalieri
Calo di motivazione/voglia o per difficoltà a concentrarci
Preoccupazioni eccessive
Umore basso per la maggior parte del giorno
Sbalzi d’umore improvvisi
Cambiamenti nelle relazioni con gli altri
Sintomi fisici come stanchezza, spossatezza, cefalea, sintomi gastrointestinali o altro, non comprensibili o giustificati da qualche malattia medica riscontrata.
Se la sintomatologia è intensa, una visita psichiatrica può essere di grande aiuto per affrontare il post-vacation blues. Consultare uno specialista permette di ottenere una valutazione approfondita e di ricevere un piano di trattamento personalizzato, che potrebbe includere terapie farmacologiche, psicoterapia o una combinazione di entrambe, fondamentale per gestire efficacemente i sintomi e migliorare il benessere generale.
Negli ultimi anni, l’importanza del sonno è diventata sempre più evidente, anche per gli atleti. Il riposo adeguato non solo migliora le prestazioni fisiche e mentali, ma è anche fondamentale per prevenire infortuni e promuovere un recupero ottimale. Nonostante ciò, molti atleti non dormono abbastanza, con conseguenze negative sulle loro prestazioni. La dott.ssaElisa Morrone, psicologa e psicoterapeuta, neuropsicologa ed esperta in disturbi del sonno di Humanitas PsicoCare, ci spiega perché il sonno è così importante per gli atleti e offre consigli preziosi per migliorare la qualità del riposo.
Perché il sonno è importante per gli atleti?
Migliora le prestazioni fisiche: dormire adeguatamente è essenziale per il recupero muscolare e la rigenerazione cellulare. Gli atleti che dormono bene vedono miglioramenti nella resistenza, nella velocità e nella forza.
Migliora la vigilanza e i tempi di reazione: la mancanza di sonno può compromettere l’attenzione e i tempi di reazione. Alcuni studi dimostrano che anche una sola notte di privazione del sonno può avere effetti negativi.
Migliora le funzioni cognitive: il sonno ha un effetto benefico sulla corteccia prefrontale, l’area del nostro cervello coinvolta nelle capacità più fini: programmazione, ragionamento, processi decisionali, sviluppo di strategie funzionali per risolvere i problemi e raggiungere obiettivi.
Favorire l’apprendimento e la memoria: il sonno è fondamentale per il consolidamento della memoria e l’apprendimento di nuove abilità.
Previene gli infortuni: un sonno insufficiente aumenta il rischio di infortuni. Gli atleti stanchi sono più inclini a errori e incidenti durante l’allenamento e le competizioni.
Supporta la salute mentale: il sonno ha un ruolo cruciale nella gestione dell’ansia e dello stress che possono influenzare negativamente le prestazioni sportive. Durante il sonno il cervello esegue una manutenzione costante e fine che coinvolge anche i centri delle emozioni e permette di ripartire più lucidi e meno emotivi al mattino. Una notte di sonno ridotto o disturbato, aumenta l’irascibilità, l’ansia da prestazione e la fatica nel trovare soluzioni adeguate.
Quanto sonno serve a un atleta?
Gli adulti generalmente necessitano di 7-9 ore di sonno per notte, ma gli atleti potrebbero aver bisogno di più riposo per recuperare dagli allenamenti intensi. Dormire 8-10 ore per notte è spesso raccomandato per ottimizzare le prestazioni e il recupero. È importante saper sempre riconoscere il proprio fabbisogno di sonno per poter essere efficienti il giorno dopo.
Quali sono i disturbi del sonno più comuni negli atleti?
Un sonno insufficiente può avere un impatto sul metabolismo, sulla funzione endocrina, sui risultati atletici e cognitivi, arrivando ad aumentare lo sforzo percepito durante l’esercizio. Secondo studi recenti, i principali disturbi del sonno negli atleti sono:
Insonnia: la difficoltà a dormire può essere aggravata dalla pressione delle competizioni e dalla routine frenetica degli allenamenti.
Apnea del sonno: gli atleti con un’elevata massa corporea, come i giocatori di football, sono più inclini all’apnea ostruttiva del sonno.
Disturbi del ritmo circadiano: prevalenti nella fase posticipata del sonno, caratterizzati da difficoltà ad addormentarsi presto la sera. Solitamente, l’addormentamento avviene dopo le 2-3 di notte, causando notevoli ripercussioni durante la giornata. Questo problema è particolarmente accentuato quando, a causa degli allenamenti intensi, è necessario svegliarsi presto, portando a una significativa deprivazione di sonno.
Consigli per migliorare la qualità del sonno
Alcune strategie che possono aiutare a migliorare il sonno sono:
Creare una routine del sonno: andare a letto e svegliarsi alla stessa ora ogni giorno aiuta a regolare l’orologio biologico.
Ambiente di sonno confortevole: assicurarsi che la camera da letto sia buia, silenziosa e fresca. Utilizzare un materasso e cuscini confortevoli.
Limitare l’uso di dispositivi elettronici: evitare l’uso di telefoni, tablet e computer almeno un’ora prima di andare a letto, poiché la luce blu emessa da questi dispositivi può interferire con la produzione di melatonina, l’ormone del sonno.
Alimentazione e idratazione: evitare pasti pesanti e caffeina prima di dormire. Assicurarsi di essere ben idratati durante il giorno.
Tecniche di rilassamento: praticare tecniche di rilassamento come lo yoga, la meditazione o il respiro profondo può aiutare a preparare il corpo e la mente al sonno.
Quali sono i sintomi di un sonno insufficiente per un atleta?
I segni includono:
Stanchezza costante
Difficoltà a concentrarsi
Diminuzione delle prestazioni
Irritabilità
Maggiore suscettibilità agli infortuni.
Come può il sonno influenzare il recupero da un infortunio?
