Rousseau sosteneva che il piacere derivante dall’osservare le disgrazie altrui fosse collegato a un senso di “distacco sicuro”, una condizione che nasce dal fatto di non essere direttamente coinvolti nella sofferenza osservata. Questo fenomeno si manifesta, ad esempio, quando assistiamo a incidenti o catastrofi attraverso i media: il dolore viene vissuto indirettamente, senza il rischio di un coinvolgimento personale nella sofferenza reale, assecondando un impulso voyeuristico senza mettere a rischio la propria sicurezza.

Ce ne parla il dottor Pietro Ramella, psicologo e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare.

Cosa spinge alla curiosità morbosa?

La ricerca suggerisce che la curiosità umana verso gli stimoli negativi, come scene di morte o sofferenza, permette di acquisire una conoscenza più profonda del mondo. Gli esseri umani, infatti, tendono a esplorare ciò che appare nuovo o sconosciuto e gli stimoli negativi possono rappresentare una fonte di informazioni particolarmente rilevante.

Christian Unkelbach e colleghi hanno suggerito che le informazioni negative spesso vengono percepite come uniche, mentre le informazioni positive tendono a essere più simili tra loro. Gli eventi che ritraggono morte, violenza o disastri si discostano dalla norma e, per questo, risultano essere fonti di informazioni relativamente più rare. Questo contribuisce a un maggiore “guadagno informativo”, poiché questa rarità delle informazioni le rende più interessanti e degne di approfondimento.

Le scene che evocano emozioni negative stimolano domande spontanee, come: “Cos’è successo?”, “Quali sono le relazioni tra le persone?”, “Cosa succederà dopo?”. Questo impulso a colmare il divario informativo spinge le persone a trovare risposte a domande sempre più complesse.

Tuttavia, la curiosità verso stimoli negativi non è motivata esclusivamente dal desiderio di ottenere informazioni. In alcuni casi, può essere spinta anche dalla volontà di provare empatia o simpatia per le persone coinvolte[1].

Per meglio comprendere questo processo bisognerebbe chiaramente contestualizzarlo e personalizzarlo: “Chi è la persona che sta osservando lo stimolo negativo se così possiamo chiamarlo? In che fase di vita si trova? Che tipo di personalità la caratterizza?”.

Rispondendo a ognuna di queste domande potremmo sicuramente avere una comprensione più approfondita. 

Vi sono alcune abilità che vengono insegnate in alcuni percorsi psicoterapici dove anche solo l’immaginare eventi negativi accaduti in passato o ad altri potrebbe permetterci di comprendere meglio lo stato di benessere in cui ci troviamo oggi. 

Sicuramente parlare di curiosità sadica sarebbe troppo superficiale. È comunque probabile che a seconda di come la persona si sente quando si trova di fronte a certe notizie, il suo stato d’animo e il suo umore in quel momento incrementino o meno l’interesse nell’osservare/approfondire questi stimoli.

Se una persona ha vissuto un lutto o un evento catastrofico potrebbe essere “attratta” da un certo tipo di notizie per vari motivi, come per esempio l’essere più portata a empatizzare e a comprendere le dinamiche emotive che possono far parte di quell’evento. In caso contrario potrebbe invece essere spinta a “cambiare canale” proprio per evitare quel tipo di stimolo. Anche l’evitamento emotivo è un meccanismo di difesa, sebbene la società odierna abbia incrementato in modo esponenziale i canali attraverso i quali siamo costantemente bombardati da notizie di ogni genere. Per cui un’altra ipotesi potrebbe essere quella dell’abituazione allo stimolo: in sintesi siamo così “abituati” a vedere/ascoltare scene cruenti, catastrofiche, dolorose che potremmo aver innalzato la nostra soglia di sopportazione arrivando quindi quasi a un evitamento emotivo, proteggendoci da quelle immagini con il distacco. 

Che ruolo ha lo streaming live nell’osservazione degli eventi significativi?

Negli ultimi anni l’aumento della frequenza e della gravità degli eventi meteorologici estremi ha catturato l’attenzione di tutto il mondo. Il pubblico è sempre più attratto dalle riprese drammatiche trasmesse in diretta su piattaforme social. Uno studio dell’Università di Plymouth,  prendendo in esame tre eventi significativi (l’uragano Irma nel 2017, l’uragano Ian nel 2022 e le tempeste Dudley, Eunice e Franklin del 2022) ha evidenziato che molte persone nelle aree colpite utilizzavano questi flussi per discutere i consigli ufficiali del governo riguardanti l’evacuazione e altre misure di sicurezza. Sebbene il desiderio di seguire lo streaming live di eventi estremi possa essere dettato anche dalla spettacolarità dell’evento e dal legame che la persona può avere con le aree colpite, lo studio ha dimostrato che gli spettatori utilizzavano questi streaming soprattutto per capire meglio le dinamiche dei pericoli e valutare l’affidabilità delle fonti di informazione (sebbene la comunicazione dei rischi da parte degli scienziati sia diventata ormai accessibile a tutti, molte persone preferiscono discutere delle dinamiche del pericolo in contesti più informali).

In questo contesto, i flussi rappresentano quindi una nuova forma di testimonianza collettiva che favorisce l’apprendimento, la solidarietà e la costruzione di comunità.

In che modo i disastri facilitano la connessione tra le persone?

I disastri mettono le persone in una situazione di sofferenza condivisa, rendendo più facile comunicare e condividere le proprie emozioni. Questo può portare a una connessione più profonda tra le persone, favorendo l’aiuto reciproco e creando un senso di comunità. Condividere la sofferenza aumenta la probabilità che le persone si sostengano a vicenda, proteggendo anche se stesse dagli effetti negativi dello stress[2].

Come si può promuovere la compassione e l’altruismo anche in assenza di catastrofi?

Per far crescere la compassione anche fuori dai momenti di emergenza, è utile mostrare gli effetti positivi del sostegno agli altri anche in tempi normali. Ad esempio, si possono creare occasioni per far vedere come le azioni di aiuto abbiano un impatto positivo su chi le riceve, mostrando i risultati ottenuti. Questo può spingere le persone a essere più motivate ad aiutare, anche senza una situazione di crisi. Far vedere concretamente l’effetto delle azioni di solidarietà aiuta a rafforzare la voglia di essere d’aiuto, a prescindere dalla presenza di un disastro[3].

Dark tourism perché le persone vogliono andare nei luoghi dei disastri?

Il turismo dei disastri naturali rappresenta una forma singolare di esplorazione turistica, dove la principale motivazione è osservare i fenomeni naturali estremi e i loro effetti: i turisti sono attratti dal rischio e dall’esperienza diretta di eventi catastrofici.

Le principali motivazioni che spingono i turisti a visitare luoghi di disastri naturali possono essere suddivise in tre categorie principali:

  • L’attrazione per la bellezza selvaggia e indomita delle aree colpite da eventi estremi.
  • L’unicità e la natura temporanea di questi fenomeni, che li rendono particolarmente affascinanti.
  • La possibilità di vivere sensazioni forti osservando il potere distruttivo della natura[4].

Il turismo dei disastri naturali può essere suddiviso in due periodi principali, ciascuno caratterizzato da diversi livelli di rischio e interesse turistico: durante o subito dopo l’evento estremo e nel periodo successivo all’evento. Tuttavia, l’interesse per il turismo dei disastri tende a diminuire drasticamente entro poco tempo dall’evento[5].

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Come affrontano i bambini la perdita di una persona amata? Come dirgli che un loro caro, un parente o un amico a cui volevano bene non c’è più? Non possiamo proteggerli dal dolore di una perdita (soffriranno esattamente come noi) ma possiamo aiutarli ad elaborare il lutto nel modo giusto. Come? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Ylenia Canavesio, neuropsicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

Come dire ad un bambino che una persona a cui volevano bene non c’è più?

