Il disagio giovanile si riferisce a una serie di problematiche emotive e psicologiche che si manifestano nel periodo dell’adolescenza. Un momento spesso critico dello sviluppo, dove i ragazzi possono sperimentare ansia, depressione, rabbia, tristezza, paura, preoccupazioni, problemi di autostima, di identità e relazioni personali. Momenti di difficoltà comuni durante la crescita che, tuttavia, se interferiscono con la vita quotidiana, potrebbero indicare un disagio psicologico importante che deve essere affrontato. 

Ce ne parla la dottoressa Ilaria Ferraioli, psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare.

Perché l’adolescenza è un periodo critico?

L’adolescenza è una fase critica caratterizzata da molti cambiamenti fisici, emotivi e sociali. È possibile inquadrarlo come un periodo specifico della vita con un proprio significato, attraversato da mutamenti evolutivi che caratterizzano gli aspetti biologici, l’ambito sociale e la costruzione di un’identità.

Le sfide e le difficoltà incontrate mettono alla prova la capacità di adattamento dell’adolescente verso se stesso, nel rapporto con i coetanei e nell’affrontare le richieste derivanti dai contesti sociali e da parte degli adulti.

L’obiettivo principale di questa fase della vita è lo sviluppo dell’indipendenza attraverso l’uso delle proprie risorse personali e abilità, seguendo un percorso che rende ogni individuo unico. Storicamente, fino agli anni ‘60, questa fase è stata spesso considerata solo come una tappa preliminare e predittiva dell’età adulta, trascurando alcune caratteristiche distintive, come i rapidi cambiamenti e il costante processo di integrazione che contribuisce a definire le differenze individuali.

Le esperienze affrontate dall’adolescente si inseriscono, dunque, in una continua interazione fra l’individuo, l’ambiente e la sua appartenenza sociale, che porta allo svolgimento di compiti specifici nelle varie aree di vita. Le difficoltà incontrate nello svolgimento di tali sfide possono portare a significative manifestazioni di disagio con conseguenti comportamenti sintomatici e rischiosi. Difatti è possibile descrivere questo periodo evolutivo come “critico”, poiché caratterizzato dalla ricerca di un nuovo equilibrio attraverso una continua riorganizzazione che tenga conto della velocità, della simultaneità e della profondità dei molteplici cambiamenti.

Adolescenza; quali sono i problemi di salute mentale più frequenti?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, in una scheda informativa sul tema della salute mentale negli adolescenti (2021), considera che a livello globale, 1 ragazzo su 7 (14%) tra i 10 e i 19 anni soffra di problemi di salute mentale, che in gran parte dei casi, rimangono sconosciuti e non trattati, come:

  • Disturbi d’ansia: sono tra i più comuni, con una prevalenza maggiore tra i più grandi, seppur emergano manifestazioni sintomatologiche già a partire dalla media adolescenza (14-16 anni) . Anche la depressione è diffusa, con sintomi come sbalzi d’umore improvvisi, che possono influenzare negativamente la frequenza scolastica e la vita sociale.
  • Disturbi comportamentali: più comuni tra i giovani adolescenti, includono il disturbo da deficit di attenzione, iperattività (ADHD) e il disturbo della condotta. Questi possono interferire con il rendimento scolastico e portare a comportamenti antisociali.
  • Disturbi alimentari: condizioni come l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa tendono a emergere durante l’adolescenza e la prima età adulta, comportando gravi rischi per la salute fisica e mentale.
  • Dipendenze patologiche (sostanze, gioco d’azzardo e new addiction):  comportamenti che conducono ad esperienze sensoriali che consentono in maniera impropria di stabilizzare stati affettivi dolorosi dove l’adolescente fatica ad autoregolarsi e generare risposte adattive.
  • Suicidio: i fattori di rischio includono l’uso dannoso di alcol, traumi, stigmatizzazione e accesso ai mezzi per il suicidio.

Come si manifesta il disagio giovanile?

Per favorire una comprensione del mondo adolescenziale e dei segnali che possono indicare una trasformazione da stati transitori fisiologici, ad altri più vicini allo sviluppo di aspetti psicopatologici, potrebbe essere utile conoscere e riconoscere i sentimenti ambivalenti e contraddittori ricorrenti che caratterizzano la vulnerabilità emotiva dell’adolescente.

Sono strettamente legati a una forte sensazione di insicurezza, incertezza e destabilizzazione, spesso causata da una rottura interna dei punti di riferimento su cui si basava l’identità personale e una certa coesione interna.

Tra le manifestazioni più comuni vi è una marcata ipersensibilità alla sensazione di esclusione e solitudine, causata dal distacco emotivo dalle figure genitoriali e, allo stesso tempo, dalla necessità di costruire la propria indipendenza. I comportamenti e le reazioni emotive degli adolescenti possono diventare disfunzionali, impedendo loro di sviluppare nuove strategie per affrontare le esperienze dolorose della vita quotidiana. In questo contesto, si possono osservare comportamenti orientati a scelte autonome che spingono verso un’estrema autosufficienza, accompagnati da atteggiamenti di sfida verso le figure adulte di riferimento, spesso espressi attraverso ostilità, rabbia e diffidenza.

Oppure emergono comportamenti caratterizzati da atteggiamenti estremi, di eccessiva sottomissione o mirati a una costante ricerca di approvazione da parte dei pari.

Il confine tra aspetti “fisiologici” del comportamento e i primi segnali di allarme è segnato dall’applicazione rigida e inflessibile di alcune delle condotte descritte, che appaiono impermeabili ai feedback esterni. Allo stesso modo, è importante monitorare le modalità di eccessiva emulazione di modelli di riferimento, atteggiamenti di superiorità e comportamenti alternativi o trasgressivi che mancano di consapevolezza.
Inoltre, alcuni segnali d’allarme includono:

  • Alterazioni e oscillazioni dell’umore
  • Ritiro sociale e isolamento 
  • Problemi nelle relazioni interpersonali
  • Calo del rendimento scolastico
  • Perdita di interesse per attività precedentemente amate 
  • Problemi di memoria o difficoltà a concentrarsi 
  • Trascuratezza nell’igiene personale 
  • Disturbi psicosomatici senza evidenti cause (come mal di testa e dolori addominali)
  • Condotte aggressive e aumento dell’iperattività
  • Cambiamenti nell’alimentazione
  • Problemi legati al sonno (come difficoltà ad addormentarsi, risvegli notturni e incubi).

Come possono aiutare i genitori?

Il ruolo dei genitori nel processo di sviluppo degli adolescenti è fondamentale.

Utilizzando una metafora sportiva, anche loro affrontano insieme all’adolescente una trasformazione transitoria dove si trovano dall’essere stati prevalentemente nel ruolo di “coach”  in ogni momento della crescita dei figli, al comprendere e indovinare quando porsi anche come compagni di squadra, tifosi in panchina, leader o semplicemente un sostegno validante e accogliente.

Spesso si verificano incomprensioni verosimilmente riconducibili a difficoltà comunicative, posizioni di rifiuto o derivanti dall’assunzione eccessiva di responsabilità nella risoluzione delle problematiche che emergono nella vita dell’adolescente.

Gli adulti devono essere in grado di identificare e valorizzare i numerosi punti di forza presenti in questa fase evolutiva dei loro figli, al fine di potenziarli e, al contempo, limitare lo sviluppo di comportamenti dannosi per il benessere di tutti i membri coinvolti, attraverso l’adozione di norme adattive e positive.

I genitori possono sostenere l’adolescente mantenendo un equilibrio tra la flessibilità delle regole condivise e la valorizzazione del loro contributo positivo e costruttivo.

Questo approccio permette di accompagnare l’adolescente nel suo processo decisionale e nel percorso verso l’autonomia.