Il sonno promuove la guarigione dei tessuti e la rigenerazione cellulare. Un sonno di qualità può accelerare il recupero e ridurre i tempi di recupero.
Il sonno diurno può sostituire il sonno notturno per gli atleti?
Sebbene i sonnellini possano aiutare a recuperare la mancanza di sonno, non possono sostituire completamente il sonno notturno. È importante mantenere una routine di sonno notturno regolare per garantire un riposo adeguato e continuo.
In linea con l’importanza che riveste il sonno nella vita, la National Collegiate Athletics Association (NCAA) ha deciso di includere la valutazione del sonno degli atleti come screening di base per il benessere mentale e fisico.
Il sonno continua a dimostrarsi fondamentale per l’esistenza umana. In un mondo in continua evoluzione e ricco di stimoli, sarebbe necessario rivalutare il ruolo che gli attribuiamo nella quotidianità. Purtroppo, gli studi indicano che, in media, le persone dormono almeno un’ora in meno rispetto a circa 5-6 anni fa, e sicuramente questo non è un bene per l’organismo, anche se dotato di meccanismi di “riparazione”.
Charest J, Grandner MA. Sleep and Athletic Performance: Impacts on Physical Performance, Mental Performance, Injury Risk and Recovery, and Mental Health. Sleep Med Clin. 2020 Mar;15(1):41-57. doi: 10.1016/j.jsmc.2019.11.005. PMID: 32005349; PMCID: PMC9960533.
Fullagar HHK, Vincent GE, McCullough M, Halson S, Fowler P. Sleep and Sport Performance. J Clin Neurophysiol. 2023 Jul 1;40(5):408-416. doi: 10.1097/WNP.0000000000000638. Epub 2023 Mar 16. PMID: 36930212.
La depressione è un disturbo dell’umore caratterizzato da umore deflesso, sentimenti di tristezza, pessimismo, perdita di interesse o piacere, e riduzione della capacità di provare emozioni. Questi sintomi sono spesso accompagnati da manifestazioni fisiche e cognitive, come stanchezza fisica, rallentamento psico-motorio, alterazioni dell’attenzione, della concentrazione e della memoria, alterazioni del sonno e dell’alimentazione. Nelle forme più gravi, possono comparire segnali psicotici come deliri di colpa e di rovina. La depressione può influenzare in modo significativo la vita quotidiana e la capacità di funzionamento dell’individuo.
Un luogo comune è che andare in vacanza sia sufficiente per migliorare l’umore. Tuttavia, sebbene prendersi una pausa dal lavoro, dalla vita frenetica e dalla routine quotidiana, possa essere utile, le vacanze non sempre risolvono i problemi psicologici, come l’ansia e la depressione. Anzi, possono essere un periodo difficile ed emotivamente faticoso.
L’arrivo delle vacanze porta con sé una serie di eventi, interazioni sociali, spese e cambiamenti nelle abitudini, insieme a elevate aspettative di felicità. Alcune persone possono sviluppare una forma depressiva nota come disturbo affettivo stagionale(SAD), caratterizzata dall’insorgenza e remissione di episodi depressivi in specifici periodi dell’anno.
Il SAD deriva generalmente da un disturbo depressivo maggiore con “con andamento stagionale”, in cui i sintomi depressivi si manifestano con l’inizio di una stagione e si attenuano con il cambiamento stagionale successivo. Anche fattori esterni come l’intensità luminosa o condizioni metereologiche, come le ondate di caldo, oltre ad avere un impatto sulla salute fisica, possono peggiorare le condizioni di salute mentale. Le alte temperature e l’umidità sono collegate ad un aumento di sintomi nelle persone con depressione, disturbo d’ansia generalizzato e disturbo bipolare.
Al rientro dalle vacanze, alcune persone possono sperimentare il post-vacation blues (o post-holidays blues), una risposta psico-fisica al ritorno alla routine quotidiana, che spesso è diversa dai ritmi tranquilli e rilassati delle vacanze. Solitamente, questo stato è transitorio e non evolve in un vero episodio depressivo.
Come affrontare le vacanze in modo sereno?
La chiave per vivere le vacanze serenamente è mantenere un equilibrio durante tutto l’anno. È importante ridurre lo stress quotidiano, prendersi del tempo per se stessi, dedicarsi ai propri hobby, fare sport e trascorrere tempo con le persone care. Spesso si arriva alle vacanze stanchi, stressati, con un carico d’aspettative di recupero irrealistiche, con il rischio, nelle persone predisposte, che possano comparire problemi d’ansia e d’umore che influenzeranno non solo il periodo di vacanza ma anche il rientro a casa.
Arrivare alle vacanze già riposati, evitando di accumulare stress eccessivo durante l’anno, è fondamentale per prevenire questi problemi. In caso di necessità, è utile rivolgersi a specialisti per ricevere il giusto supporto.
Negli ultimi anni, i telefoni cellulari sono diventati indispensabili nella vita quotidiana, rivoluzionando non solo il modo in cui ci relazioniamo con gli altri, ma anche le dinamiche lavorative e di intrattenimento. Ci permettono di telefonare, inviare messaggi, rimanere informati, navigare sui social media, scattare foto, leggere e-mail e molto altro.
Tuttavia, l’uso spasmodico del cellulare può avere anche conseguenze negative, come tutti i modelli di consumo che creano dipendenza, e portare alla nomofobia, ovvero la paura di restare senza cellulare.
La nomofobia (No MObile PHone PhoBIA) si riferisce alla preoccupazione o alla paura che le persone provano quando sono senza il cellulare o non possono usarlo. Il termine è stato coniato per la prima volta nel 2008.
È un disturbo che interessa tutte le fasce di età, ma in particolare sono gli adolescenti e i giovani adulti ad utilizzare lo smartphone in tutti gli ambiti della propria vita: scuola, relazioni di amicizia e sentimentali, divertimento, interessi, intrattenimento.