Non possiamo sapere come un bambino potrà reagire all’annuncio di una morte perché ognuno è diverso dall’altro. Tuttavia, sappiamo che cosa dobbiamo dirgli, ovvero, la verità. Utilizzando parole semplici e dirette, come: “Ho una notizia triste da darti, la nonna oggi è morta”. Non “la nonna si è addormentata”, perché non sarebbe vero.

Per i più piccoli, il concetto del “per sempre” non è facile da capire (pensano che prima o poi la persona tornerà); mentre i bambini più grandi (tra i 6 e i 9 anni) iniziano a comprendere il concetto di irreversibilità della morte ma, allo stesso tempo, vivono con estrema paura e ansia l’abbandono delle figure amate e

potrebbero avere tante domande da fare. Il compito dell’adulto sarà quello di rispondere in modo chiaro e onesto.

Come può reagire un bambino di fronte al lutto?

Generalmente, lo stadio dopo la morte di una persona amata è caratterizzato da un sentimento di confusione e incredulità, accompagnato dalla negazione della situazione (“Vedrò di nuovo il mio papà, verrà a prendermi a scuola”) e del per sempre (“Il mio papà se ne è andato solo per un po’”); dalla sensazione che la persona sia ancora viva e dalla convinzione di vederla ancora o, per esempio, di sentire la sua voce, vedere la sua macchina. La rabbia, la tristezza e senso di solitudine sono vissuti predominanti in questa fase.

Queste emozioni intense portano spesso il bambino a pensare alla perdita, cercando di trovare il senso di quanto è accaduto interferendo nel suo quotidiano. 

Per i bambini, tuttavia, può essere difficile esternare questo dolore attraverso le parole, ed è più facile che reagiscano manifestando alcuni disagi nel comportamento con sintomi fisici, collegati allo shock della perdita: crisi frequenti di rabbia e aggressività; regressioni a fasi precedenti dello sviluppo; disturbi del sonno con incubi e risvegli notturni; perdita dell’appetito; pianti disperati; forti grida e tremori, seguiti dal momento della nostalgia, mancanza o ricerca della persona amata.

Come aiutare un bambino a superare un lutto?

Non possiamo proteggere i bambini da un lutto e anche loro, come gli adulti, hanno il diritto di soffrire per la perdita di una persona cara. Tuttavia, ci sono alcune strategie che possiamo adottare per aiutarli a elaborare meglio la morte di una persona cara, come:

1. Dire sempre la verità

2. Non nascondere le nostre emozioni

3. Rispondere alle domande

4. Per i bambini più grandi può essere utile partecipare al funerale

5. Creare dei ricordi con delle foto di momenti belli trascorsi insieme

6. Fargli scrivere una lettera o un biglietto, oppure fare un disegno per la persona morta, per permettergli di esprimere quelle emozioni difficili da dire a voce

7. Ricordare al bambino che quella persona avrà sempre un posto speciale nel suo cuore

8. Raccontare cosa cambierà (per esempio, “Verrà la zia a prenderti a scuola perché io dovrò passare qualche giorno con il nonno”).

Come spiegare a un bambino dov’è andata la persona morta?

Spesso i genitori non sanno cosa rispondere quando un bambino gli chiede dove va una persona dopo la morte. In realtà non c’è una risposta sola. Dipende molto dai propri valori, dalla fede e dal credo della famiglia. La cosa importante è fargli capire che anche se una persona cara non c’è più, continuerà a vivere nel cuore di chi gli ha voluto bene.

Dire: “Sai che non lo so?” quando non ci sentiamo sufficientemente pronti a rispondere a certe domande, va bene. Ci è consentito prenderci del tempo per rifletterci su e prepararci, l’importante però è tornare sulla domanda appena possibile e dare una risposta.

Quando è necessario rivolgersi a uno specialista?

Ogni bambino è diverso e può affrontare la morte di una persona importante con tempi e reazioni differenti. Non ci sono comportamenti e tempistiche giuste o sbagliate. La cosa importante è che i genitori continuino a monitorare il comportamento del bambino, osservando il suo umore e valutando il modo in cui sta affrontando la situazione, sapendo che in qualsiasi momento, possono chiedere un confronto a un terapeuta dell’età evolutiva.

Quando sentiamo di non poter dare il giusto supporto al piccolo perché siamo troppo coinvolti dal dolore della perdita, possiamo chiedere un aiuto a figure adulte vicine al bambino. Alcuni bambini, quando percepiscono che il genitore è sopraffatto dal dolore, pensano che non vi sia spazio per il proprio.

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La festa di Halloween porta con sé zucche, fantasmi, zombie e ragni, elementi che ormai fanno parte della tradizione anche in Italia. Tuttavia, se per molti rappresenta un’occasione di festa, per alcuni può diventare motivo di ansia e stress, soprattutto per chi soffre di fobie. Questo “panico da Halloween”, può essere legato a paure specifiche, causando reazioni psicofisiche come ansia e malessere.

La dottoressa Elena Catenacci, psicologa di Humanitas PsicoCare, ci spiega come superare la paura durante la notte di Halloween.

Perché Halloween può suscitare paura?

Halloween tende a esaltare alcune fobie, ovvero paure patologiche e irrazionali che generano reazioni eccessive come attacchi di panico. Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), esistono quattro sottotipi specifici di fobia:

1. Fobie degli animali: come paura di cani, ragni, serpenti

2. Fobie di eventi ambientali o naturali: come timore di altezza, temporali, acqua

3. Fobie di sangue, lesioni e ferite

4. Fobie situazionali: legate a trasporti pubblici, tunnel, luoghi chiusi o volare.

Qual è la differenza tra paura e fobia?

La paura è una risposta fisiologica al pericolo o alle minacce percepite. Svolge una funzione “protettiva”, aiutando le persone a rispondere prontamente a situazioni pericolose o sconosciute. Questa reazione può variare d’intensità in base alla gravità dell’evento e tende a scomparire una volta gestito o eliminato lo stimolo. Ad esempio, sentirsi spaventati di fronte a un cane aggressivo per strada è una risposta normale e istintiva, che ci aiuta a preservare la nostra sicurezza.

Al contrario, la fobia rappresenta una paura intensa, irrazionale e persistente verso un oggetto, una situazione o un’attività specifica, spesso priva di reale pericolo. Le fobie non sono semplici reazioni di paura, ma vere e proprie condizioni di ansia che spingono chi ne soffre a evitare situazioni, anche se innocue, che potrebbero provocare stress o angoscia. Ad esempio, una persona con una fobia dei cani potrebbe sperimentare un’ansia estrema anche solo vedendo un cane a distanza o immaginandolo, pur sapendo che l’animale è innocuo.

In sintesi, mentre la paura è una risposta normale e adattiva a un pericolo, la fobia è una reazione sproporzionata e spesso incontrollabile, che può compromettere la qualità della vita.

Quali sono le fobie più frequenti durante Halloween?

Tra le fobie più comuni troviamo la claustrofobia (paura degli spazi chiusi) e l’agorafobia (paura dei luoghi aperti), ma Halloween porta alla ribalta altre paure legate all’immaginario collettivo. Tra queste:

  • Aracnofobia: paura di ragni e di alcuni insetti
  • Brontofobia: paura di tuoni e fulmini
  • Coulrofobia: paura irrazionale dei pagliacci
  • Emetofobia: paura di vomitare
  • Nictofobia: paura del buio
  • Ofidiofobia: paura dei serpenti.

Come si possono affrontare queste fobie?

