Negli ultimi anni le temperature estive sono aumentate; recentemente sono state varate leggi per proteggere le categorie dei lavoratori esposti al sole durante le ore più calde, ma per proteggerci dal caldo di notte e rendere il sonno piacevole come possiamo fare? Possiamo stabilire degli orari in cui è più facile dormire? Possiamo mettere in pratica degli accorgimenti che ci aiutano?

Ne parliamo con la dottoressa Elisa Morrone, psicologa e psicoterapeuta, esperta in disturbi del sonno, di Humanitas PsicoCare.

La nostra temperatura corporea varia nel corso delle 24 ore, con valori più elevati nelle prime ore del pomeriggio e più bassi nelle prime ore del mattino (5-6 ore dopo l’addormentamento), oscillando tra i 36 e i 37,5 °C.

Nel corso delle 24 ore una diminuzione della temperatura corrisponde a una maggior propensione al sonno, motivo per cui spesso si sente freddo quando si è stanchi e assonnati.

L’associazione tra questi cambi di temperatura corporea, fisiologici, e le alte temperature esterne rende il sonno disturbato: ci si gira e rigira nel letto in cerca dell’angolino fresco che ci aiuti a prender sonno. 

Temperatura e ritmo del sonno

I processi che regolano la temperatura corporea e il ritmo del sonno sono localizzati nell’ipotalamo (che regola molte altre funzioni come l’appetito, le emozioni o i riflessi), dove troviamo due “centri” che hanno il compito di preservare e mantenere normale e costante la nostra temperatura:

  • centro termolitico: reagisce in presenza di aumenti della temperatura corporea, aumentando la vasodilatazione e provocando la sudorazione; 
  • centro termogenico: reagisce ad abbassamenti della temperatura corporea, modificando l’attività muscolare provocando i brividi e, in casi estremi, scosse muscolari con lo scopo proprio di aumentare la temperatura.

Entrambi mettono in atto meccanismi compensatori per permettere di adattare la nostra temperatura corporea alle variazioni esterne; durante il sonno non REM che prevale nelle prime ore di sonno continuano a lavorare, mentre si disattivano durante le ore di sonno REM. In questa fase di sonno, prevalente invece durante la seconda parte della notte, l’organismo per rispondere alle escursioni termiche ha a disposizione solo il risveglio e/o il passaggio alla fase di sonno non REM. 

Per questo motivo è molto più frequente svegliarsi nelle fasi di sonno REM: si avvertono di più il caldo e il freddo e si fa più fatica a riaddormentarsi, anche per un meccanismo fisiologico che regola il sonno.

Come dormire bene nonostante il caldo?

Le buone regole di igiene del sonno prevedono:

  • evitare di praticare attività fisica alla sera, perché oltre ad attivare l’organismo e rendere difficile l’addormentamento aumenta anche la vasodilatazione e quindi la percezione del caldo;
  • mangiare cibi leggeri (non troppo, per non svegliarsi di notte a causa della fame) per non rendere difficile la digestione che può causare un minimo aumento della temperatura corporea;
  • evitare di assumere bevande alcoliche perché aumentano i risvegli notturni e la percezione del caldo;
  • utilizzare lenzuola di cotone;
  • evitare di dormire completamente nudi perché il corpo umano rilascia calore e dormire nudi aumenta la percezione del caldo oltre al rischio di sentire freddo al mattino; 
  • evitare di dormire completamente scoperti perché al mattino presto la temperatura corporea raggiunge i livelli minimi con la possibilità che si avvertano brividi di freddo; avere a disposizione un lenzuolo di cotone, con cui coprirsi, può essere di aiuto; 
  • cercare di creare un ricircolo di aria nella stanza, lasciando le porte e le finestre aperte per far rinfrescare la camera da letto prima di andare a dormire e, se possibile, lasciarle aperte durante la notte; 
  • evitare l’uso dei condizionatori per tutta la notte, sia per una scelta ecologica sia perché l’uso continuativo può disturbare il sonno a causa del rumore, o provocare secchezza della bocca, tosse, raffreddore, mal di testa al mattino; 
  • evitare di continuare a girarsi nel letto perché aumenta sia la difficoltà a dormire sia la sensazione di caldo, meglio alzarsi;
  • evitare di lasciare computer, tablet, tv e radio accesi perché generano calore (così come lavatrici e lavastoviglie) e consumano, comunque, energia; 
  • evitare di raffreddare le lenzuola: per quanto possa sembrare un buon metodo non aiuta a migliorare la qualità del sonno, anzi, finito l’effetto “refrigerante” è molto probabile avvertire ancora più caldo;
  • non fare docce fredde con la speranza di rinfrescarsi: l’effetto dura poco ma soprattutto finito l’effetto la sensazione di caldo è ancora più intensa; 
  • l’esposizione alla luce solare al mattino, anche solo 10-15 minuti senza occhiali da sole, può aiutare a ridurre la sensazione di stanchezza dovuta alla notte complicata;
  • prendersi un momento, prima o subito dopo cena, per chiudere la giornata e quindi dedicarsi ad attività rilassanti per prepararsi a dormire; 
  • mantenere il più possibile orari di sonno stabili e andare a letto solo quando si ha davvero sonno.