In una ricerca del 2020 condotta dal professore dell’Università del Connecticut David Greenfield sulla correlazione tra uso di smartphone e sintomi ansiosi tra gli adolescenti è emerso che la nomofobia è significativamente associata a depressione, ansia e scarsa qualità della vita. Su 1386 adolescenti, 569 (41,05%), 303 (21,86%) e 82 (5,1%) presentano rispettivamente una nomofobia lieve, moderata e grave. Il fenomeno sembrerebbe interessare soprattutto gli adolescenti maschi. Questo confermerebbe quanto la dipendenza da smartphone abbia effetti sulla salute psico-fisica dei ragazzi.
Nomofobia: come si manifesta nei giovani
Gli adolescenti e i giovani adulti con nomofobia hanno la paura costante di perdere qualcosa (come messaggi, eventi e post sui social media) e si sentono ansiosi quando dimenticano il proprio smartphone o riscontrano problemi di batteria o di connessione. Il loro interesse principale è ciò che succede nel mondo virtuale più che in quello reale, dimostrando poco coinvolgimento nelle attività scolastiche, nello studio (pur avendo scelto il percorso di studi universitari) nelle relazioni con i propri amici. Non resistono all’impulso di utilizzarlo durante le lezioni o mentre dovrebbero e vorrebbero studiare e vivono nel costante bisogno di controllo su ciò che viene “pubblicato” su TiK Tok e nell’ansia di “perdersi qualcosa” di importante. Invece di essere uno strumento utile che scelgono di utilizzare con consapevolezza, diventa uno strumento da cui dipendono e che attiva in loro veri e propri sintomi di astinenza.
Si può parlare di dipendenza da cellulare?
Sì, perché si instaura un circolo vizioso in cui aumenta il bisogno di stare al cellulare e quindi si attivano dei comportamenti disfunzionali: pensieri ricorrenti indirizzati verso il cellulare, sintomi di astinenza (nel caso in cui non si possa utilizzare il cellulare), ansia, irritabilità, compromissione delle relazioni sociali e affettive.
Come emerge in una ricerca del 2002 sempre condotta dal professore David Greenfield, l’attaccamento allo smartphone è molto simile a tutte le altre dipendenze, in particolare a quella del giocatore d’azzardo. L’utilizzo dello smartphone attiva la produzione di dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito cerebrale della ricompensa, Quando compare una notifica sul cellulare sale il livello di dopamina, e la spinta a trovare qualcosa di gratificante e sorprendente, indipendentemente da quello che il messaggio effettivamente comunicherà. Si attiva un continuo controllo per verificare se arriverà davvero qualcosa di piacevole e sorprendente come succede al giocatore di azzardo che è in continua attesa di una eccitante e sorprendente vincita.
Quali potrebbero essere i sintomi di nomofobia?
Alcuni degli indicatori di nomofobia sono:
Incapacità di spegnere il dispositivo mobile.
Disagio all’idea di essere fisicamente distanti dal dispositivo mobile.
Preoccupazione di non poter chiedere aiuto in assenza del dispositivo.
Cercare sollievo dalle frustrazioni della vita reale nel mondo virtuale.
Scarso interesse e capacità progettuali sulla vita reale con conseguente senso di ansia, di angoscia e depressione.
Quali sono i fattori di rischio per la nomofobia?
Si ritiene che tra i fattori di rischio che possano contribuire allo sviluppo della nomofobia ci sia la difficoltà dei ragazzi di sentirsi all’altezza di vivere le relazioni interpersonali e di realizzare i propri compiti evolutivi nella vita reale. Si sviluppa come una dipendenza a tutti gli effetti e per questo di difficile gestione. Più i ragazzi si rifugiano nel mondo virtuale, più si sentono e diventano incapaci di affrontare le frustrazioni, le delusioni, le gioie e le soddisfazioni del mondo reale.
Come può essere trattata la nomofobia?
Il trattamento della nomofobia deve partire da un primo riconoscimento da parte del ragazzo di quanto la nomofobia lo renda infelice e incapace di realizzare un progetto personale di crescita soddisfacente. Oppure possono essere i genitori a richiedere un supporto su come gestire le difficoltà dei figli rispetto all’utilizzo del cellulare.
Ci si può rivolgere ad uno psicoterapeuta specializzato in età evolutiva che potrà aiutare, attraverso l’utilizzo di tecniche specifiche, a comprendere e a modificare il proprio rapporto con lo smartphone e con gli altri e a costruire relazioni migliori con le persone e con se stessi.
In alcuni casi potrebbe anche essere necessario una terapia farmacologica, ma sarà uno psichiatra a dare le indicazioni più consone al caso specifico.
L’odontofobia, chiamata anche stomatofobia, rappresenta la paura irrazionale, morbosa e incontrollata del dentista. Il paziente odontofobico sperimenta livelli di tensione e paure elevate. Tale disturbo può essere:
1. lieve: detta anche “ansia dentale”, è la più frequente tra la popolazione;
2. moderata: chiamata “paura del dentista”;
3. grave: la vera “odontofobia”, decisamente più rara e difficile da gestire da parte del dentista.
Ce ne parla la dott.ssa Ilaria Salvaderi, psicologa e psicoterapeuta diHumanitas PsicoCare.
Come si manifesta l’odontofobia?
La paura del dentista può variare da una condizione di ansia crescente (con l’avvicinarsi della visita) ad una vera e propria fobia (che porta il paziente non solo a non effettuare visite dentistiche ma a provare disagio anche solo nel parlarne). Il paziente odontofobico può sperimentare sintomatologia ansiosa dinanzi allo scenario: cioè immaginando, prospettando o pensando allo studio di un dentista e agli strumenti da lui utilizzati L’odontofobia è una fobia specifica situazionale, rientrante tra i disturbi d’ansia (DSM V-TR).