Le fobie possono essere trattate efficacemente con la terapia cognitivo-comportamentale e altre tecniche di supporto, come:

  • Bio feedback: tecnica di allenamento che aiuta a controllare le risposte fisiche, come il battito cardiaco, per gestire meglio le proprie emozioni.
  • Esposizione graduale: consiste nell’affrontare la paura con esposizioni graduali e frequenti, per abituare il corpo e la mente a non reagire in modo eccessivo.

Consigli pratici per superare la paura di Halloween

Ecco alcuni suggerimenti utili per vivere Halloween senza ansie o stress:

  • Gestione delle emozioni con il supporto di un esperto: l’aiuto di un professionista può rendere più facile apprendere il controllo delle emozioni attraverso tecniche come il biofeedback.
  • Razionalizzare le paure: riconoscere che persone, animali o oggetti legati Halloween non rappresentano una vera minaccia. Affrontare gradualmente ciò che causa disagio aiuta a ridurre l’ansia nel tempo.
  • Evitare di catastrofizzare: imparare a gestire le emozioni in modo calmo e razionale, ricordando che la paura può essere controllata.
  • Rilassarsi con il training autogeno: questa tecnica di rilassamento psicofisico, usata anche in ambito clinico, è molto efficace per gestire lo stress e l’ansia.

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La derealizzazione e la depersonalizzazione sono sintomi dissociativi spesso presenti nei disturbi d’ansia, caratterizzati rispettivamente da una percezione alterata della realtà e da un distacco dal proprio sé. Comprendere i meccanismi sottostanti può aiutare a gestirli e a ridurre il loro impatto sulla vita quotidiana.

Ce ne parla il dottor Alessandro Spiti, psichiatra di Humanitas PsicoCare.

Cosa sono la derealizzazione e la depersonalizzazione nei disturbi d’ansia?

La derealizzazione e la depersonalizzazione sono fenomeni dissociativi che possono insorgere in condizioni di forte stress o ansia. La derealizzazione si manifesta con una percezione alterata dell’ambiente circostante, che appare estraneo o privo di vividezza. Al contrario, la depersonalizzazione, provoca un senso di distacco dalla propria identità (ovvero il senso di sé che ciascuno sviluppa e percepisce nel corso della vita, influenzato da fattori personali, culturali, sociali e relazionali) o dal proprio corpo. Questi fenomeni sono spesso legati all’iperattivazione dell’amigdala, una struttura cerebrale coinvolta nella risposta alla paura (quando il cervello attiva meccanismi di difesa per proteggersi da un sovraccarico emotivo).

Quali sono i sintomi della derealizzazione e della depersonalizzazione?

I sintomi della derealizzazione includono la sensazione che il mondo appaia distorto, irreale o avvolto in una nebbia. Chi soffre di depersonalizzazione, invece, descrive una sensazione di distacco dal proprio corpo o dai propri processi mentali, come se si fosse spettatori della propria vita. Questi sintomi possono generare paura e disorientamento, intensificando il ciclo ansioso.

Quali sono le cause della derealizzazione e depersonalizzazione nei disturbi d’ansia?

Le cause di derealizzazione e depersonalizzazione sono complesse e spesso coinvolgono una combinazione di fattori biologici, psicologici e ambientali. L’ansia intensa e lo stress cronico sono tra i principali fattori scatenanti, in quanto mettono il cervello in uno stato di allerta continua.

Qual è la relazione tra derealizzazione, depersonalizzazione e agorafobia?

La derealizzazione e depersonalizzazione sono strettamente legate all’agorafobia. I pazienti che soffrono di disturbo di panico, in particolare con sintomi psicosensoriali (come la derealizzazione e la depersonalizzazione) sono più predisposti a sviluppare agorafobia, ovvero la paura degli spazi aperti. Questi sintomi intensificano la percezione di vulnerabilità, portando a evitare le situazioni percepite come pericolose. Anche quando i sintomi di panico si riducono, l’agorafobia può persistere a causa della continua presenza di sintomi di derealizzazione e depersonalizzazione.

Quali sono gli effetti della derealizzazione e della depersonalizzazione sulla vita quotidiana?

I sintomi di derealizzazione e depersonalizzazione possono influire notevolmente sulla qualità di vita. Le persone che ne soffrono possono avere difficoltà di concentrazione, a prendere decisioni e a mantenere relazioni sociali. La sensazione di disconnessione dall’ambiente o dal proprio corpo può incrementare il senso di isolamento e peggiorare l’ansia, innescando un circolo vizioso difficile da spezzare.

Come si trattano derealizzazione e depersonalizzazione nei disturbi d’ansia?

Il trattamento per la derealizzazione e la depersonalizzazione mira principalmente a ridurre l’ansia e gestire i fenomeni dissociativi. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è spesso utilizzata per aiutare i pazienti a riconoscere e modificare i pensieri che alimentano l’ansia e la dissociazione. Inoltre,  tecniche di rilassamento come la respirazione diaframmatica possono essere utili per ridurre l’attivazione del sistema nervoso simpatico. Nei casi più gravi, è possibile ricorrere a un trattamento farmacologico con antidepressivi serotoninergici e/o ansiolitici, sempre sotto la supervisione di uno specialista.

Esistono strategie preventive che possono aiutare a ridurre questi sintomi?

Prevenire la derealizzazione e la depersonalizzazione nei disturbi d’ansia richiede una gestione efficace dell’ansia e dello stress. Adottare uno stile di vita sano, con esercizio fisico regolare, una dieta equilibrata e un buon ritmo sonno-veglia può aiutare a ridurre il rischio di episodi dissociativi. È essenziale, inoltre, che chi soffre di questi sintomi collabori con un professionista della salute mentale per sviluppare strategie di coping personalizzate (ovvero, metodi e comportamenti per gestire lo stress, affrontare difficoltà emotive e superare situazioni problematiche, grazie alla capacità di “far fronte” o “adattarsi” a situazioni sfidanti). Con il giusto supporto e trattamento, è possibile ridurre significativamente l’impatto di questi fenomeni e migliorare la qualità della vita.

Bibliografia

  1. Sierra, M., & David, A. S. (2011). Depersonalization: A selective impairment of self-awareness. Consciousness and Cognition, 20(1), 99-108.
  2. Hunter, E. C., Sierra, M., & David, A. S. (2004). The epidemiology of depersonalization and derealization: A systematic review. Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology, 39(1), 9-18.
  3. American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5).
  4. Medford, N., & Sierra, M. (2009). Dissociation and the self in neuropsychiatric disorders. Nature Reviews Neuroscience, 10(1), 23-38.
  5. Phillips, M. L., & Sierra, M. (2003). Depersonalization disorder: A functional neuroanatomical perspective. Cognitive Neuropsychiatry, 8(3), 295-309.
  6. Simeon, D., & Abugel, J. (2006). Feeling Unreal: Depersonalization Disorder and the Loss of the Self. Oxford University Press.
  7. Michal, M., et al. (2011). Prevalence and psychosocial correlates of depersonalization in the German general population. Journal of Nervous and Mental Disease, 199(5), 361-366.
  8. Lanius, R. A., et al. (2015). Restoring large-scale brain networks in PTSD and related disorders: A proposal for neuroscientifically-informed treatment interventions. European Journal of Psychotraumatology, 6(1), 27313.

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Il disagio giovanile si riferisce a una serie di problematiche emotive e psicologiche che si manifestano nel periodo dell’adolescenza. Un momento spesso critico dello sviluppo, dove i ragazzi possono sperimentare ansia, depressione, rabbia, tristezza, paura, preoccupazioni, problemi di autostima, di identità e relazioni personali. Momenti di difficoltà comuni durante la crescita che, tuttavia, se interferiscono con la vita quotidiana, potrebbero indicare un disagio psicologico importante che deve essere affrontato. 