Si tratta dunque di un ruolo di accompagnamento versatile, dove il sostegno è orientato a informare, spiegare e fornire chiarimenti per affrontare i problemi. Questo si può fare attraverso:

  • Ascolto empatico: ascoltare i figli senza interrompere, mostrando comprensione e senza essere paternalistici.
  • Comunicazione aperta: incoraggiare una comunicazione sincera e condividere pensieri ed emozioni in modo costruttivo.
  • Calma e rassicurazione: mantenere la calma di fronte a sbalzi d’umore, rassicurando i ragazzi sul fatto che le loro difficoltà possono essere superate.
  • Coinvolgimento positivo: collaborare con loro nella definizione delle regole, rispettando la loro privacy e incoraggiando relazioni sane con i coetanei.

Quando è necessario rivolgersi allo specialista?

È necessario rivolgersi allo specialista quando i sintomi interferiscono in modo pervasivo e rigido con la crescita personale, ostacolando la realizzazione e l’evoluzione dell’individuo. È fondamentale fornire un contesto e un significato al disagio attraverso l’ascolto dei bisogni e desideri che emergono dalle manifestazioni sintomatiche, considerando sia l’età dell’individuo che il ruolo cruciale del contesto ambientale in cui vive.

La comprensione della sofferenza e delle diverse manifestazioni mentali, espresse attraverso pensieri, azioni ed emozioni intense, aiuta a contrastare il senso di solitudine, segretezza e intolleranza che spesso risultano invalidanti.

Intervenire tempestivamente quando il disagio trova modo di esprimersi consente di ripristinare un normale processo di crescita, alleviare e risolvere il malessere, e prevenire future ricadute dovute a una mancata elaborazione.

Sostenere l’adolescente nel diventare protagonista responsabile e consapevole della propria vita favorisce una maturazione emotiva, cognitiva, comportamentale e sociale, che lo rende più abile nella risoluzione di conflitti interni ed esterni.

Per tali motivi è importante raccogliere e indirizzare agli specialisti la richiesta attiva proveniente dallo stesso e dai genitori, come dalle figure presenti nella rete di riferimento.

Come viene trattato il disagio giovanile?

Il panorama dei trattamenti offre diverse tipologie di intervento, che possono essere adottate singolarmente o combinate, in base alle problematiche specifiche e alle esigenze individuali.

Questi interventi possono comprendere percorsi psicoterapici individuali specifici e, in alcuni casi, terapie farmacologiche (su indicazione di un medico specialista).

Sono inoltre efficaci gli interventi di gruppo, finalizzati a promuovere la condivisione e l’espressione del disagio, l’apprendimento di abilità specifiche e il confronto con i pari, che può contribuire alla regolazione emotiva e all’acquisizione di nuovi strumenti e abilità sociali.

Ogni intervento richiede una valutazione anamnestica approfondita, orientata a indagare il livello di sviluppo dell’adolescente, le capacità intellettive e metacognitive, la presenza di una rete di supporto e un inquadramento diagnostico.

Diversi studi attestano l’efficacia di alcuni trattamenti evidence-based , ovvero basati su evidenze scientifiche, affinchè il processo di cura sia orientato non solo a promuovere la cura del sintomo, bensì anche alla presa in carico globale del paziente.

Infine, è opportuno considerare la realizzazione di percorsi di Parent Training per i genitori, programmi mirati a sostenere i caregiver nella gestione degli aspetti comportamentali dell’adolescente, con lo scopo di poter promuovere il benessere psichico all’interno di circoli virtuosi protettivi e predittivi nell’attualizzazione degli strumenti acquisiti per la gestione del disagio giovanile

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L’amaxofobia è la paura intensa e irrazionale di guidare o di essere passeggero in un veicolo. Chi soffre di questo disturbo può provare un’ansia estrema al pensiero di trovarsi in una situazione legata alla guida. Sebbene possa variare in intensità da persona a persona, questa fobia spesso porta a evitare del tutto di entrare in un’auto, interferendo con la vita quotidiana.

La dottoressa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare, ci spiega come riconoscere e come trattare l’amaxofobia.

Quali sono i sintomi dell’amaxofobia?

L’amaxofobia si manifesta con sintomi che possono variare da un disagio occasionale a un’ansia debilitante. La gravità può dipendere dal tipo di situazione, dalla natura della paura (ad esempio, paura di essere passeggero o di guidare in certe condizioni) e dal livello di evitamento delle attività legate alla guida.

Dal punto di vista diagnostico, l’amaxofobia viene spesso classificata come una fobia specifica: un oggetto specifico (un veicolo) o una situazione (guidare o viaggiare in un veicolo) provoca una risposta di paura.

Tuttavia, è importante effettuare una corretta diagnosi differenziale da altre patologie, tra cui:

  • Disturbo di panico, con attacchi di panico che si verificano durante la guida.
  • Agorafobia, dove la paura di uscire di casa o di trovarsi in spazi aperti include anche la paura di guidare.
  • Fobia sociale, se la paura è legata al timore del giudizio altrui mentre si è alla guida.

Quali sono le cause dell’amaxofobia?

Le possibili cause dell’ amaxofobia possono essere diverse e includere:

  • Esperienze traumatiche passate, come incidenti automobilistici, sia personali che vissuti da persone care.
  • Storia familiare di disturbi d’ansia o fobie.
  • Modellazione, ovvero osservare qualcuno che soffre di amaxofobia o sentirlo parlare della sua paura di guidare può indurre la persona a sviluppare la stessa fobia.

Alcuni fattori aumentano il rischio di sviluppare l’amaxofobia, come:

  • Presenza di altre fobie o disturbo d’ansia
  • Storia di attacchi di panico 
  • Abuso di sostanze o alcol.

Quali altre fobie sono associate all’amaxofobia?

Due fobie strettamente collegate all’amaxofobia includono:

  • Agorafobia: paura di uscire di casa o di non riuscire a fuggire da un luogo o da una situazione.
  • Claustrofobia: paura degli spazi chiusi, che può scatenarsi all’interno di un veicolo.

Quali sono i sintomi dell’amaxofobia?

Chi soffre di amaxofobia può sperimentare i classici sintomi sia fisici che psichici dell’ansia, come:

  • Brividi 
  • Vertigini e stordimento
  • Sudorazione eccessiva
  • Palpitazioni cardiache 
  • Nausea 
  • Dispnea (mancanza di respiro)
  • Tremori
  • Mal di stomaco.

I sintomi possono manifestarsi anche solo pensando di salire su un veicolo, oppure possono essere innescati dalla visione di auto o veicoli in movimento.

Quali sono i tipi di amaxofobia?

L’amaxofobia può manifestarsi in diversi modi:

  • Alcune persone sono in grado di guidare da sole ma non sopportano di essere passeggeri.
  • Altri evitano di guidare se non sono accompagnati da una persona di fiducia, come il partner.
  • In alcuni casi, l’ansia è così intensa che una persona evita del tutto qualsiasi tipo di veicolo.

Come si cura l’amaxofobia?

Il trattamento dell’amaxofobia prevede diverse opzioni terapeutiche, come:

  • Terapia cognitivo-comportamentale (CBT): innanzitutto si fa un lavoro di psicoeducazione sull’ansia legata alle situazioni fobiche; si insegna al paziente a riconoscere e modificare i pensieri irrazionali legati alla paura. In parallelo con le tecniche comportamentali, come l’esposizione, il paziente viene esposto alle situazioni che in genere scatenano l’ansia, come guardare immagini di veicoli o sedersi al volante di un’auto ferma. Attraverso esposizioni ripetute e controllate si può imparare a gestire e ridurre l’ansia.
  • Terapia di esposizione in realtà virtuale: permette al paziente di simulare l’esperienza di guida in un ambiente controllato e sicuro.
  • Terapia farmacologica: possono essere prescritti farmaci per gestire situazioni particolarmente difficili e improvvise, come un viaggio imminente. Una visita psichiatrica potrà comunque valutare se sia indicato un trattamento prettamente sintomatico o più strutturato, con SSRI (Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) e le esigenze caso per caso.

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I tic sono movimenti motori improvvisi, rapidi, ricorrenti, non ritmici (tic motori) o vocalizzazioni (tic vocali o fonici). Generalmente tendono ad avere un’evoluzione benigna e a risolversi con il tempo. Tuttavia, in alcuni casi, possono compromettere la qualità di vita del bambino. Con il giusto supporto da parte dei genitori e professionisti, possono essere gestiti in modo efficace, migliorando il benessere del bambino.