Chi soffre di odontofobia trova difficile affrontare una seduta dentistica, nonostante gli sforzi di autocontrollo. La reazione può manifestarsi con crisi fobiche, con sintomi come battito accelerato,nausea o sudorazione eccessiva; tremori, senso di irrealtà, mal di testa, brividi e di calore. Tra i comportamenti osservabili potrebbero esserci l’arrivo in anticipo allo studio, un incremento ingiustificato della sintomatologia ansiosa all’arrivo in studio dentistico, blocchi (freezing) durante la seduta (ad esempio, mancata risposta a richieste semplici), l’assunzione preventiva di antidolorifici (prima della seduta). Il paziente odontofobico, proprio a causa della sintomatologia sofferta, tende a mettere in atto comportamenti di evitamento, spesso inconsapevolmente: tende a rimandare continuamente le cure dentali, affidandosi spesso a terapie alternative. Tuttavia, queste condotte di evitamento conducono ad un incremento della paura e della sintomatologia associata, complicando ulteriormente la situazione psicopatologica e la gestione medico-dentistica.
Cosa causa l’odontofobia?
L’odontofobia può presentarsi come conseguenza di una precedente esperienza negativa o traumatica con un dentista o essere del tutto irrazionale.
Chi soffre di odontofobia spesso presenta problematiche pregresse relative all’ansia o a disturbi depressivi. Le cause possono essere ricondotte a:
Problemi pregressi dello spettro ansioso: diversi studi hanno dimostrato un legame tra questi disturbi e la paura del dentista
Alta sensibilità al dolore: è collegata a maggiori probabilità di sviluppare la fobia
Condizionamento classico o apprendimento osservativo: chi ha avuto esperienze dolorose dal dentista risulta maggiormente esposto al rischio di sviluppare paura del dentista e di evitare le cure odontoiatriche tempestive
Aver osservato figure vicine che temevano il dentista, la visita dentistica o una procedura dentistica specifica: l’odontofobico può aver interiorizzato il loro modello comportamentale.
Come si cura l’odontofobia?
La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) è il trattamento d’elezione per i disturbi d’ansia, tra cui rientrano le fobie specifiche quali l’odontofobia. La terapia CBT è finalizzata a identificare e ristrutturare le credenze negative e i pensieri automatici che alimentano la paura del dentista. Inoltre, insegna al paziente strategie di coping più adattive e funzionali. Tra le tecniche più efficaci risultano la desensibilizzazione sistematica e il modeling; La terapia espositiva è la strategia terapeutica efficace per trattare l’odontofobia, consentendo al paziente di affrontare gradualmente la paura associata al dentista e ai trattamenti dentali. La pratica espositiva può prevedere i seguenti tipi di intervento
1. Esposizione in vivo
2. Esposizione immaginativa
3. Esposizione tramite realtà virtuale (VR) o realtà aumentata (AR).
Come gestire la pauraeprendersi curadella propria salute orale in serenità?
Ecco alcuni consigli pratici:
Non andare soli dal dentista: la presenza di una persona cara può aiutare a mantenere uno stato d’animo più rilassato.
Fissare appuntamenti in orari tranquilli: una minore affluenza riduce l’ansia legata all’attesa
Comunicare con il propriodentista, instaurando una relazione di fiducia con il professionista.
Fare attività fisica, mangiare sano e condurre una vita attiva, sono attività fondamentali per la salute fisica. Ma cosa facciamo per il nostro benessere emotivo? Gestire le emozioni è altrettanto importante per la salute psicologica. Spesso ci concentriamo sul corpo, dimenticando di allenare il nostro cervello emotivo. Imparare a gestire lo stress, essere più empatici e vivere in equilibrio con il nostro modo di essere, sono abilità cruciali.
Le emozioni sono processi complessi che si attivano nel nostro organismo in risposta a stimoli ambientali, che ci consentono di valutare rapidamente le situazioni e agire al meglio in un’ottica di adattamento.
L’etimologia della parola emozione è da ricondursi al latino e-movere, “portare fuori”, e indica un movimento: in situazioni di attivazione emotiva l’organismo è spinto ad agire, investendo energia psicofisica.
Da cosa sono costituite le emozioni?
Le emozioni sono costituite da diverse componenti (Camaioni e Di Blasio, 2002):
valutazione cognitiva (o appraisal): il nostro cervello in una manciata di secondi valuta le caratteristiche più importanti dello stimolo (pericolosità vs sicurezza; novità vs familiarità; piacevolezza vs spiacevolezza; etc)
attivazione fisiologica (o arousal): il nostro corpo modifica i propri parametri per rispondere allo stimolo in modo efficace e rapido (pressione, tono muscolare, frequenza respiratoria, conduttanza cutanea,..)
espressioni verbali e non verbali: queste includono sia le parole usate per descrivere l’emozione sia il linguaggio del corpo come espressioni facciali, postura, gesti
tendenza all’azione: l’emozione ci spinge ad agire in modo automatico in una determinata direzione.
Di fronte ad un evento attivante, quindi, la valutazione cognitiva di quest’ultimo porterà a cambiamenti fisiologici e espressivi, che si tradurranno in comportamenti adattivi specifici.
Quali sono le emozioni primarie?
Le emozioni sono state studiate in una vasta gamma di contesti e secondo numerose prospettive. Una delle teorie più accreditate, quella evoluzionista, pone l’accento sulla funzione delle emozioni nella nostra vita, partendo da studi che hanno coinvolto popolazioni di tutto il mondo e di tutte le fasce di età.