Ce ne parla la dottoressa Ilaria Ferraioli, psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare.

Perché l’adolescenza è un periodo critico?

L’adolescenza è una fase critica caratterizzata da molti cambiamenti fisici, emotivi e sociali. È possibile inquadrarlo come un periodo specifico della vita con un proprio significato, attraversato da mutamenti evolutivi che caratterizzano gli aspetti biologici, l’ambito sociale e la costruzione di un’identità.

Le sfide e le difficoltà incontrate mettono alla prova la capacità di adattamento dell’adolescente verso se stesso, nel rapporto con i coetanei e nell’affrontare le richieste derivanti dai contesti sociali e da parte degli adulti.

L’obiettivo principale di questa fase della vita è lo sviluppo dell’indipendenza attraverso l’uso delle proprie risorse personali e abilità, seguendo un percorso che rende ogni individuo unico. Storicamente, fino agli anni ‘60, questa fase è stata spesso considerata solo come una tappa preliminare e predittiva dell’età adulta, trascurando alcune caratteristiche distintive, come i rapidi cambiamenti e il costante processo di integrazione che contribuisce a definire le differenze individuali.

Le esperienze affrontate dall’adolescente si inseriscono, dunque, in una continua interazione fra l’individuo, l’ambiente e la sua appartenenza sociale, che porta allo svolgimento di compiti specifici nelle varie aree di vita. Le difficoltà incontrate nello svolgimento di tali sfide possono portare a significative manifestazioni di disagio con conseguenti comportamenti sintomatici e rischiosi. Difatti è possibile descrivere questo periodo evolutivo come “critico”, poiché caratterizzato dalla ricerca di un nuovo equilibrio attraverso una continua riorganizzazione che tenga conto della velocità, della simultaneità e della profondità dei molteplici cambiamenti.

Adolescenza; quali sono i problemi di salute mentale più frequenti?

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, in una scheda informativa sul tema della salute mentale negli adolescenti (2021), considera che a livello globale, 1 ragazzo su 7 (14%) tra i 10 e i 19 anni soffra di problemi di salute mentale, che in gran parte dei casi, rimangono sconosciuti e non trattati, come:

  • Disturbi d’ansia: sono tra i più comuni, con una prevalenza maggiore tra i più grandi, seppur emergano manifestazioni sintomatologiche già a partire dalla media adolescenza (14-16 anni) . Anche la depressione è diffusa, con sintomi come sbalzi d’umore improvvisi, che possono influenzare negativamente la frequenza scolastica e la vita sociale.
  • Disturbi comportamentali: più comuni tra i giovani adolescenti, includono il disturbo da deficit di attenzione, iperattività (ADHD) e il disturbo della condotta. Questi possono interferire con il rendimento scolastico e portare a comportamenti antisociali.
  • Disturbi alimentari: condizioni come l’anoressia nervosa e la bulimia nervosa tendono a emergere durante l’adolescenza e la prima età adulta, comportando gravi rischi per la salute fisica e mentale.
  • Dipendenze patologiche (sostanze, gioco d’azzardo e new addiction):  comportamenti che conducono ad esperienze sensoriali che consentono in maniera impropria di stabilizzare stati affettivi dolorosi dove l’adolescente fatica ad autoregolarsi e generare risposte adattive.
  • Suicidio: i fattori di rischio includono l’uso dannoso di alcol, traumi, stigmatizzazione e accesso ai mezzi per il suicidio.

Come si manifesta il disagio giovanile?

Per favorire una comprensione del mondo adolescenziale e dei segnali che possono indicare una trasformazione da stati transitori fisiologici, ad altri più vicini allo sviluppo di aspetti psicopatologici, potrebbe essere utile conoscere e riconoscere i sentimenti ambivalenti e contraddittori ricorrenti che caratterizzano la vulnerabilità emotiva dell’adolescente.

Sono strettamente legati a una forte sensazione di insicurezza, incertezza e destabilizzazione, spesso causata da una rottura interna dei punti di riferimento su cui si basava l’identità personale e una certa coesione interna.

Tra le manifestazioni più comuni vi è una marcata ipersensibilità alla sensazione di esclusione e solitudine, causata dal distacco emotivo dalle figure genitoriali e, allo stesso tempo, dalla necessità di costruire la propria indipendenza. I comportamenti e le reazioni emotive degli adolescenti possono diventare disfunzionali, impedendo loro di sviluppare nuove strategie per affrontare le esperienze dolorose della vita quotidiana. In questo contesto, si possono osservare comportamenti orientati a scelte autonome che spingono verso un’estrema autosufficienza, accompagnati da atteggiamenti di sfida verso le figure adulte di riferimento, spesso espressi attraverso ostilità, rabbia e diffidenza.

Oppure emergono comportamenti caratterizzati da atteggiamenti estremi, di eccessiva sottomissione o mirati a una costante ricerca di approvazione da parte dei pari.

Il confine tra aspetti “fisiologici” del comportamento e i primi segnali di allarme è segnato dall’applicazione rigida e inflessibile di alcune delle condotte descritte, che appaiono impermeabili ai feedback esterni. Allo stesso modo, è importante monitorare le modalità di eccessiva emulazione di modelli di riferimento, atteggiamenti di superiorità e comportamenti alternativi o trasgressivi che mancano di consapevolezza.
Inoltre, alcuni segnali d’allarme includono:

  • Alterazioni e oscillazioni dell’umore
  • Ritiro sociale e isolamento 
  • Problemi nelle relazioni interpersonali
  • Calo del rendimento scolastico
  • Perdita di interesse per attività precedentemente amate 
  • Problemi di memoria o difficoltà a concentrarsi 
  • Trascuratezza nell’igiene personale 
  • Disturbi psicosomatici senza evidenti cause (come mal di testa e dolori addominali)
  • Condotte aggressive e aumento dell’iperattività
  • Cambiamenti nell’alimentazione
  • Problemi legati al sonno (come difficoltà ad addormentarsi, risvegli notturni e incubi).

Come possono aiutare i genitori?

Il ruolo dei genitori nel processo di sviluppo degli adolescenti è fondamentale.

Utilizzando una metafora sportiva, anche loro affrontano insieme all’adolescente una trasformazione transitoria dove si trovano dall’essere stati prevalentemente nel ruolo di “coach”  in ogni momento della crescita dei figli, al comprendere e indovinare quando porsi anche come compagni di squadra, tifosi in panchina, leader o semplicemente un sostegno validante e accogliente.

Spesso si verificano incomprensioni verosimilmente riconducibili a difficoltà comunicative, posizioni di rifiuto o derivanti dall’assunzione eccessiva di responsabilità nella risoluzione delle problematiche che emergono nella vita dell’adolescente.

Gli adulti devono essere in grado di identificare e valorizzare i numerosi punti di forza presenti in questa fase evolutiva dei loro figli, al fine di potenziarli e, al contempo, limitare lo sviluppo di comportamenti dannosi per il benessere di tutti i membri coinvolti, attraverso l’adozione di norme adattive e positive.

I genitori possono sostenere l’adolescente mantenendo un equilibrio tra la flessibilità delle regole condivise e la valorizzazione del loro contributo positivo e costruttivo.

Questo approccio permette di accompagnare l’adolescente nel suo processo decisionale e nel percorso verso l’autonomia.

Si tratta dunque di un ruolo di accompagnamento versatile, dove il sostegno è orientato a informare, spiegare e fornire chiarimenti per affrontare i problemi. Questo si può fare attraverso:

  • Ascolto empatico: ascoltare i figli senza interrompere, mostrando comprensione e senza essere paternalistici.
  • Comunicazione aperta: incoraggiare una comunicazione sincera e condividere pensieri ed emozioni in modo costruttivo.
  • Calma e rassicurazione: mantenere la calma di fronte a sbalzi d’umore, rassicurando i ragazzi sul fatto che le loro difficoltà possono essere superate.
  • Coinvolgimento positivo: collaborare con loro nella definizione delle regole, rispettando la loro privacy e incoraggiando relazioni sane con i coetanei.