Ce ne parla la dottoressa Simona Sartori, psicoterapeuta specializzata in età evolutiva, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Medical Care Torino Principe Oddone.

Quali tipi di tic esistono?

I tic si dividono in semplici e complessi.

  • Tic semplici: movimenti brevi e ripetitivi che coinvolgono solo una parte del corpo (ad esempio, ampia apertura degli occhi o della bocca, inclinazione del collo, sollevamento delle spalle) o suoni semplici (includono tosse, schiarimento della gola, grugniti, imitazione di versi di animali e schiocco della lingua).
  • Tic complessi: coinvolgono più gruppi muscolari o suoni articolati. Alcuni esempi includono: toccare, picchiettare, agitare, calciare, saltare, urlare e strillare.

A che età compaiono i tic nei bambini?

I tic di solito iniziano tra i 3 e gli 8 anni. I primi a manifestarsi sono in genere i tic motori semplici che coinvolgono il viso e il collo. I tic vocali tendono a comparire più tardi, dopo l’insorgenza dei tic motori.

I tic nei bambini sono permanenti?

La maggior parte dei tic nei bambini ha una prognosi benigna. Spesso, scompaiono da soli dopo pochi mesi. Nel caso in cui persistono, raggiungono di solito il picco tra gli 8 e i 12 anni, con un miglioramento o la scomparsa completa durante l’adolescenza o la prima età adulta.

Cosa può peggiorare i tic nei bambini?

I tic possono peggiorare temporaneamente a causa di:

  • Tensioni psicologiche: stress, ansia, eccitazione e rabbia
  • Tensioni fisiche: stanchezza, privazione del sonno e infezioni
  • Cambiamenti ambientali: come l’inizio della scuola o un trasloco.

Come si diagnosticano i tic nei bambini?

Sarà il neuropsichiatra infantile e la psicoterapeuta specializzata in età evolutiva a fare la diagnosi di tic raccogliendo la storia clinica del bambino. È importante osservare i sintomi e, se necessario, i genitori possono fornire video dei tic osservati in casa per aiutare il medico a valutarne la gravità.

Qual è il trattamento per i tic nei bambini?

Molti tic non richiedono alcun trattamento perchè, come dicevamo, la prognosi è nella maggior parte dei casi positiva. Tuttavia, se i tic diventano molto fastidiosi e influenzano negativamente la qualità della vita o creano problemi sociali, emotivi o fisici, si possono considerare due opzioni di trattamento:

  • Terapia comportamentale CBIT (Comprehensive Behavioral Intervention for Tics): aiuta i bambini a diventare consapevoli dei loro tic e a imparare a contrastarli con movimenti volontari incompatibili con i tic stessi. La CBIT può essere efficace sia per i tic motori che per quelli vocali, riducendone la frequenza e la gravità.
  • Farmaci: vengono utilizzati per ridurre la gravità dei tic e sono generalmente suddivisi in due categorie: di primo livello (per tic più lievi, con meno effetti collaterali) e di secondo livello (per tic più gravi, con effetti collaterali più significativi). I farmaci più utilizzati di primo livello sono gli agonisti alfa-2-adrenergici, mentre i farmaci di secondo livello, sono neurolettici che agiscono sui recettori della dopamina.

Quali consigli per i genitori?

È importante che i genitori capiscano che i tic sono movimenti involontari che il bambino non vorrebbe fare e che alcune volte neanche si accorge di avere. Compaiono in momenti della crescita del bambino in cui si sente più stressato, può essere un trasloco, l’inizio della scuola, l’arrivo di un fratellino. Non deve essere sgridato e neanche educato a dover controllare il tic; porterebbe solo ad un maggiore stress per il bambino e quindi paradossalmente all’intensificarsi dei movimenti.

Se i genitori sono preoccupati, l’invito è di rivolgersi ad uno psicoterapeuta dell’età evolutiva per comprendere meglio la situazione psicologica del bambino e valutare come procedere per aiutarlo al meglio.

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Gli studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) affrontano sfide importanti anche durante il percorso universitario, ma grazie a normative come la Legge 170/2010 e strumenti compensativi e dispensativi, possono raggiungere con successo il traguardo accademico. Le università italiane offrono, infatti, supporti specifici per favorire l’inclusione, dalla concessione di tempo aggiuntivo, agli esami, fino all’utilizzo di strumenti tecnologici avanzati.

Ce ne parla la dottoressa Marcella Mauro, psicologa dell’apprendimento di Humanitas PsicoCare.

Cosa sono i DSA?

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono disturbi di natura neurobiologica che compromettono alcune abilità specifiche, come la lettura, la scrittura e il calcolo, pur in assenza di deficit neurologici o sensoriali. I principali DSA sono:

  • Dislessia: difficoltà nella lettura rapida e corretta
  • Disortografia: difficoltà nella scrittura ortograficamente corretta
  • Disgrafia: scrittura lenta, poco fluente e faticosa
  • Discalculia: difficoltà nel calcolo e nella gestione dei numeri.

Quali normative tutelano gli studenti con DSA?

La principale normativa italiana che tutela gli studenti con DSA è la Legge 170/2010, che garantisce il diritto allo studio e prevede misure compensative e dispensative sia per studenti delle scuole primarie e secondarie, sia per gli universitari. Altre normative rilevanti includono:

Come accedere ai servizi universitari con un DSA?

Per accedere ai servizi forniti dalle università, inclusi i test di ammissione ai corsi di laurea, è necessario presentare una diagnosi clinica di DSA. La diagnosi deve rispettare i criteri stabiliti dalla Consensus Conference del 2011 e includere:

  • Codici nosografici e dicitura esplicita del DSA
  • Descrizione dettagliata delle aree di forza e debolezza dello studente.

La diagnosi è valida solo se rilasciata dal SSN o da enti e professionisti accreditati dalle regioni.

Bisogna aggiornare la diagnosi dopo i 18 anni?

Se la diagnosi di DSA è rilasciata dopo i 18 anni, resta valida per l’intero percorso universitario. Se, invece, la diagnosi è stata fatta prima della maggiore età, deve essere aggiornata ogni 3 anni, come previsto dalla Legge 170/2010 e dall’Accordo Stato-Regioni del 2012.

Se la diagnosi non risponde ai requisiti stabiliti dalla legge, l’università potrebbe non accettarla. È quindi fondamentale che la diagnosi includa chiaramente gli strumenti compensativi e le misure dispensative suggerite, in modo che le indicazioni degli specialisti vengano rispettate.

Quali strumenti compensativi sono ammessi durante i test di ingresso all’università?

Per i test di ammissione ai corsi di laurea, il D.M. 477 del 28 giugno 2017 disciplina le modalità di concessione degli strumenti compensativi, che includono:

  • Tempo aggiuntivo (30% in più rispetto al tempo standard per i candidati con DSA)
  • Calcolatrice non scientifica
  • Video-ingranditore del testo
  • Affiancamento di un Tutor (lettore umano).

Quali strumenti compensativi si possono usare durante l’anno accademico?

Durante l’anno accademico, si possono utilizzare gli stessi strumenti compensativi già utilizzati durante il percorso scolastico, come:

  • Registratore da utilizzare durante le lezioni
  • Utilizzo di testi in formato digitale
  • Software di sintesi vocale
  • Tutor che svolge la funzione di lettore nel caso in cui non sia possibile fornire materiali d’esame in formato digitale
  • Tabelle, formulari e mappe concettuali 
  • Materiali didattici in formati accessibili (presentazioni, dispense, eserciziari), forniti preferibilmente con anticipo sulle lezioni
  • Altri strumenti tecnologici di facilitazione nella fase di studio e di esame.

Questi strumenti facilitano lo studio e l’esecuzione delle prove d’esame.

Quali misure dispensative sono previste per gli studenti con DSA?