A partire dagli anni ‘50 lo psicologo statunitense Paul Ekmann, riprendendo gli studi di Charles Darwin, ha scoperto che alcune emozioni sono riconoscibili in tutte le culture del mondo, poiché vengono descritte ed espresse in modi sostanzialmente sovrapponibili.
Queste emozioni non sembravano essere frutto di processi di apprendimento ambientale, ma sono presenti in ogni essere umano fin dalla nascita. Inoltre, tali emozioni non possono essere scomposte in emozioni più semplici.
Emozioni di questo tipo, universali, innate e primarie, sono state identificate in un numero limitato: la maggior parte degli studi ha individuato 5/6 emozioni di base:
Tristezza: è l’emozioneche si prova quando si perde qualcosa di caro o in seguito ad eventi sfortunati (valutazione cognitiva di perdita), rispetto ai quali non riusciamo a trovare nessuna possibile alternativa. Le manifestazioni possono includere crisi di pianto, passività, anedonia (incapacità provare piacere per attività che un tempo si amavano), perdita di appetito e insonnia. Le persone tristi presentano segni fisici come postura ricurva, fronte corrugata, labbra piegate e sguardo perso nel vuoto. La tristezza spinge alla solitudine per creare uno spazio/tempo di elaborazione e accettazione della perdita, oppure alla ricerca di vicinanza per trovare conforto e aiuto nel superarla.
Gioia: è l’emozione che si prova quando si ottiene qualcosa di importante per il proprio benessere/realizzazione personale (valutazione cognitiva di guadagno). Le manifestazioni includono energia, sensazione di pienezza, desiderio di prolungare la situazione che si sta vivendo. Le persone felici presentano comportamenti non verbali come volto aperto e sorridente, postura morbida e tendenza alla vicinanza prossimale agli altri. La felicità contiene il messaggio “trattieni ciò che hai ottenuto e ripetilo il più spesso possibile”, con la funzione di ottenere e mantenere delle risorse.
Rabbia: è l’emozione innata che si manifesta quando le persone percepiscono di aver subito un torto o un’ingiustizia, o davanti a situazioni in cui qualcosa o qualcuno ha impedito il raggiungimento di un obiettivo (valutazione cognitiva di ostacolo). Mentre esperiamo la rabbia possiamo avvertire una grande energia e calore, sentire il corpo teso e i muscoli contratti. Spesso viene accompagnata dall’impulso di colpire, urlare o ferire l’altro. Per le sue possibili conseguenze negative a livello relazionale, la rabbia viene spesso giudicata come “sbagliata”, da evitare, mentre deve solamente essere gestita nella sua modalità espressiva, e ha una funzione adattiva, spingendo la persona ad agire quando si sente minacciata. Il suo scopo è la rimozione dell’ostacolo percepito.
Paura: è la risposta a situazioni minacciose (percezione cognitiva di pericolo) e promuove la sopravvivenza dell’individuo. La risposta fisiologica della paura, anche nota come “risposta di attacco-fuga”, è composta da cambiamenti corporei come: battito cardiaco accelerato, tensione muscolare, respiro veloce, aumento della pressione sanguigna. Tali modificazioni hanno la funzione di mettere l’organismo nella condizione di poter fuggire dal pericolo nel minor tempo possibile.
Disgusto: è l’emozione primaria che si attiva di fronte alla percezione di qualcosa di nocivo per la nostra salute (valutazione cognitiva di veleno). Ci tiene alla larga da alimenti e sostanze che potrebbero arrecare danno, ma si attiva anche di fronte a situazioni moralmente inaccettabili, permettendo di mantenere l’integrità morale oltre che fisica. L’espressione facciale del disgusto è oltremodo tipica, con il naso arricciato e il labbro leggermente sollevato. L’azione a cui ci spinge questa emozione è allontanarci dallo stimolo disgustoso oppure vomitare al fine di espellere il veleno.
Cosa si intende per emozioni secondarie?
Accanto alle emozioni primarie esiste un’ampia gamma di emozioni dette secondarie, che sono più complesse, possono essere una combinazione di più emozioni primarie, e sono sensibili al contesto culturale e sociale di appartenenza.
Tali emozioni differiscono da popolazione a popolazione e spesso anche da famiglia a famiglia, determinando una costellazione emotiva unica in ciascun individuo. Le emozioni secondarie sono in numero molto maggiore rispetto alle primarie, tutte quelle che possiamo provare nel corso di una vita:
Senso di colpa: è un’emozione complessa legata alla morale e al comportamento, che si inizia a delineare più tardivamente rispetto alle emozioni di base (come la gioia e la rabbia), quando una persona percepisce di aver agito in modo trasgressivo rispetto alle norme sociali. Il senso di colpa si manifesta con rimorso e rimpianto rispetto ad un comportamento messo in atto precedentemente, portando ad uno stato di tensione che chiede di essere in qualche modo risolto.
Vergogna: è un’emozione che implica la percezione di un giudizio negativo da parte degli altri. Si sviluppa con la maturazione del sé e riguarda la consapevolezza dell’immagine personale. Il suo ruolo sembra decisivo nell’evitare il rifiuto e l’esclusione da parte del gruppo sociale di appartenenza (amici, famiglia, comunità).
Cosa si intende per emotività patologica?
Abbiamo visto come le nostre emozioni siano meccanismi utili, rapidi e funzionali all’adattamento. Senza di esse non sapremo evitare i pericoli (reali, sociali, futuri), non riusciremo a reagire di fronte alle ingiustizie e non sapremo superare le perdite né capire cosa ci piace e impegnarci nel realizzarlo. E molto altro.