Quando è necessario rivolgersi allo specialista?

È necessario rivolgersi allo specialista quando i sintomi interferiscono in modo pervasivo e rigido con la crescita personale, ostacolando la realizzazione e l’evoluzione dell’individuo. È fondamentale fornire un contesto e un significato al disagio attraverso l’ascolto dei bisogni e desideri che emergono dalle manifestazioni sintomatiche, considerando sia l’età dell’individuo che il ruolo cruciale del contesto ambientale in cui vive.

La comprensione della sofferenza e delle diverse manifestazioni mentali, espresse attraverso pensieri, azioni ed emozioni intense, aiuta a contrastare il senso di solitudine, segretezza e intolleranza che spesso risultano invalidanti.

Intervenire tempestivamente quando il disagio trova modo di esprimersi consente di ripristinare un normale processo di crescita, alleviare e risolvere il malessere, e prevenire future ricadute dovute a una mancata elaborazione.

Sostenere l’adolescente nel diventare protagonista responsabile e consapevole della propria vita favorisce una maturazione emotiva, cognitiva, comportamentale e sociale, che lo rende più abile nella risoluzione di conflitti interni ed esterni.

Per tali motivi è importante raccogliere e indirizzare agli specialisti la richiesta attiva proveniente dallo stesso e dai genitori, come dalle figure presenti nella rete di riferimento.

Come viene trattato il disagio giovanile?

Il panorama dei trattamenti offre diverse tipologie di intervento, che possono essere adottate singolarmente o combinate, in base alle problematiche specifiche e alle esigenze individuali.

Questi interventi possono comprendere percorsi psicoterapici individuali specifici e, in alcuni casi, terapie farmacologiche (su indicazione di un medico specialista).

Sono inoltre efficaci gli interventi di gruppo, finalizzati a promuovere la condivisione e l’espressione del disagio, l’apprendimento di abilità specifiche e il confronto con i pari, che può contribuire alla regolazione emotiva e all’acquisizione di nuovi strumenti e abilità sociali.

Ogni intervento richiede una valutazione anamnestica approfondita, orientata a indagare il livello di sviluppo dell’adolescente, le capacità intellettive e metacognitive, la presenza di una rete di supporto e un inquadramento diagnostico.

Diversi studi attestano l’efficacia di alcuni trattamenti evidence-based , ovvero basati su evidenze scientifiche, affinchè il processo di cura sia orientato non solo a promuovere la cura del sintomo, bensì anche alla presa in carico globale del paziente.

Infine, è opportuno considerare la realizzazione di percorsi di Parent Training per i genitori, programmi mirati a sostenere i caregiver nella gestione degli aspetti comportamentali dell’adolescente, con lo scopo di poter promuovere il benessere psichico all’interno di circoli virtuosi protettivi e predittivi nell’attualizzazione degli strumenti acquisiti per la gestione del disagio giovanile

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L’amaxofobia è la paura intensa e irrazionale di guidare o di essere passeggero in un veicolo. Chi soffre di questo disturbo può provare un’ansia estrema al pensiero di trovarsi in una situazione legata alla guida. Sebbene possa variare in intensità da persona a persona, questa fobia spesso porta a evitare del tutto di entrare in un’auto, interferendo con la vita quotidiana.

La dottoressa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare, ci spiega come riconoscere e come trattare l’amaxofobia.

Quali sono i sintomi dell’amaxofobia?

L’amaxofobia si manifesta con sintomi che possono variare da un disagio occasionale a un’ansia debilitante. La gravità può dipendere dal tipo di situazione, dalla natura della paura (ad esempio, paura di essere passeggero o di guidare in certe condizioni) e dal livello di evitamento delle attività legate alla guida.

Dal punto di vista diagnostico, l’amaxofobia viene spesso classificata come una fobia specifica: un oggetto specifico (un veicolo) o una situazione (guidare o viaggiare in un veicolo) provoca una risposta di paura.

Tuttavia, è importante effettuare una corretta diagnosi differenziale da altre patologie, tra cui:

  • Disturbo di panico, con attacchi di panico che si verificano durante la guida.
  • Agorafobia, dove la paura di uscire di casa o di trovarsi in spazi aperti include anche la paura di guidare.
  • Fobia sociale, se la paura è legata al timore del giudizio altrui mentre si è alla guida.

Quali sono le cause dell’amaxofobia?

Le possibili cause dell’ amaxofobia possono essere diverse e includere:

  • Esperienze traumatiche passate, come incidenti automobilistici, sia personali che vissuti da persone care.
  • Storia familiare di disturbi d’ansia o fobie.
  • Modellazione, ovvero osservare qualcuno che soffre di amaxofobia o sentirlo parlare della sua paura di guidare può indurre la persona a sviluppare la stessa fobia.

Alcuni fattori aumentano il rischio di sviluppare l’amaxofobia, come:

  • Presenza di altre fobie o disturbo d’ansia
  • Storia di attacchi di panico 
  • Abuso di sostanze o alcol.

Quali altre fobie sono associate all’amaxofobia?

Due fobie strettamente collegate all’amaxofobia includono:

  • Agorafobia: paura di uscire di casa o di non riuscire a fuggire da un luogo o da una situazione.
  • Claustrofobia: paura degli spazi chiusi, che può scatenarsi all’interno di un veicolo.

Quali sono i sintomi dell’amaxofobia?

Chi soffre di amaxofobia può sperimentare i classici sintomi sia fisici che psichici dell’ansia, come:

  • Brividi 
  • Vertigini e stordimento
  • Sudorazione eccessiva
  • Palpitazioni cardiache 
  • Nausea 
  • Dispnea (mancanza di respiro)
  • Tremori
  • Mal di stomaco.

I sintomi possono manifestarsi anche solo pensando di salire su un veicolo, oppure possono essere innescati dalla visione di auto o veicoli in movimento.

Quali sono i tipi di amaxofobia?

L’amaxofobia può manifestarsi in diversi modi:

  • Alcune persone sono in grado di guidare da sole ma non sopportano di essere passeggeri.
  • Altri evitano di guidare se non sono accompagnati da una persona di fiducia, come il partner.
  • In alcuni casi, l’ansia è così intensa che una persona evita del tutto qualsiasi tipo di veicolo.

Come si cura l’amaxofobia?

Il trattamento dell’amaxofobia prevede diverse opzioni terapeutiche, come:

  • Terapia cognitivo-comportamentale (CBT): innanzitutto si fa un lavoro di psicoeducazione sull’ansia legata alle situazioni fobiche; si insegna al paziente a riconoscere e modificare i pensieri irrazionali legati alla paura. In parallelo con le tecniche comportamentali, come l’esposizione, il paziente viene esposto alle situazioni che in genere scatenano l’ansia, come guardare immagini di veicoli o sedersi al volante di un’auto ferma. Attraverso esposizioni ripetute e controllate si può imparare a gestire e ridurre l’ansia.
  • Terapia di esposizione in realtà virtuale: permette al paziente di simulare l’esperienza di guida in un ambiente controllato e sicuro.
  • Terapia farmacologica: possono essere prescritti farmaci per gestire situazioni particolarmente difficili e improvvise, come un viaggio imminente. Una visita psichiatrica potrà comunque valutare se sia indicato un trattamento prettamente sintomatico o più strutturato, con SSRI (Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) e le esigenze caso per caso.