Le misure dispensative possono includere:

  • Privilegiare esami orali anziché scritti, in base alle abilità dello studente. Laddove l’esame scritto venga ritenuto indispensabile, verificare se il formato scelto (ad esempio, test a scelta multipla, a risposta chiusa, ecc.), rappresenti un ostacolo e se possa essere sostituito da altre forme di valutazione scritta
  • Concessione di tempo supplementare (fino al 30%) per lo svolgimento degli esami
  • Prevedere nelle prove scritte l’eventuale riduzione quantitativa, ma non qualitativa, nel caso non si riesca a concedere tempo supplementare
  • Considerare nella valutazione i contenuti piuttosto che la forma e l’ortografia
  • Per gli esami più corposi considerare la possibilità di suddividere la materia d’esame in più prove parziali.

Come richiedere gli strumenti compensativi e le misure dispensative per un esame universitario?

Per richiedere gli strumenti compensativi e le misure dispensative è indispensabile presentare la diagnosi e informare il Servizio per la Disabilità e i DSA dell’università con largo anticipo. A seconda delle indicazioni ricevute, ci si potrà accordare con il docente della materia sulle modalità d’esame e gli strumenti da utilizzare. In alcuni casi, il tutor o i docenti referenti DSA fungeranno da mediatori tra lo studente e i professori.

Si può ricevere supporto durante gli esami universitari?

Gli Atenei  prevedono servizi specifici per i DSA, di nuova attivazione o nell’ambito di quelli già preesistenti di tutorato e/o disabilità, che pongono in essere tutte le azioni necessarie a garantire l’accoglienza, il tutorato, la mediazione con l’organizzazione didattica e il monitoraggio dell’efficacia delle prassi adottate. Nell’ambito di questi servizi, possono essere previsti:

  • Utilizzo di tutor specializzati
  • Consulenza per l’organizzazione delle attività di studio
  • Forme di studio alternative come, per esempio, la costituzione di gruppi di studio fra studenti con dislessia e non
  • Lezioni ed esercizi on line sul sito dell’università.

Quali difficoltà riscontrano gli studenti con DSA nello studio?

Gli studenti con DSA spesso incontrano difficoltà in diverse aree, tra cui:

  • Lettura lenta e faticosa, con necessità di rileggere più volte per comprendere i testi
  • Difficoltà nella gestione del tempo e nell’organizzazione autonoma del lavoro
  • Problemi di concentrazione e nella rievocazione delle informazioni
  • Comprensione delle domande d’esame, spesso dovuta a problemi di interpretazione o gestione dello stress.

Quali sono i suggerimenti per prendere appunti efficaci?

Durante le lezioni, gli studenti con DSA possono utilizzare alcune applicazioni per facilitare la presa di appunti. Questi strumenti digitali permettono di registrare le lezioni e organizzare gli appunti in modo schematico e sintetico, facilitando lo studio successivo.

Quali sono le strategie per sostenere al meglio gli esami?

Alcune strategie utili per gli studenti con DSA includono:

  • Consultare prove d’esame precedenti per familiarizzare con le domande
  • Creare schemi e mappe concettuali con parole chiave
  • Usare strategie come immagini mentali o anagrammi per memorizzare le informazioni
  • Pianificare lo studio con un planning giornaliero o settimanale
  • Studiare in un ambiente tranquillo e privo di distrazioni.

Prima di un esame è importante:

  • Informarsi in anticipo sul programma e sulle modalità dell’esame.
  • Richiedere per tempo eventuali strumenti compensativi e misure dispensative.
  • Svolgere simulazioni d’esame con il tempo previsto, per migliorare la gestione dello stress e del tempo.

Dopo l’esame, qualunque sia l’esito, è utile riflettere sul metodo di studio per capire cosa può essere migliorato, perfezionato o cambiato. Confrontarsi eventualmente con il docente se necessari chiarimenti.

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L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive la salute mentale come uno “stato di benessere in cui l’individuo realizza le proprie capacità, riesce a far fronte ai normali stress della vita, riesce a lavorare in modo produttivo e fruttuoso ed è in grado di dare un contributo alla propria comunità“. La salute mentale è una componente essenziale della salute generale, fondamentale per il benessere individuale e collettivo. Inoltre, è un diritto umano ed è cruciale per lo sviluppo personale, in qualsiasi fase della vita, dall’infanzia e dall’adolescenza, fino all’età adulta. Secondo la stessa OMS “non c’è salute senza salute mentale”. Nonostante ciò, nel mondo oltre un miliardo di persone, una persona su otto, soffre di problemi di salute mentale, con ripercussioni non solo sul benessere psicologico, ma anche sulla salute fisica, sulle relazioni interpersonali e sulle prospettive lavorative.

Ce ne parla il Professor Giampaolo Robert Perna, docente presso Humanitas University, responsabile del Centro per i Disturbi d’Ansia di Humanitas San Pio X e Direttore scientifico di Humanitas Psico Care, nonché membro della New York Academy of Sciences da oltre 25 anni e dell’American Psychiatric Association (APA). 

Che cos’è un disturbo mentale?

I disturbi mentali si manifestano come sindromi caratterizzate da problemi significativi nel pensiero, nella gestione delle emozioni o nei comportamenti di una persona. Questi disturbi influenzano negativamente il funzionamento mentale. Di solito, sono accompagnati da sofferenza o difficoltà nelle abilità sociali, lavorative e in altre attività quotidiane, compromettendo la qualità della vita delle persone che ne soffrono.

I disturbi mentali comprendono condizioni come ansia, depressione, psicosi e dipendenza da alcol o droghe. Questi disturbi possono insorgere a seguito di esperienze stressanti, ma talvolta si manifestano anche in loro assenza.

Quando parliamo di disturbi mentali è fondamentale distinguere il disagio mentale secondario a difficoltà di vita o a eventi negativi, dalle malattie mentali vere e proprie che sono l’espressione di un meccanismo cerebrale disfunzionale. Nel primo caso, è importante aiutare la persona a superare la fonte del disagio o a adattarsi in maniera funzionale alla situazione che gli crea disagio; nel secondo caso, è molto importante impostare un piano terapeutico vero e proprio per ritrovare un funzionamento mentale normale.

La salute mentale è solo l’assenza di disturbi mentali?

La salute mentale non è semplicemente l’assenza di disturbi mentali. Analogamente al corpo che può essere sano o ammalato e quando è sano, può essere più o meno in forma. Così dal punto di vista mentale possiamo non avere un vero e proprio disturbo mentale, quindi essere “psichicamente sani”, ma sentirci fragili, stressati, vulnerabili ed essere invasi da emozioni negative oppure sentirci sereni, coerenti, in armonia con noi stessi. Per raggiungere lo stato di benessere mentale è quindi importante lavorare su noi stessi per trovare il giusto equilibrio tra i nostri desideri, le richieste della realtà e l’ambiente relazionale e lavorativo in cui ci troviamo immersi.  

Da cosa può essere influenzata la salute mentale?

La salute mentale è influenzata da una combinazione di fattori individuali, sociali e ambientali.

Tra questi troviamo:

  • Fattori biologici e psicologici, come la genetica, la gestione delle emozioni e l’uso di sostanze.
  • Fattori sociali, come la povertà, la violenza e la disuguaglianza economica.
  • Fattori ambientali, che includono l’esposizione a situazioni di crisi o conflitti geopolitici.

Identificare e chiarire il ruolo di questi fattori e la loro reciproca interazione è importante per trovare la chiave comportamentale per ottimizzare il benessere mentale. 

Come possono influire l’infanzia e l’adolescenza sulla salute mentale?

Le esperienze vissute durante l’infanzia e l’adolescenza possono avere un impatto significativo sulla salute mentale a lungo termine. Fattori come il bullismo o una crescita in ambienti familiari instabili aumentano il rischio di sviluppare problemi di salute mentale in età adulta. Il maltrattamento infantile è uno dei fattori di rischio più importanti che influenzano lo sviluppo di veri e propri disturbi mentali in età adulta. È fondamentale tutelare l’infanzia e l’adolescenza che rappresentano i momenti chiave determinanti la resilienza e la capacità di adattarsi o meno agli eventi stressanti della vita adulta. Combattere l’abuso e il maltrattamento infantile è imperativo per una vera tutela della salute mentale. Offrire supporto emotivo e sociale adeguato ai giovani è altrettanto importante per costruire una base solida di benessere mentale.