Perché le emozioni possano agire per il nostro bene, tuttavia, esse devono essere coerenti e proporzionali agli eventi che le scatenano. In alcuni casi, può accadere che, per cause complesse di natura biologica, psicologica e sociale, le emozioni non siano funzionali, favorendo quindi il superamento dei problemi e l’adattamento ai cambiamenti, ma possano ostacolare la funzionalità e la qualità di vita delle persone: la paura può diventare fobia, la tristezza depressione, la rabbia può dominare la scena e impedirci di costruire relazioni buone con gli altri, il senso di colpa può diventare pervasivo e dannoso, e così via.
Come gestire le emozioni in modo consapevole e superare i disturbi emotivi?
Per una buona gestione emotiva il primo passo è nominare e conoscere le proprie emozioni: come si manifestano, cosa le scatena, quali conseguenze hanno. La consapevolezza emotiva, infatti, può aiutare a migliorare il benessere psicologico e a sviluppare relazioni più sane. Uno psicoterapeuta cognitivo-comportamentale può essere d’aiuto nell’apprendere strategie nuove di gestione emotiva e modificazione comportamentale, che possono essere focalizzate sulla situazione scatenante, sull’intensità dell’emozione stessa, sui pensieri disfunzionali che mantengono e prolungano l’emozione o sui comportamenti conseguenti.
Infine, quando le emozioni diventano patologiche può essere necessario l’intervento dello psichiatra capace di permettere la normalizzazione delle emozioni patologiche con mirati interventi farmacologici
Nella maggior parte dei casi, la terapia integrata psicofarmacologica e psicoterapeutica garantisce i risultati migliori per aiutare chi soffre di disturbi emotivi a ritrovare la serenità e la libertà.
Ekman, P. (2008). Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste. Editore Amrita, collana Scienza e Compassione
Camaioni, L.; Di Blasio, P. (2002). Psicologia dello Sviluppo. Il Mulino.
Siegel, D.J. (2001). Toward an interpersonal neurobiology of the developing mind: Attachment relationships, “mindsight,” and neural integration. Infant Mental Health Journal, 22, 67–94.
Il diabete mellito è una condizione cronica che rappresenta una sfida continua per chi ne è affetto. Una gestione attenta e costante, con terapie quotidiane e monitoraggi regolari, è infatti fondamentale per controllare efficacemente i livelli di glucosio nel sangue e prevenire eventuali complicanze.
Nonostante la necessità di un trattamento continuo, molti pazienti trovano difficile la prospettiva di dover assumere farmaci per tutta la vita. Questa difficoltà può sfociare in disturbi psicologici come depressione e ansia che possono influenzare la capacità di seguire una dieta, fare sport, assumere farmaci e controllare la glicemia in modo adeguato1.
La dott.ssa Sara Piccini, endocrinologa e diabetologa presso il centroHumanitas Medical Care De Angeli a Milano, e la dott.ssa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare, ci spiegano come è possibile convivere con il diabete.
Cosa comporta convivere con il diabete?
La diagnosi di diabete può avere un impatto psicologico importante, poiché convivere con questa malattia comporta delle sfide che vanno oltre la semplice gestione medica. Un buon controllo glicemico, fondamentale per prevenire le complicazioni a lungo termine, richiede un elevato livello di autogestione da parte del paziente. Questo include una corretta alimentazione, un regolare esercizio fisico, la terapia farmacologica continua, l’automonitoraggio dei livelli di glucosio e visite cliniche periodiche2.
Nonostante i progressi nel trattamento del diabete, i pazienti sono ancora ad alto rischio di svilupparecomplicanze micro e macrovascolari. La consapevolezza di questi rischi aggiunge ulteriore stress che può complicare la gestione della malattia.
Inoltre, la diagnosi di diabete di tipo 1 durante l’infanzia o l’adolescenza può interferire con i cambiamenti dello sviluppo e causare disagio psicologico (ansia e depressione)3.
Quali fattori psicologici influenzano il benessere emotivo di una persona con diabete?
I fattori psicologici che giocano un ruolo cruciale nel processo di adattamento della malattia sono:
1. Rifiuto: negare la diagnosi può ostacolare la gestione della propria condizione e l’adozione di misure preventive contro le complicazioni.
2. Rabbia: una diagnosi inaspettata può generare frustrazione e rabbia, che se non gestite, possono interferire con una corretta gestione della patologia e interferire nella qualità di vita.
3. Colpevolezza: sentimenti di colpa, sia realistici che irrealistici, emergono di frequente.
4. Depressione: la tristezza e il senso di perdita possono evolvere in depressione, con conseguenti problemi di sonno, affaticamento, interruzione dell’appetito, disinteresse per le attività quotidiane e per la corretta gestione del diabete.
5. Accettazione: può richiedere molto tempo, ma alla fine la persona accetta il proprio stato e impara a convivere con il diabete. Tuttavia, questo passaggio necessita pazienza, assistenza da parte di altri, piena comprensione del diabete e dei suoi approcci gestionali4.
Che effetti hanno i fattori psicologici sul diabete?
La modalità con cui il paziente vive e percepisce la sua malattia può influenzare il suo approccio con il diabete.
Diversi studi hanno dimostrato come un elevato disagio emotivo è spesso correlato a uno scarso controllo glicemico, a un deficit nel comportamento di auto-cura, a esiti avversi di diabete, mentre la riduzione dei sintomi depressivi è associata a un miglioramento del controllo glicemico5.
Inoltre, durante i periodi di stress, il corpo aumenta la produzione di adrenalina e cortisolo che inducono il fegato a produrre più glucosio, aumentando i livelli di zucchero nel sangue.
Come si possono affrontare i bisogni psicologici del paziente con diabete?
Il diabete mellito è una patologia complessa anche a livello psicologico: le emozioni e i vissuti associati alla malattia sono strettamente connessi al rapporto con il proprio corpo e al tema dell’identità.
Inoltre, molti studi evidenziano come sia frequente un comorbidità tra diabete e depressione, e come i sintomi depressivi influenzino negativamente l’aderenza al trattamento.