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I tic sono movimenti motori improvvisi, rapidi, ricorrenti, non ritmici (tic motori) o vocalizzazioni (tic vocali o fonici). Generalmente tendono ad avere un’evoluzione benigna e a risolversi con il tempo. Tuttavia, in alcuni casi, possono compromettere la qualità di vita del bambino. Con il giusto supporto da parte dei genitori e professionisti, possono essere gestiti in modo efficace, migliorando il benessere del bambino.

Ce ne parla la dottoressa Simona Sartori, psicoterapeuta specializzata in età evolutiva, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Medical Care Torino Principe Oddone.

Quali tipi di tic esistono?

I tic si dividono in semplici e complessi.

  • Tic semplici: movimenti brevi e ripetitivi che coinvolgono solo una parte del corpo (ad esempio, ampia apertura degli occhi o della bocca, inclinazione del collo, sollevamento delle spalle) o suoni semplici (includono tosse, schiarimento della gola, grugniti, imitazione di versi di animali e schiocco della lingua).
  • Tic complessi: coinvolgono più gruppi muscolari o suoni articolati. Alcuni esempi includono: toccare, picchiettare, agitare, calciare, saltare, urlare e strillare.

A che età compaiono i tic nei bambini?

I tic di solito iniziano tra i 3 e gli 8 anni. I primi a manifestarsi sono in genere i tic motori semplici che coinvolgono il viso e il collo. I tic vocali tendono a comparire più tardi, dopo l’insorgenza dei tic motori.

I tic nei bambini sono permanenti?

La maggior parte dei tic nei bambini ha una prognosi benigna. Spesso, scompaiono da soli dopo pochi mesi. Nel caso in cui persistono, raggiungono di solito il picco tra gli 8 e i 12 anni, con un miglioramento o la scomparsa completa durante l’adolescenza o la prima età adulta.

Cosa può peggiorare i tic nei bambini?

I tic possono peggiorare temporaneamente a causa di:

  • Tensioni psicologiche: stress, ansia, eccitazione e rabbia
  • Tensioni fisiche: stanchezza, privazione del sonno e infezioni
  • Cambiamenti ambientali: come l’inizio della scuola o un trasloco.

Come si diagnosticano i tic nei bambini?

Sarà il neuropsichiatra infantile e la psicoterapeuta specializzata in età evolutiva a fare la diagnosi di tic raccogliendo la storia clinica del bambino. È importante osservare i sintomi e, se necessario, i genitori possono fornire video dei tic osservati in casa per aiutare il medico a valutarne la gravità.

Qual è il trattamento per i tic nei bambini?

Molti tic non richiedono alcun trattamento perchè, come dicevamo, la prognosi è nella maggior parte dei casi positiva. Tuttavia, se i tic diventano molto fastidiosi e influenzano negativamente la qualità della vita o creano problemi sociali, emotivi o fisici, si possono considerare due opzioni di trattamento:

  • Terapia comportamentale CBIT (Comprehensive Behavioral Intervention for Tics): aiuta i bambini a diventare consapevoli dei loro tic e a imparare a contrastarli con movimenti volontari incompatibili con i tic stessi. La CBIT può essere efficace sia per i tic motori che per quelli vocali, riducendone la frequenza e la gravità.
  • Farmaci: vengono utilizzati per ridurre la gravità dei tic e sono generalmente suddivisi in due categorie: di primo livello (per tic più lievi, con meno effetti collaterali) e di secondo livello (per tic più gravi, con effetti collaterali più significativi). I farmaci più utilizzati di primo livello sono gli agonisti alfa-2-adrenergici, mentre i farmaci di secondo livello, sono neurolettici che agiscono sui recettori della dopamina.

Quali consigli per i genitori?

È importante che i genitori capiscano che i tic sono movimenti involontari che il bambino non vorrebbe fare e che alcune volte neanche si accorge di avere. Compaiono in momenti della crescita del bambino in cui si sente più stressato, può essere un trasloco, l’inizio della scuola, l’arrivo di un fratellino. Non deve essere sgridato e neanche educato a dover controllare il tic; porterebbe solo ad un maggiore stress per il bambino e quindi paradossalmente all’intensificarsi dei movimenti.

Se i genitori sono preoccupati, l’invito è di rivolgersi ad uno psicoterapeuta dell’età evolutiva per comprendere meglio la situazione psicologica del bambino e valutare come procedere per aiutarlo al meglio.

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Gli studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) affrontano sfide importanti anche durante il percorso universitario, ma grazie a normative come la Legge 170/2010 e strumenti compensativi e dispensativi, possono raggiungere con successo il traguardo accademico. Le università italiane offrono, infatti, supporti specifici per favorire l’inclusione, dalla concessione di tempo aggiuntivo, agli esami, fino all’utilizzo di strumenti tecnologici avanzati.

Ce ne parla la dottoressa Marcella Mauro, psicologa dell’apprendimento di Humanitas PsicoCare.

Cosa sono i DSA?

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono disturbi di natura neurobiologica che compromettono alcune abilità specifiche, come la lettura, la scrittura e il calcolo, pur in assenza di deficit neurologici o sensoriali. I principali DSA sono:

  • Dislessia: difficoltà nella lettura rapida e corretta
  • Disortografia: difficoltà nella scrittura ortograficamente corretta
  • Disgrafia: scrittura lenta, poco fluente e faticosa
  • Discalculia: difficoltà nel calcolo e nella gestione dei numeri.

Quali normative tutelano gli studenti con DSA?

La principale normativa italiana che tutela gli studenti con DSA è la Legge 170/2010, che garantisce il diritto allo studio e prevede misure compensative e dispensative sia per studenti delle scuole primarie e secondarie, sia per gli universitari. Altre normative rilevanti includono:

Come accedere ai servizi universitari con un DSA?

Per accedere ai servizi forniti dalle università, inclusi i test di ammissione ai corsi di laurea, è necessario presentare una diagnosi clinica di DSA. La diagnosi deve rispettare i criteri stabiliti dalla Consensus Conference del 2011 e includere:

  • Codici nosografici e dicitura esplicita del DSA
  • Descrizione dettagliata delle aree di forza e debolezza dello studente.

La diagnosi è valida solo se rilasciata dal SSN o da enti e professionisti accreditati dalle regioni.

Bisogna aggiornare la diagnosi dopo i 18 anni?

Se la diagnosi di DSA è rilasciata dopo i 18 anni, resta valida per l’intero percorso universitario. Se, invece, la diagnosi è stata fatta prima della maggiore età, deve essere aggiornata ogni 3 anni, come previsto dalla Legge 170/2010 e dall’Accordo Stato-Regioni del 2012.

Se la diagnosi non risponde ai requisiti stabiliti dalla legge, l’università potrebbe non accettarla. È quindi fondamentale che la diagnosi includa chiaramente gli strumenti compensativi e le misure dispensative suggerite, in modo che le indicazioni degli specialisti vengano rispettate.

Quali strumenti compensativi sono ammessi durante i test di ingresso all’università?

Per i test di ammissione ai corsi di laurea, il D.M. 477 del 28 giugno 2017 disciplina le modalità di concessione degli strumenti compensativi, che includono:

  • Tempo aggiuntivo (30% in più rispetto al tempo standard per i candidati con DSA)
  • Calcolatrice non scientifica
  • Video-ingranditore del testo
  • Affiancamento di un Tutor (lettore umano).

Quali strumenti compensativi si possono usare durante l’anno accademico?

Durante l’anno accademico, si possono utilizzare gli stessi strumenti compensativi già utilizzati durante il percorso scolastico, come:

  • Registratore da utilizzare durante le lezioni
  • Utilizzo di testi in formato digitale
  • Software di sintesi vocale
  • Tutor che svolge la funzione di lettore nel caso in cui non sia possibile fornire materiali d’esame in formato digitale
  • Tabelle, formulari e mappe concettuali 
  • Materiali didattici in formati accessibili (presentazioni, dispense, eserciziari), forniti preferibilmente con anticipo sulle lezioni
  • Altri strumenti tecnologici di facilitazione nella fase di studio e di esame.