Come migliorare la salute mentale?

Il miglioramento della salute mentale passa attraverso la promozione di stili di vita sani, l’educazione emotiva di adulti e giovani, la promozione di un comportamento prosociale attraverso un’adeguata formazione nell’analisi e modificazione dei comportamenti, la creazione di reti di supporto sociale, l’accesso a risorse e servizi adeguati. È importante anche ridurre le situazioni di isolamento sociale, promuovere l’inclusione e offrire opportunità di sviluppo personale in ambienti favorevoli. Creare ambienti positivi e sostenere le famiglie e le comunità con politiche sociali inclusive aiuta a prevenire l’insorgere di problemi di salute mentale, specialmente tra i giovani. E, quando siano presenti disturbi mentali veri e propri, offrire un supporto medico e psicologico adeguato.

Come prevenire i disturbi mentali?

In un futuro che si presenta sempre più digitale e virtuale è fondamentale trovare il giusto equilibrio tra le esperienze “reali” e quelle “virtuali”. Da una parte, soprattutto durante l’infanzia è importante regolamentare l’uso di smartphone, internet e social media e favorire i contatti diretti nel mondo reale, le esperienze sensoriali a 360° che coinvolgano il corpo per aiutare lo sviluppo di una forte resilienza e capacità di adattamento e tolleranza della frustrazione. Dall’altra parte il futuro digitale e virtuale non deve essere rifiutato ma conosciuto e approfondito dagli adulti al fine di guidare e proteggere i giovani che inevitabilmente si confrontano e si immergono nel mondo digitale che, al di là dei pericoli di isolamento e superficialità relazionale, presenta straordinarie possibilità di conoscenza e potenziamento.

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L’ansia da prestazione è un problema comune tra gli atleti, soprattutto a livelli elevati. Le competizioni sportive possono indurre pensieri disfunzionali, come la paura di sbagliare o di essere giudicati negativamente. Per affrontare al meglio le gare è essenziale imparare a gestire questa ansia. La dottoressa Cristina Di Nardo, psicoterapeuta e neuropsicologa presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Medical Care Torino Principe Oddone, ci spiega come farlo.

Che cos’è l’ansia? 

L’ansia è uno stato di preoccupazione mentale che si manifesta fisicamente con sintomi come tensione muscolare, tachicardia, sudorazione e sensazioni di caldo o freddo, e mentalmente con pensieri negativi o difficoltà di concentrazione. Può essere innescata da una combinazione di più fattori, inclusi eventi stressanti della vita quotidiana o situazioni a lungo termine che possono generare preoccupazione o, in questo caso, quando gli atleti devono eseguire un compito sotto pressione.

Che legame c’è tra ansia e sport?

Molti atleti vedono lo sport come un’opportunità di riscatto personale, che consente loro di affermarsi. Questo porta lo sportivo a riporre grandi aspettative nelle proprie performance, a cui spesso si aggiungono le pressioni di allenatori, familiari e tifosi. Di conseguenza, la paura di commettere errori o di dimenticare elementi fondamentali può alimentare l’ansia da prestazione.

Nel mondo dello sport, sia atleti che allenatori riconoscono che le emozioni legate alla competizione, e in particolare l’ansia da prestazione, sono tra i fattori più rilevanti che possono influenzare il risultato di una gara, sebbene ancora oggi non sia del tutto chiaro come esse influenzino la performance sportiva (Palazzolo, 2019).

Quali sono le cause dell’ansia da prestazione?

L’ansia da prestazione sportiva è un fenomeno complesso in cui intervengono molti fattori. Le aspettative dello sportivo, dell’allenatore ed eventualmente di familiari e tifosi, influenzano il modo in cui l’atleta affronta la situazione sportiva. In base a quanto egli si sentirà in grado di affrontare la prova, potrà sperimentare un’ansia più o meno intensa.

Fattori fisici come la stanchezza, infortuni precedenti, ma anche precedenti delusioni ed esperienze negative possono influire sullo stato ansioso dell’atleta. 

Quali sono i sintomi dell’ansia da prestazione?

I sintomi comuni dell’ansia da prestazione includono:

  • Paura di fallire o di non essere all’altezza
  • Battito cardiaco accelerato e respiro corto
  • Tremori e tensione muscolare.

A loro volta questi sintomi dell’ansia da prestazione possono far aumentare l’agitazione dell’atleta, creando un circolo vizioso che influisce sulla fiducia e sulla performance.

A cosa può portare l’ansia da prestazione?

Un certo livello di ansia è normale e può persino essere utile: può fornire la giusta carica motivazionale e migliorare la concentrazione. Tuttavia, quando l’ansia diventa elevata, può portare a diversi effetti negativi, come:

  • Peggioramento delle performances sportive (Woodman & Hardy, 2003)
  • Tendenza ad evitare allenamenti e competizioni
  • Difficoltà nell’apprendimento di nuove tecniche o nel recupero da infortuni
  • Bassa autostima e un generale peggioramento della salute mentale.

Come superare l’ansia da prestazione sportiva?

Affrontare l’ansia da prestazione richiede spesso un approccio integrato che combina preparazione mentale, tecniche di rilassamento e supporto psicologico. Una delle principali tecniche di rilassamento è la respirazione diaframmatica. Ecco come eseguirla:

1. Posizione: mettersi in posizione seduta o supina con le ginocchia piegate ed entrambe le mani sull’addome.

2. Ispirazione: inspirare profondamente cercando di gonfiare l’addome contando mentalmente 1001, 1002, 1003.

3. Espirazione: durante l’espirazione l’addome si svuota naturalmente, accompagnare lo svuotamento con una piccola contrazione dei muscoli addominali contando mentalmente 1004, 1005, 1006.

Una respirazione lenta e controllata può apportare numerosi benefici sia fisici che mentali:

  • Migliora la forma cardiovascolare
  • Riduce lo stress e l’ansia
  • Migliora la salute generale
  • Mantiene la concentrazione.

Una respirazione veloce può causare problemi come ansia, panico, vertigini e stordimento. È importante riconoscere questi sintomi e adottare tecniche di respirazione per gestirli.

Altre indicazioni per la preparazione mentale includono:

  • Visualizzazione di un luogo sicuro: immaginare un luogo dove ci si sente tranquilli e sicuri può aiutare a calmarsi
  • Supporto familiare e del coach: avere il supporto della famiglia e del coach, indipendentemente dal risultato della gara, è fondamentale
  • Aumentare la fiducia in sé stessi: credere nelle proprie capacità e avere fiducia in se stessi è essenziale per superare l’ansia.

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I disturbi alimentari, come il disturbo da alimentazione incontrollata, la bulimia nervosa e l’anoressia nervosa, sono spesso caratterizzati da una percezione distorta dell’immagine corporea, un’alimentazione limitata, abbuffate, vomito autoindotto, uso improprio di lassativi o attività sportiva eccessiva.

Sebbene vengano comunemente associati alle donne, sono presenti anche negli uomini. Tuttavia, tendono a rimanere invisibili a causa di stereotipi legati alla mascolinità e alla percezione comune che queste patologie riguardino soltanto il sesso femminile. 

L’idea di dover essere sempre forti e autosufficienti porta molti uomini a non cercare aiuto per paura di essere percepiti come deboli o “meno maschili”. Questo tabù può rendere difficile ammettere di avere un problema alimentare e cercare aiuto.

 Ce ne parla dott. Andrea Catena, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.