Risulta quindi fondamentale avere sempre in mente che al centro della cura non c’è il diabete, ma la persona con diabete.
Per alcuni pazienti, l’adattamento alla malattia può risultare complesso. In questi casi, un percorso psicologico mirato può essere utile per accettare la malattia, migliorare le strategie di coping (i comportamenti adottati per gestire, affrontare o ridurre conflitti e situazioni stressanti) e sostenere il cambiamento dello stile di vita.
Come aiutare il paziente dal punto di vista clinico?
Aiutare un paziente con diabete a convivere con la malattia richiede un approccio integrato e personalizzato. Fortunatamente, rispetto al passato, le terapie farmacologiche a disposizione sono numerose, permettendo di personalizzare la cura in base alle specifiche caratteristiche di ciascuno.
L’evoluzione tecnologica ha reso la somministrazione dei farmaci e il monitoraggio glicemico sempre meno invasivi, con l’uso di penne per insulina facili da usare, aghi più piccoli per ridurre il disagio e microinfusori per i pazienti con diabete di tipo 1.
Inoltre, sono a disposizione sensori glicemici che consentono un monitoraggio continuo, riducendo la necessità di punture al dito. I farmaci più recenti offrono anche significativi effetti protettivi contro le complicanze cardiovascolari e renali, diminuendone l’impatto e migliorando la qualità di vita delle persone con diabete6.
Epidemiology of depression and diabetes: a systematic review J. affect. disorder Tapash Roy 1 , Cathy E Lloyd Affiliations expand PMID: 23062861 DOI: 10.1016/S0165-0327(12)70004-6 ↩︎
La stagione estiva è spesso associata a spensieratezza, vacanze e lunghe giornate di sole. Tuttavia, per molte persone, questo periodo può intensificare l’ansia e gli attacchi di panico. Questo peggioramento è dovuto a diversi fattori, come l’aumento delle temperaturee della luce solare, che richiedono all’organismo di adattarsi a nuove condizioni. Questo processo di adattamento può essere particolarmente difficile per chi soffre di ansia, aumentando la percezione delle sensazioni fisiche e creando un senso di allarme. Inoltre, il caldo può disturbare il sonno, causando stanchezza e aumentando i livelli di stress, che a loro volta peggiorano l’ansia.
L’ansia è una condizione di preoccupazione mentale che si riflette nel corpo con sintomi come tensione muscolare, tachicardia, sudorazione e sensazioni di caldo o freddo. Può essere causata da una combinazione di più fattori, tra cui eventi stressanti della vita quotidiana o situazioni a lungo termine che possono generare preoccupazione.
L’attacco di panico è una sensazione improvvisa e intensa di malessere e disagio fisico, che si presenta con sintomi come difficoltà della respirazione, tachicardia e sensazione di perdita dell’equilibrio. È inaspettato e senza motivo apparente, con una fase acuta che dura pochi minuti.
Alcuni studi suggeriscono un’associazione tra l’aumento delle temperature e l’aggravarsi dei sintomi legati ad ansia e attacchi di panico (Oh et al., 2020).
Quando le temperature e la luce solare aumentano in modo significativo, il corpo deve adattarsi alla nuova condizione e lo stress fisico e mentale legato al cambiamento può accentuare gli stati ansiosi e favorire la comparsa di attacchi di panico
Questo corpo a disagio può condurre a interpretazioni erronee capaci di aumentare l’ansia e il timore di avere un attacco di panico.
Come comportarsi in caso di ansia o attacchi di panico?
In caso di ansia, è fondamentale non spaventarsi e riuscire a riconoscere che le sensazioni fisiche percepite per il caldo, non sono un pericolo come invece l’ansia fa percepire. È fondamentale imparare ed esercitarsi nell’uso di tecniche di rilassamento, cercare di regolare i livelli di stress e dedicare tempo ad attività rilassanti. Mantenere uno stile di vita adeguato che, in estate, significa mangiare in modo sano, soprattutto frutta e verdura, e idratarsi correttamente. Rinfrescarsi e vivere in ambienti freschi e ben ventilati può essere di grande aiuto.
In caso di attacco di panico è importante riconoscere i sintomi e tenere a mente che, per quanto si tratti di sensazioni molto spiacevoli, passeranno nell’arco di poco tempo. Anche se la paura e la sensazione di terrore, tipica dell’attacco di panico, induce a pensare il contrario.
Durante l’attacco di panico si può provare a utilizzare la respirazione diaframmatica o cercare di distrarsi, ad esempio muovendosi o camminando. Queste attività possono aiutare a rilassare i muscoli e ripristinareuna respirazione regolare.
Soprattutto in estate, ma anche nelle altre stagioni, è cruciale cercare di interrompere il ciclo negativo di pensieri in cui una persona si preoccupa immediatamente ed eccessivamente per la comparsa di un sintomo fisico. L’ansia che ne consegue può a sua volta scatenare ulteriori sensazioni e sintomi fisici, creando un ciclo crescente che, nell’arco di pochi minuti, può portare a un picco significativo di ansia sia fisica che mentale.
Anche le persone che assistono chi sta sperimentando l’ansia o un attacco di panico, possono aiutare. È importante:
Offrire alla persona comprensione e ascolto, mostrando fiducia in ciò che la persona esprime.
Mai giudicare o banalizzare la situazione ma incoraggiare la persona arilassarsi e a regolare il respiro, magari provando a fare gli esercizi insieme.
Cercare di distrarre la persona durante i momenti di difficoltà, non parlando di ansia, ma di altri argomenti.
Suggerire alla persona di rivolgersi a specialisti per una terapia adeguata, e che farlo, non è un fallimento o non si dimostra di essere incapaci.
Cosa non fare in caso di ansia e attacchi di panico?