Questi strumenti facilitano lo studio e l’esecuzione delle prove d’esame.

Quali misure dispensative sono previste per gli studenti con DSA?

Le misure dispensative possono includere:

  • Privilegiare esami orali anziché scritti, in base alle abilità dello studente. Laddove l’esame scritto venga ritenuto indispensabile, verificare se il formato scelto (ad esempio, test a scelta multipla, a risposta chiusa, ecc.), rappresenti un ostacolo e se possa essere sostituito da altre forme di valutazione scritta
  • Concessione di tempo supplementare (fino al 30%) per lo svolgimento degli esami
  • Prevedere nelle prove scritte l’eventuale riduzione quantitativa, ma non qualitativa, nel caso non si riesca a concedere tempo supplementare
  • Considerare nella valutazione i contenuti piuttosto che la forma e l’ortografia
  • Per gli esami più corposi considerare la possibilità di suddividere la materia d’esame in più prove parziali.

Come richiedere gli strumenti compensativi e le misure dispensative per un esame universitario?

Per richiedere gli strumenti compensativi e le misure dispensative è indispensabile presentare la diagnosi e informare il Servizio per la Disabilità e i DSA dell’università con largo anticipo. A seconda delle indicazioni ricevute, ci si potrà accordare con il docente della materia sulle modalità d’esame e gli strumenti da utilizzare. In alcuni casi, il tutor o i docenti referenti DSA fungeranno da mediatori tra lo studente e i professori.

Si può ricevere supporto durante gli esami universitari?

Gli Atenei  prevedono servizi specifici per i DSA, di nuova attivazione o nell’ambito di quelli già preesistenti di tutorato e/o disabilità, che pongono in essere tutte le azioni necessarie a garantire l’accoglienza, il tutorato, la mediazione con l’organizzazione didattica e il monitoraggio dell’efficacia delle prassi adottate. Nell’ambito di questi servizi, possono essere previsti:

  • Utilizzo di tutor specializzati
  • Consulenza per l’organizzazione delle attività di studio
  • Forme di studio alternative come, per esempio, la costituzione di gruppi di studio fra studenti con dislessia e non
  • Lezioni ed esercizi on line sul sito dell’università.

Quali difficoltà riscontrano gli studenti con DSA nello studio?

Gli studenti con DSA spesso incontrano difficoltà in diverse aree, tra cui:

  • Lettura lenta e faticosa, con necessità di rileggere più volte per comprendere i testi
  • Difficoltà nella gestione del tempo e nell’organizzazione autonoma del lavoro
  • Problemi di concentrazione e nella rievocazione delle informazioni
  • Comprensione delle domande d’esame, spesso dovuta a problemi di interpretazione o gestione dello stress.

Quali sono i suggerimenti per prendere appunti efficaci?

Durante le lezioni, gli studenti con DSA possono utilizzare alcune applicazioni per facilitare la presa di appunti. Questi strumenti digitali permettono di registrare le lezioni e organizzare gli appunti in modo schematico e sintetico, facilitando lo studio successivo.

Quali sono le strategie per sostenere al meglio gli esami?

Alcune strategie utili per gli studenti con DSA includono:

  • Consultare prove d’esame precedenti per familiarizzare con le domande
  • Creare schemi e mappe concettuali con parole chiave
  • Usare strategie come immagini mentali o anagrammi per memorizzare le informazioni
  • Pianificare lo studio con un planning giornaliero o settimanale
  • Studiare in un ambiente tranquillo e privo di distrazioni.

Prima di un esame è importante:

  • Informarsi in anticipo sul programma e sulle modalità dell’esame.
  • Richiedere per tempo eventuali strumenti compensativi e misure dispensative.
  • Svolgere simulazioni d’esame con il tempo previsto, per migliorare la gestione dello stress e del tempo.

Dopo l’esame, qualunque sia l’esito, è utile riflettere sul metodo di studio per capire cosa può essere migliorato, perfezionato o cambiato. Confrontarsi eventualmente con il docente se necessari chiarimenti.

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L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive la salute mentale come uno “stato di benessere in cui l’individuo realizza le proprie capacità, riesce a far fronte ai normali stress della vita, riesce a lavorare in modo produttivo e fruttuoso ed è in grado di dare un contributo alla propria comunità“. La salute mentale è una componente essenziale della salute generale, fondamentale per il benessere individuale e collettivo. Inoltre, è un diritto umano ed è cruciale per lo sviluppo personale, in qualsiasi fase della vita, dall’infanzia e dall’adolescenza, fino all’età adulta. Secondo la stessa OMS “non c’è salute senza salute mentale”. Nonostante ciò, nel mondo oltre un miliardo di persone, una persona su otto, soffre di problemi di salute mentale, con ripercussioni non solo sul benessere psicologico, ma anche sulla salute fisica, sulle relazioni interpersonali e sulle prospettive lavorative.

Ce ne parla il Professor Giampaolo Robert Perna, docente presso Humanitas University, responsabile del Centro per i Disturbi d’Ansia di Humanitas San Pio X e Direttore scientifico di Humanitas Psico Care, nonché membro della New York Academy of Sciences da oltre 25 anni e dell’American Psychiatric Association (APA). 

Che cos’è un disturbo mentale?

I disturbi mentali si manifestano come sindromi caratterizzate da problemi significativi nel pensiero, nella gestione delle emozioni o nei comportamenti di una persona. Questi disturbi influenzano negativamente il funzionamento mentale. Di solito, sono accompagnati da sofferenza o difficoltà nelle abilità sociali, lavorative e in altre attività quotidiane, compromettendo la qualità della vita delle persone che ne soffrono.

I disturbi mentali comprendono condizioni come ansia, depressione, psicosi e dipendenza da alcol o droghe. Questi disturbi possono insorgere a seguito di esperienze stressanti, ma talvolta si manifestano anche in loro assenza.

Quando parliamo di disturbi mentali è fondamentale distinguere il disagio mentale secondario a difficoltà di vita o a eventi negativi, dalle malattie mentali vere e proprie che sono l’espressione di un meccanismo cerebrale disfunzionale. Nel primo caso, è importante aiutare la persona a superare la fonte del disagio o a adattarsi in maniera funzionale alla situazione che gli crea disagio; nel secondo caso, è molto importante impostare un piano terapeutico vero e proprio per ritrovare un funzionamento mentale normale.

La salute mentale è solo l’assenza di disturbi mentali?

La salute mentale non è semplicemente l’assenza di disturbi mentali. Analogamente al corpo che può essere sano o ammalato e quando è sano, può essere più o meno in forma. Così dal punto di vista mentale possiamo non avere un vero e proprio disturbo mentale, quindi essere “psichicamente sani”, ma sentirci fragili, stressati, vulnerabili ed essere invasi da emozioni negative oppure sentirci sereni, coerenti, in armonia con noi stessi. Per raggiungere lo stato di benessere mentale è quindi importante lavorare su noi stessi per trovare il giusto equilibrio tra i nostri desideri, le richieste della realtà e l’ambiente relazionale e lavorativo in cui ci troviamo immersi.  

Da cosa può essere influenzata la salute mentale?

La salute mentale è influenzata da una combinazione di fattori individuali, sociali e ambientali.

Tra questi troviamo:

  • Fattori biologici e psicologici, come la genetica, la gestione delle emozioni e l’uso di sostanze.
  • Fattori sociali, come la povertà, la violenza e la disuguaglianza economica.
  • Fattori ambientali, che includono l’esposizione a situazioni di crisi o conflitti geopolitici.