Disturbi alimentari maschili: una questione diagnostica

Le difficoltà diagnostiche dei disturbi del comportamento alimentare negli uomini derivano, come detto, da una pletora di fattori culturali, clinici e psicologici che influenzano il riconoscimento precoce del disturbo e l’accesso al trattamento. Gli ostacoli sono molteplici: 

  • Stereotipi di genere/vergogna e stigma: i disturbi alimentari vengono spesso (ed erroneamente) considerati disturbi ad esclusivo appannaggio femminile; questa convinzione sociale scoraggia molti uomini dal riconoscere, accettare i propri sintomi e quindi chiedere aiuto. Inoltre soggetti di sesso maschile tendono a sperimentare alti livelli di vergogna.
  • Sintomatologia differente: gli uomini con un disturbo alimentare tendono a focalizzarsi maggiormente sull’aumento della massa muscolare piuttosto che sulla magrezza estrema (mediamente, ma non sempre).
  • Comportamenti compensatori mascherati: l’esercizio fisico eccessivo viene spesso normalizzato o addirittura incoraggiato dalla società, rendendo meno evidente nel panorama maschile il suo legame con un disturbo alimentare.
  • Diagnosi ritardata a causa di strumenti diagnostici non sempre adeguati: a causa della visione stereotipata del disturbo, il riconoscimento dei sintomi alimentari può diventare complesso anche per i professionisti; inoltre, sebbene gli strumenti diagnostici utilizzati clinicamente abbiano subito revisioni per includere una più vasta gamma di manifestazioni sintomatologiche maschili, molte diagnosi vengono ancora perse o ritardate perché gli uomini tendono a non soddisfare i classici criteri diagnostici.
  • Comorbidità psichiatriche: il quadro si complica ancor di più al netto del fatto che spesso i disturbi alimentari maschili si manifestano in concomitanza con altri disturbi, come disturbi dell’umore o disturbi da abuso di sostanze. Questi sintomi possono confondere il quadro clinico, portando i professionisti a trattare prima la comorbidità piuttosto che il disturbo alimentare.

Cosa causa i disturbi alimentari negli uomini?

I disturbi alimentari nella popolazione maschile, così come quelli femminili, sono il risultato di un complesso intreccio di fattori culturali, psicologici e biologici. Tuttavia, negli uomini esistono alcuni elementi distintivi che li rendono particolarmente vulnerabili. Da un punto di vista culturale, la società post-moderna promuove ormai da tempo un ideale di mascolinità associato a forza fisica e controllo. I modelli maschili diffusi dai media, dalle pubblicità ai social network, propongono e promuovono un’immagine del corpo maschile sempre più muscoloso e scolpito. 

Questo crea chiaramente una forte pressione nella popolazione di sesso maschile, che si sente spinta a raggiungere standard irrealistici di perfezione fisica.

Sul piano psicologico, molti uomini sviluppano sintomi riconducibili a un disturbo alimentare in risposta a un nucleo di bassa autostima; il bisogno di sentirsi adeguati agli standard sociali di bellezza maschile può portare a comportamenti patologici legati ad alimentazione ed esercizio fisico

Esistono infine anche fattori biologici predisponenti: alcuni studi suggeriscono che ci possano essere componenti genetiche e neurobiologiche che predispongono alcuni individui, sia uomini che donne, a sviluppare disturbi alimentari. Ciò che cambia è la loro interazione con un contesto culturale che, inevitabilmente, crea rimandi differenti per gli uomini e per le donne.

Quali uomini sono più a rischio di sviluppare disturbi alimentari?

Non tutti gli uomini sono ugualmente esposti al rischio di sviluppare un disturbo alimentare. Alcuni gruppi sembrano essere più vulnerabili di altri, come:

  • Atleti: gli uomini che praticano sport a livello agonistico, che richiede quindi un controllo del peso o un’elevata muscolatura sono particolarmente esposti. Bodybuilder e atleti possono sviluppare una vera e propria ossessione per la propria composizione/forma corporea, spingendosi anche all’utilizzo di strumenti potenzialmente pericolosi come steroidi e anabolizzanti.
  • Adolescenti e giovani uomini: la fase di transizione dall’adolescenza all’età adulta rappresenta un periodo critico nello sviluppo dell’identità personale e corporea. I ragazzi che crescono in un contesto in cui l’aspetto fisico è ipervalutato possono sentirsi insicuri e ricorrere a comportamenti alimentari disfunzionali per ottenere un corpo socialmente validabile.
  • Professionisti in ambito media e moda: gli uomini che lavorano in settori in cui l’immagine personale è cruciale – come attori, modelli, influencer – subiscono una pressione continua per mantenere un corpo “perfetto”. 

Quali sono i sintomi più comuni dei disturbi alimentari negli uomini?

Negli uomini, i disturbi alimentari si manifestano più spesso con la dismorfia muscolare, un disturbo psicologico caratterizzato da una percezione distorta del proprio corpo e da una preoccupazione ossessiva per la propria muscolatura.

I comportamenti sintomatici della dismorfia muscolare possono includere:

  • Esercizio fisico ossessivo: allenamenti intensi e frequenti per aumentare la massa muscolare, anche quando il corpo avrebbe bisogno di riposo
  • Dieta iperproteica e restrittiva: consumo eccessivo di proteine e regimi alimentari rigidi. Molti uomini con dismorfia muscolare adottano regimi alimentari eccessivamente rigidi, con un consumo elevato di proteine e l’eliminazione di gruppi alimentari considerati “inutili” o dannosi per la crescita muscolare
  • Uso di integratori e farmaci: assunzione di integratori, farmaci o steroidi anabolizzanti per accelerare lo sviluppo muscolare.
  • Percezione distorta del corpo: nonostante una muscolatura visibilmente sviluppata, le persone affette da dismorfia muscolare si vedono come deboli o poco muscolose, alimentando ulteriormente il loro desiderio di aumentare la massa.

A quali conseguenze possono portare i disturbi alimentari negli uomini?

Questi comportamenti, seppur percepiti spesso come “pratiche salutari”, possono comportare gravi rischi per la salute. L’abuso di integratori e steroidi, insieme a un allenamento eccessivo, possono avere conseguenze a lungo termine, tra cui danni agli organi, squilibri ormonali e problemi cardiovascolari. Tuttavia, poiché questi comportamenti sono comunemente associati a uno stile di vita “sano”, possono passare inosservati, ritardando così il riconoscimento e il trattamento del disturbo.

Riconoscere i segnali e differenziare le pratiche salutari da comportamenti disfunzionali è fondamentale per prevenire conseguenze negative e promuovere una gestione equilibrata del proprio corpo.

Come si curano i disturbi alimentari negli uomini?

Il trattamento della dismorfia muscolare richiede un approccio multidisciplinare. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) si è rivelata efficace nel ridurre i pensieri distorti e ossessivi riguardanti il corpo e nell’insegnare strategie per affrontare i comportamenti compulsivi. Anche il supporto psicologico e la consulenza nutrizionale giocano un ruolo fondamentale nel trattamento.

In alcuni casi, può essere necessaria l’interruzione dell’uso di steroidi e altri farmaci per migliorare la salute fisica e ridurre i rischi associati a tali sostanze.

Come possono gli uomini superare lo stigma e cercare aiuto per i disturbi alimentari?

Uno dei principali ostacoli per gli uomini che soffrono di disturbi alimentari è sicuramente lo stigma sociale. La paura di essere considerati deboli o “meno uomini” può spingere a nascondere o a non considerare il problema, rimandando drammaticamente il momento in cui decidono di chiedere aiuto. Tuttavia, superare questo tabù è fondamentale. Sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere una visione più flessibile della mascolinità è un passo cruciale per creare un ambiente in cui gli uomini possano sentirsi liberi di tematizzare le proprie difficoltà e la propria sofferenza senza il timore di essere giudicati, grazie anche al supporto di familiari e amici. Il cambiamento sociale è lento e progressivo, ma tutti noi, nella nostra piccola soggettività, possiamo fare la differenza.

I disturbi alimentari negli uomini sono un fenomeno serio e reale, che merita ben più attenzione di quella che ha poi in realtà. Chiedere aiuto non è segno di debolezza, ma, anzi, di grande forza. 