In entrambe le situazioni, è importante evitare:
il consumo di alcolici, che possono peggiorare il disturbo a lungo termine:
tentare di gestire l’ansia con la sola razionalità ma è preferibile agire sul corpo con tecniche di rilassamento fisico.
Inoltre, per aiutare chi sta soffrendo di un attacco di ansia o panico, è importante evitare frasi che minimizzano il problema, come: “Mettici la buona volontà”; “Non hai motivi per sentirti così”; “Controllati”.
La solitudine è un noto fattore di rischio a livello scientifico per la salute psicofisica, ma questo legame è ancora poco divulgato e conosciuto. Contrariamente allo stereotipo che la associa principalmente agli anziani, la solitudine può colpire persone di tutte le età, rappresentando un rischio significativo per chiunque.
La dott.ssa Giovanna Vanni, psicoterapeuta medico presso Humanitas PsicoCare, sottolinea l’importanza delle relazioni sociali e la necessità di riconoscere e affrontare questo problema.
Che cosa si intende per solitudine?
La solitudine è una sensazione di isolamento, di non appartenenza, disconnessione o mancanza di contatto sociale significativo. Può manifestarsi sia in situazioni di effettivo isolamento fisico, sia in contesti sociali dove l’individuo, nonostante la presenza di altre persone, si sente comunque emotivamente isolato. La solitudine non è necessariamente legata alla quantità di interazioni sociali, ma piuttosto alla qualità di queste e alla percezione personale delle relazioni.
Nel 2018 è stato istituito il Ministero della Solitudine nel Regno Unito, segnalando come questa problematica fosse già rilevante prima della pandemia di COVID-19. Da allora altri paesi come Canada e Giappone hanno seguito l’esempio riconoscendo la solitudine come un problema serio per la salute. Nel 2023, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato la solitudine una minaccia urgente istituendo una commissione presieduta dal dottor Vivek Murthy, chirurgo generale.
“Sono entusiasta di lavorare a stretto contatto con un gruppo eccezionale di commissari per promuovere la connessione sociale, una componente vitale del benessere. Insieme, possiamo costruire un mondo meno solitario, più sano e più resiliente. Date le profonde conseguenze sanitarie e sociali della solitudine e dell’isolamento, abbiamo l’obbligo di attuare gli stessi investimenti nella ricostruzione del tessuto sociale della società che abbiamo effettuato per affrontare altri problemi di salute globale, come l’uso del tabacco, l’obesità e le dipendenze“, ha dichiarato il dottor Vivek Murthy.
Quali sono i fattori che predispongono alla solitudine?
L’Istituto Superiore di Sanità afferma che “le persone più vulnerabili alla solitudine includono:
coloro che non hanno una rete di amicizie né una famiglia
madri o padri soli, o chi si prende cura di qualcun altro, ad esempio le persone che si occupano di un genitore anziano e hanno poco tempo per mantenere una vita sociale
pensionati
coloro che si sono trasferiti in una nuova zona, hanno cambiato lavoro, scuola o università
chi è escluso dalla società, a causa di problemi di mobilità o per mancanza di denaro
persone con disabilità o malattie croniche
coloro che subiscono discriminazioni, a causa del proprio genere, etnia od orientamento sessuale
coloro che hanno subito abusi sessuali, fisici o psicologici
coloro che stanno affrontando un lutto
persone con problemi di ansia sociale (condizione di disagio e paura in situazioni sociali)
Altri eventi significativi della vita come l’acquisto di una casa, la nascita di un bambino o la pianificazione di un matrimonio possono talora portare a sentimenti di solitudine.
La solitudine può anche essere causata da una bassa autostima, poiché le persone che non hanno fiducia in se stesse credono di non essere degne dell’attenzione degli altri e si isolano fino a evitare qualsiasi tipo di contatto sociale.
È importante non confondere la solitudine con l’essere temporaneamente soli o sentirsi soli in modo saltuario, in quanto quest’ultima situazione può spingere a cercare il supporto delle persone vicine.
Quali sono i rischi associati alla solitudine?
La letteratura scientifica ha evidenziato i seguenti rischi:
aumento significativo del rischio di morte prematura, paragonabile ai rischi associati al fumo, all’obesità e all’inattività fisica
aumento del rischio di demenza, malattie cardiache e ictus
depressione, ansia e rischio di suicidio
maggior rischio di morte in chi soffre di scompenso cardiaco
aumento del rischio di malattie croniche come diabete di tipo 2 e ipertensione.
Parallelamente altri studi evidenziano come le ‘buone’ relazioni proteggano la nostra salute. Per esempio l’Harvard Study, uno studio longitudinale iniziato nel 1938 negli Stati Uniti, ha indagato per tre generazioni molteplici fattori psicofisici che potessero essere associati al benessere e alla longevità: tra essi, è spiccato maggiormente avere delle relazioni appaganti e riferite come di buona qualità.
Il bisogno di appartenenza a un gruppo è profondamente biologico, ci fa sentire sicuri e ci rende più resilienti allo stress, contribuendo alla nostra salute.
Come combattere la solitudine?
Il primo passo per combattere la solitudine è riconoscerla e riflettere su come ci si sente all’interno delle proprie relazioni. Non ci si deve criticare per il fatto di sentirsi soli, poiché ciò peggiora la situazione. L’autonomia nella nostra cultura è un valore importante, ma deve essere intesa come un equilibrio tra indipendenza e appartenenza sociale.
Chi avesse il dubbio di soffrire di solitudine può rivolgersi al medico di base o a uno psicoterapeuta. Lo specialista dovrà informarsi rispetto alla vita sociale della persona e chiedere apertamente se si senta supportata o sola. Andare da uno psicoterapeuta per occuparsi di questo fattore di rischio è importante quanto andare dal cardiologo, dal diabetologo o qualunque altro specialista.
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