Identificare e chiarire il ruolo di questi fattori e la loro reciproca interazione è importante per trovare la chiave comportamentale per ottimizzare il benessere mentale. 

Come possono influire l’infanzia e l’adolescenza sulla salute mentale?

Le esperienze vissute durante l’infanzia e l’adolescenza possono avere un impatto significativo sulla salute mentale a lungo termine. Fattori come il bullismo o una crescita in ambienti familiari instabili aumentano il rischio di sviluppare problemi di salute mentale in età adulta. Il maltrattamento infantile è uno dei fattori di rischio più importanti che influenzano lo sviluppo di veri e propri disturbi mentali in età adulta. È fondamentale tutelare l’infanzia e l’adolescenza che rappresentano i momenti chiave determinanti la resilienza e la capacità di adattarsi o meno agli eventi stressanti della vita adulta. Combattere l’abuso e il maltrattamento infantile è imperativo per una vera tutela della salute mentale. Offrire supporto emotivo e sociale adeguato ai giovani è altrettanto importante per costruire una base solida di benessere mentale.

Come migliorare la salute mentale?

Il miglioramento della salute mentale passa attraverso la promozione di stili di vita sani, l’educazione emotiva di adulti e giovani, la promozione di un comportamento prosociale attraverso un’adeguata formazione nell’analisi e modificazione dei comportamenti, la creazione di reti di supporto sociale, l’accesso a risorse e servizi adeguati. È importante anche ridurre le situazioni di isolamento sociale, promuovere l’inclusione e offrire opportunità di sviluppo personale in ambienti favorevoli. Creare ambienti positivi e sostenere le famiglie e le comunità con politiche sociali inclusive aiuta a prevenire l’insorgere di problemi di salute mentale, specialmente tra i giovani. E, quando siano presenti disturbi mentali veri e propri, offrire un supporto medico e psicologico adeguato.

Come prevenire i disturbi mentali?

In un futuro che si presenta sempre più digitale e virtuale è fondamentale trovare il giusto equilibrio tra le esperienze “reali” e quelle “virtuali”. Da una parte, soprattutto durante l’infanzia è importante regolamentare l’uso di smartphone, internet e social media e favorire i contatti diretti nel mondo reale, le esperienze sensoriali a 360° che coinvolgano il corpo per aiutare lo sviluppo di una forte resilienza e capacità di adattamento e tolleranza della frustrazione. Dall’altra parte il futuro digitale e virtuale non deve essere rifiutato ma conosciuto e approfondito dagli adulti al fine di guidare e proteggere i giovani che inevitabilmente si confrontano e si immergono nel mondo digitale che, al di là dei pericoli di isolamento e superficialità relazionale, presenta straordinarie possibilità di conoscenza e potenziamento.

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L’ansia da prestazione è un problema comune tra gli atleti, soprattutto a livelli elevati. Le competizioni sportive possono indurre pensieri disfunzionali, come la paura di sbagliare o di essere giudicati negativamente. Per affrontare al meglio le gare è essenziale imparare a gestire questa ansia. La dottoressa Cristina Di Nardo, psicoterapeuta e neuropsicologa presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Medical Care Torino Principe Oddone, ci spiega come farlo.

Che cos’è l’ansia? 

L’ansia è uno stato di preoccupazione mentale che si manifesta fisicamente con sintomi come tensione muscolare, tachicardia, sudorazione e sensazioni di caldo o freddo, e mentalmente con pensieri negativi o difficoltà di concentrazione. Può essere innescata da una combinazione di più fattori, inclusi eventi stressanti della vita quotidiana o situazioni a lungo termine che possono generare preoccupazione o, in questo caso, quando gli atleti devono eseguire un compito sotto pressione.

Che legame c’è tra ansia e sport?

Molti atleti vedono lo sport come un’opportunità di riscatto personale, che consente loro di affermarsi. Questo porta lo sportivo a riporre grandi aspettative nelle proprie performance, a cui spesso si aggiungono le pressioni di allenatori, familiari e tifosi. Di conseguenza, la paura di commettere errori o di dimenticare elementi fondamentali può alimentare l’ansia da prestazione.

Nel mondo dello sport, sia atleti che allenatori riconoscono che le emozioni legate alla competizione, e in particolare l’ansia da prestazione, sono tra i fattori più rilevanti che possono influenzare il risultato di una gara, sebbene ancora oggi non sia del tutto chiaro come esse influenzino la performance sportiva (Palazzolo, 2019).

Quali sono le cause dell’ansia da prestazione?

L’ansia da prestazione sportiva è un fenomeno complesso in cui intervengono molti fattori. Le aspettative dello sportivo, dell’allenatore ed eventualmente di familiari e tifosi, influenzano il modo in cui l’atleta affronta la situazione sportiva. In base a quanto egli si sentirà in grado di affrontare la prova, potrà sperimentare un’ansia più o meno intensa.

Fattori fisici come la stanchezza, infortuni precedenti, ma anche precedenti delusioni ed esperienze negative possono influire sullo stato ansioso dell’atleta. 

Quali sono i sintomi dell’ansia da prestazione?

I sintomi comuni dell’ansia da prestazione includono:

  • Paura di fallire o di non essere all’altezza
  • Battito cardiaco accelerato e respiro corto
  • Tremori e tensione muscolare.

A loro volta questi sintomi dell’ansia da prestazione possono far aumentare l’agitazione dell’atleta, creando un circolo vizioso che influisce sulla fiducia e sulla performance.

A cosa può portare l’ansia da prestazione?

Un certo livello di ansia è normale e può persino essere utile: può fornire la giusta carica motivazionale e migliorare la concentrazione. Tuttavia, quando l’ansia diventa elevata, può portare a diversi effetti negativi, come:

  • Peggioramento delle performances sportive (Woodman & Hardy, 2003)
  • Tendenza ad evitare allenamenti e competizioni
  • Difficoltà nell’apprendimento di nuove tecniche o nel recupero da infortuni
  • Bassa autostima e un generale peggioramento della salute mentale.

Come superare l’ansia da prestazione sportiva?

Affrontare l’ansia da prestazione richiede spesso un approccio integrato che combina preparazione mentale, tecniche di rilassamento e supporto psicologico. Una delle principali tecniche di rilassamento è la respirazione diaframmatica. Ecco come eseguirla:

1. Posizione: mettersi in posizione seduta o supina con le ginocchia piegate ed entrambe le mani sull’addome.

2. Ispirazione: inspirare profondamente cercando di gonfiare l’addome contando mentalmente 1001, 1002, 1003.

3. Espirazione: durante l’espirazione l’addome si svuota naturalmente, accompagnare lo svuotamento con una piccola contrazione dei muscoli addominali contando mentalmente 1004, 1005, 1006.

Una respirazione lenta e controllata può apportare numerosi benefici sia fisici che mentali:

  • Migliora la forma cardiovascolare
  • Riduce lo stress e l’ansia
  • Migliora la salute generale
  • Mantiene la concentrazione.

Una respirazione veloce può causare problemi come ansia, panico, vertigini e stordimento. È importante riconoscere questi sintomi e adottare tecniche di respirazione per gestirli.

Altre indicazioni per la preparazione mentale includono:

  • Visualizzazione di un luogo sicuro: immaginare un luogo dove ci si sente tranquilli e sicuri può aiutare a calmarsi
  • Supporto familiare e del coach: avere il supporto della famiglia e del coach, indipendentemente dal risultato della gara, è fondamentale
  • Aumentare la fiducia in sé stessi: credere nelle proprie capacità e avere fiducia in se stessi è essenziale per superare l’ansia.

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