Quando si parla di cura dei disturbi alimentari, che si tratti di un soggetto di sesso maschile o femminile, la tempestività d’intervento è la chiave. Il tasso di remissione dipende infatti fortemente dalla rapidità dell’intervento terapeutico; gli interventi precoci hanno dimostrato di migliorare significativamente i tassi di remissione rispetto agli interventi tardivi, sia per gli uomini che per le donne. Le evidenze scientifiche infatti dimostrano come circa il 50-70% delle persone con disturbi alimentari raggiunge la remissione sintomatica con un intervento precoce, scendendo notevolmente (20-30%) con interventi tardivi a distanza di anni dall’esordio sintomatico. Gli uomini tendono a chiedere aiuto più tardi rispetto alle donne, spesso per l’errata percezione che i disturbi alimentari siano solo “problemi femminili”. Tuttavia, anche per loro un intervento precoce migliora significativamente i risultati, portando a un tasso di remissione sovrapponibile a quello della popolazione femminile. Questo dimostra come le differenze di sesso nei tassi di remissione sono spesso spiegati dal fatto che gli uomini tendano a chiedere aiuto meno spesso e più tardi rispetto alle donne; una volta iniziato il trattamento, però, non emergono significative differenze di sesso nei risultati, sebbene le sfide psicologiche possano variare anche notevolmente. 

Quali sono i campanelli d’allarme dei disturbi alimentari maschili?

  • Cambiamenti comportamentali evidenti (adozione di diete rigide ed estreme, conteggio calorico ossessivo, utilizzo massivo di tecniche compensative come l’esercizio fisico).
  • Modifiche significative delle abitudini alimentari (mangiare troppo poco, abbuffarsi (il cheat day o giorno di sgarro, in cui è possibile allontanarsi dal regime alimentare che si sta seguendo e concedersi dei pasti al di fuori delle restrizioni della dieta) rituali insoliti durante i pasti, come spezzettare il cibo in piccoli pezzi).
  • Sintomi fisici (importanti fluttuazioni di peso, fatica costante, vertigini, problemi gastrointestinali, tutti segnali di stress fisico legato al comportamento alimentare).
  • Isolamento sociale (evitare situazioni sociali legate al cibo come pranzi e cene, ritiro dalle relazioni che un tempo erano significative).

In questi casi rivolgersi a una equipe multidisciplinare (medico, psicoterapeuta, nutrizionista) è il primo passo verso il recupero.

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Il rientro dalle vacanze può essere stressante, con il ritorno ai ritmi frenetici, scadenze serrate e ambienti di lavoro competitivi. Questa situazione può scatenare un’ansia da lavoro correlata, caratterizzata da preoccupazioni e difficoltà a riprendere la routine quotidiana. Vi è progressivamente una disregolazione del nostro sistema dello stress, associato a modifiche ormonali che rendono il nostro corpo e la nostra mente più “stanchi” e sofferenti, facendoci perdere i benefici delle vacanze appena trascorse

Ce ne parla il dott. Francesco Cuniberti, medico psichiatra, specialista in disturbi depressivi, d’ansia e di panico, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Principe Oddone a Torino.

Quali sono i sintomi dell’ansia da lavoro?

I sintomi più comuni dell’ansia da lavoro includono:

  • Aumento di stanchezza e irritabilità
  • Riduzione della capacità di concentrazione e di attenzione
  • Maggior rischio di commettere errori, innescando un circolo vizioso di insicurezze
  • Riduzione dell’autostima
  • Rinuncia a incarichi, opportunità o promozioni per paura di maggiore ansia e stress.

Con il calo dell’autostima, l’aumento dell’ansia e il deterioramento del benessere fisico, lo stress lavorativo inizia a influenzare negativamente sia l’ambiente familiare che quello professionale.

Quali sono le conseguenze dell’ansia sul lavoro?

Quando lo stress lavorativo diventa insostenibile, le conseguenze sul lavoro diventano evidenti, aumentando lo stato di insofferenza, il rapporto con i colleghi, la capacità di lavorare correttamente e il rischio di commettere errori. Ma i problemi non riguardano solo la persona, ma anche il rapporto con i familiari e la vita quotidiana. Inoltre, può compromettere anche la salute fisica, diventando un fattore di rischio per diverse patologie come quelle cardiovascolari, specie se sono associate a orario di lavoro eccessivo, abitudine al fumo, obesità e ipertensione.

Se non affrontato, lo stress lavorativo cronico può portare anche allo sviluppo di veri e propri disturbi del sonno, d’ansia e depressione. In alcuni casi, si manifestano attacchi di panico improvvisi, detti “a ciel sereno”, e in situazioni più gravi può essere necessario un intervento specialistico, sia psichiatrico che psicoterapeutico.

Cosa fare quando si presentano i sintomi dell’ansia da lavoro?

Riuscire a mettere come priorità il proprio benessere è essenziale per poter ritrovare la serenità lavorativa e familiare persa. Fondamentale è confidare le difficoltà alle persone vicine, ai familiari o a qualche collega con cui si è più in confidenza. Infatti, condividendo le difficoltà, spesso si può scoprire che altri le hanno già vissute e superate. E in questo modo, non sentirsi sbagliati e non vergognarsi delle proprie difficoltà. Pertanto, è importante:

  • Prendersi cura di sé: mantenere la calma e dedicare del tempo al proprio benessere fisico e mentale. Questo aiuta a gestire meglio il ritorno al lavoro.
  • Curare lo stile di vita: regolare il ritmo sonno-veglia, alimentarsi correttamente, fare attività fisica e ridurre l’uso di sostanze eccitanti come caffè e bevande gassate.
  • Rendere confortevole l’ambiente di lavoro: organizzare la scrivania, inserire oggetti personali che trasmettano tranquillità e riducano l’ansia.
  • Condividere momenti di pausa con i colleghi.

Infine, se lo stress persiste, valutare la possibilità di chiedere un aiuto specialistico, così valutare un possibile cambio di mansioni o, perfino, la possibilità di un nuovo lavoro per interrompere il circolo vizioso dell’ansia lavoro correlata e trovare nuovi stimoli e prospettive.

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L’aracnofobia, o paura dei ragni, è una fobia specifica caratterizzata da una paura intensa dei ragni e di altri aracnidi. Quando entra in contatto con un ragno o pensa a questo animale, la persona aracnofobica prova una paura spesso invalidante, sperimentando uno stato d’ansia che può influenzare significativamente la qualità della vita.

È una delle fobie specifiche più comuni, con una prevalenza di circa il 5% nella vita. Colpisce più frequentemente le femmine rispetto ai maschi. Le fobie specifiche come l’aracnofobia tendono a manifestarsi precocemente e sono associate a un rischio maggiore di sviluppare altri disturbi d’ansia e depressione nel corso della vita.

Ce ne parla la dott.ssa Elena Catenacci, psicologa di Humanitas PsicoCare.

Quali sono i sintomi dell’aracnofobia?

I sintomi tipici dell’aracnofobia includono:

  • Intensa paura alla vista o al pensiero di un ragno
  • Ansia sproporzionata rispetto al reale pericolo rappresentato dal ragno
  • Evitamento di luoghi o situazioni in cui potrebbero esserci ragni.

La paura e l’ansia si manifestano con: 

  • Difficoltà respiratorie
  • Battito cardiaco accelerato
  • Nausea
  • Sudorazione
  • Tremori 
  • Desiderio di fuggire.

Quali sono le cause dell’aracnofobia?

L’aracnofobia, come tutte le fobie, è influenzata da diverse variabili. Le principali cause che possono contribuire allo sviluppo della paura dei ragni sono:

  • Esperienze negative pregresse: assistere a una scena spaventosa o subire un morso di ragno velenoso possono rappresentare delle esperienze di apprendimento importanti, che condizioneranno le reazioni psicofisiche ogni qualvolta ci si troverà in condizioni simili nel futuro (ad esempio alla sola vista di un ragno).
  • Componente evolutiva: alcuni studi suggeriscono che la paura dei ragni (come quella di altri animali, come i serpenti) potrebbe essere innata e legata alla sopravvivenza, quindi non a esperienze specifiche del soggetto.
  • Credenze culturali o religiose: alcuni contesti culturali o religiosi specifici, possono influenzare il modo in cui una persona percepisce l’oggetto della propria paura.
  • Influenza genetica: la predisposizione alle fobie può essere ereditata. Se un familiare soffre di aracnofobia o di altre fobie, è più probabile che anche un altro membro della famiglia possa svilupparla.
  • Ambiente familiare: crescere in un contesto che enfatizza o trasmette paure specifiche può contribuire alla formazione di una fobia, come l’aracnofobia.

Come viene diagnosticata l’aracnofobia?

Secondo il DSM-5, per diagnosticare una fobia specifica, i sintomi devono persistere per almeno sei mesi e causare un disagio significativo o interferire con la vita quotidiana. Durante la valutazione, lo specialista esaminerà la durata e l’intensità dei sintomi, oltre a raccogliere informazioni sulla storia clinica del paziente e sulle sue capacità di affrontare la situazione.

Come si può trattare l’aracnofobia?

L’aracnofobia, come altre fobie specifiche, è generalmente trattata con la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), attraverso più fasi:

1. Psicoeducazione: la persona viene messa a conoscenza dei cambiamenti fisiologici che compongono la sua paura e dei meccanismi che ne regolano l’intensità. In questa fase, si analizzano i comportamenti che mantengono l’aracnofobia nel tempo, come l’evitamento o l’uso di comportamenti protettivi. Comprendere il meccanismo della fobia aiuta il paziente a lavorare su di sé e a ridurre il senso di impotenza, rafforzando la motivazione al cambiamento.

2. Tecniche di respirazione/rilassamento: vengono insegnate strategie che aiutano a diminuire i livelli di paura e riappropriarsi della propria dimensione corporea.

3. Ristrutturazione cognitiva: attraverso il colloquio clinico e l’utilizzo di strumenti come schede e diari giornalieri, vengono individuati e messi in discussione pensieri automatici, credenze, immagini e ricordi che possono ostacolare il superamento dell’aracnofobia.

4. Esposizione alle situazioni temute: consiste nel presentare, ripetutamente e in un ambiente sicuro, la situazione o l’oggetto di cui si ha paura. La desensibilizzazione permette al paziente di sviluppare una tolleranza alla situazione spaventosa, favorendo l’acquisizione di nuovi ricordi che possono sostituire quelli angosciosi. 

Durante questa fase, si individuano gli obiettivi desiderati (possono essere molto diversi da persona a persona) e si stila una lista di situazioni evitate o affrontate con estremo disagio, per poi affrontarne una alla volta, con criteri di gradualità e sequenzialità.

Il criterio della gradualità richiede di suddividere il percorso in piccoli passi, assicurandosi che ciascuno di essi generi un livello di ansia gestibile e mai eccessivo. Ad esempio, un primo passo per una persona con aracnofobia importante e invalidante potrebbe essere quello di nominare la parola “ragno”, scriverla oppure ascoltarla. I passi successivi potrebbero includere vedere un ragno disegnato in modo stilizzato, disegnato in modo realistico, poi in foto/video. Infine, si potrebbe passare all’esposizione al ragno dal vivo.

Il criterio di sequenzialità implica che non sia consentito procedere con il passo successivo se non si è adeguatamente superato quello precedente. Ad esempio, non è possibile chiedere alla persona di toccare un ragno se prima non si è superato il passo di guardarlo nelle mani di un’altra persona, senza toccarlo.

In questo modo la persona riuscirà, in breve tempo, ad affrontare l’intera gamma delle situazioni temute fino a quando sarà in grado di raggiungere l’obiettivo finale desiderato.

5. Esposizione in immaginazione: più flessibile e utilizzabile in caso di terapie da remoto.

6. Terapie che utilizzano la realtà virtuale: la persona viene esposta gradualmente a rappresentazioni virtuali di ragni, riducendo la risposta fobica nel tempo.

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Bibliografia:

  • Terapia di esposizione alla realtà virtuale per la paura dei ragni: uno studio aperto e di fattibilità di un nuovo trattamento per l’aracnofobia di Giacobbe Andersson,Joel Hallin,Anders Tingströme di Jens Knutsson
  • Trattamento dei disturbi d’ansia. Guide per il clinico e manuali per chi soffre del disturbo. G.Andrews. Centro Scientifico Editore, 2003
  • Il manuale dell’ansia e delle preoccupazioni. La soluzione cognitivo comportamentale. David A. Clark, Aaron T. Beck. Positive Press, 2016.
  • Fondamenti di psicologia e psicoterapia cognitivo comportamentale.
  • Modelli clinici e tecniche d’intervento. G. Melli, C. Sica Erickson, 2018.
  • Erickson Advantages

La lettura è molto più di un semplice passatempo. È un potente strumento di crescita personale, che favorisce la nostra capacità di comprendere il mondo e sviluppare empatia verso gli altri. Ce ne parla la dott.ssa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

Quali sono i benefici della lettura?

La lettura coinvolge i processi psicologici, inclusi quelli cognitivi, emotivi e sociali, apportando numerosi benefici. Leggere promuove la crescita personale, favorisce la visione critica e l’empatia, ci aiuta a trovare risposte alle domande della vita, ampliando le nostre prospettive. Inoltre, ci incoraggia a ritagliarci spazi personali di “solitudine scelta” e, a differenza dei film, ci offre un ruolo più attivo nella costruzione delle storie.

Durante la lettura, il nostro cervello può percepire di aver vissuto le esperienze descritte nei libri, creando una connessione profonda con il testo.  La lettura attiva gli stessi neuroni coinvolti in altre attività, come scrivere, correre o semplicemente toccare un oggetto, rendendo l’esperienza particolarmente coinvolgente.

Recenti studi* dimostrano che la lettura è uno dei metodi più efficaci per rilassarsi. Anche solo 6 minuti di lettura al giorno possono ridurre i livelli di stress del 68%, diminuendo la frequenza cardiaca e la tensione muscolare. La lettura rappresenta un potente strumento di rilassamento, capace di generare un senso di evasione e stimolare la produzione di immagini mentali.

Infine, leggere e comprendere le emozioni dei personaggi aiuta a migliorare la nominazione, comprensione, espressione e riconoscimento delle emozioni in sé e negli altri; definisce le opportunità di comprensione dei problemi personali, e dunque crescita emotiva e guarigione; aiuta a creare una distanza di sicurezza, soprattutto con bambini e adolescenti, portando la persona indirettamente al limite delle questioni sensibili, forse troppo minacciose e dolorose da affrontare direttamente.

Attraverso l’identificazione con i personaggi delle storie, i bambini imparano a risolvere le difficoltà di amicizia, gestione della rabbia, paura, divorzio e trasferimento. Questo li aiuta a trovare soluzioni per risolvere questi problemi.

Per gli adolescenti, identificarsi coi personaggi delle storie può ridurre significativamente il senso di isolamento e alienazione, spesso presenti in questa fase della vita. La lettura di libri o storie aiuta a sviluppare una nuova visione dei problemi, stimola l’identificazione coi personaggi e favorisce la comprensione di alcune tematiche interne ed esterne. 

Libroterapia: quali libri scegliere?

Romanzi, biografie, poesie e racconti, sono tutti utili a generare riflessioni atte a favorire il benessere psicologico per ragazzi e adolescenti con la libroterapia.

La libroterapia è l’uso dei libri e della letteratura per migliorare il benessere psicologico. Si divide in due principali categorie:

1. Libroterapia clinica: utilizzata come metodologia al servizio della psicoterapia per ottenere benefici psicologici mirati.

2. Libroterapia umanistica (o umanistico-educativa): mira ad obiettivi specifici, come la prevenzione del bullismo, senza finalità di cura.

La libroterapia può essere impiegata in vari modi:

  • Condivisione di gruppo: permette di condividere con altri il senso personale ricavato dalla lettura di un testo e dare avvio ad un percorso di enpowerment.
  • Integrazione nella psicoterapia: le riflessioni derivanti dalla lettura possono essere utilizzate e integrate nel percorso psicoterapico. 

*Studio condotto dal Dr. David Lewis “Reading a Book Can Reduce Stress by 68 Percent”; “Iniziazione alla libroterapia”, di Manuela Racci.

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