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Avere difficoltà a buttare beni personali, anche senza valore, accumulando così tanti oggetti non necessari che, in assenza di un intervento, possono riempire e ingombrare intere stanze (ma anche lavandini, vasche da bagno o armadi), fino a renderle inutilizzabili per i loro scopi.

La necessità incontrollata di conservare ogni cosa può tradursi in una tendenza all’accumulo patologica, nota come disturbo da accumulo o disposofobia. Come si riconosce e come si può intervenire?

Ne parliamo con la dottoressa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare

Quando accumulare oggetti diventa un disturbo?

Conservare degli oggetti, collezionarli o tenerli semplicemente per ricordo è del tutto normale. Dal punto di vista evolutivo, mettere da parte delle risorse per i periodi più difficili, ha sempre significato favorire la sopravvivenza, con una rilevanza fisica ancora prima che mentale.

La necessità di conservare ogni cosa diventa patologica quando il bisogno di accumulare questi beni (spesso inutilizzati) senza volerli gettare via, limita in modo importante l’attività quotidiana (come lavarsi, dormire o riuscire a pulire la casa).

L’accumulatore seriale, infatti, non sembra rendersi conto che l’accumulo stesso riduce o addirittura impedisce la possibilità di girare per casa e fare anche le cose più semplici, come lavarsi o mangiare. 

Perché è difficile liberarsi degli oggetti?

Le persone con un disturbo da accumulo tendono ad avere un forte attaccamento emotivo nei confronti degli oggetti che conservano, con un costante bisogno di mantenere un controllo su di essi (molto spesso, per esempio, non accettano che nessuno li tocchi o semplicemente si avvicini).

Il solo pensiero di dover eliminare qualcosa genera ansia, angoscia e paura, e il passaggio all’azione non viene mai compiuto sia per il timore di prendere la decisione sbagliata (la persona tende a ripetersi che ogni cosa un giorno potrebbe tornare utile o accrescere il proprio valore economico o affettivo), sia per l’incapacità a distaccarsi dagli oggetti stessi, anche se poi spesso sono inutilizzati e vengono completamente abbandonati nel caos e nel degrado che tante volte circondano queste persone.

I sintomi del disturbo da accumulo

Esistono alcuni segnali “precoci” che possono essere considerati un campanello d’allarme per il disturbo da accumulo, come:

  • discussioni familiari causate da eccessive “cose in casa” che generano disordine
  • eccessiva tendenza a fare scorte
  • difficoltà nella gestione economica
  • tendenza alla procrastinazione di comportamenti di riordino
  • riduzione delle relazioni sociali fino al ritiro.

Questi comportamenti possono essere sufficienti per rivolgersi a uno specialista: un intervento precoce e mirato, infatti, può essere fondamentale per prevenire l’aggravamento dei sintomi, prima che compromettano significativamente il benessere psicologico non solo della persona coinvolta ma anche dei familiari. 

Come si cura il disturbo da accumulo?

Il primo passo è quello di rivolgersi a uno specialista (generalmente sono i familiari che richiedono un intervento, perché spesso subiscono in prima persona gli effetti di tali condotte patologiche). Fare gesti estremi come svuotare fisicamente la casa, non solo non è utile, ma può anche scatenare reazioni avverse in chi soffre di disturbo da accumulo.

Ad oggi, il trattamento d’elezione è la terapia cognitivo comportamentale con una fase psicoeducazionale sia per il paziente stesso (per promuovere una maggior consapevolezza della malattia), sia per i suoi familiari.

Molto importante è far comprendere la presenza di una componente biologica nell’origine di questo disturbo così da cercare di riscattare, almeno in parte, l’immagine negativa del paziente che spesso si è strutturata nel tempo.

L’obiettivo del percorso terapeutico è quello di intervenire sulle credenze disfunzionali dei pazienti legate all’accumulo ed aiutarli ad avere maggior consapevolezza della propria malattia (insight) e dei propri comportamenti disfunzionali, a sviluppare abilità di decision making, gestione e prevenzione dell’impulso all’accumulo, intervenendo anche sulle relazioni familiari.

Un buon intervento deve infatti partire da una solida alleanza terapeutica tra tutti i soggetti coinvolti, così da costruire un percorso mirato e con obiettivi condivisi.

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Il gioco patologico è sempre e solo d’azzardo (gambling) e diventa tale quando, da attività piacevole ed eccitante, diventa una dipendenza, grave e distruttiva, con conseguenze importanti (anche dal punto di vista legale) sulla vita relazionale, familiare, lavorativa e ricreativa della persona. Più precisamente, il gioco d’azzardo patologico viene definito come un “comportamento persistente, ricorrente, e maladattivo di gioco d’azzardo che compromette le attività personali, familiari, o lavorative” (APA, 2000). 

Si tratta a tutti gli effetti di una dipendenza patologica (riconosciuta tale dalla comunità scientifica internazionale nel 1980, quando l’associazione degli psichiatri americani lo inserì tra i disturbi psichici nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), spesso nascosta e scoperta dai familiari solo quando ormai la situazione finanziaria è altamente compromessa.

Oggi, il gioco on line e le scarse informazioni sulle realistiche probabilità di vincita, rendono questo fenomeno un problema di salute pubblica di dimensioni sempre più rilevanti. Ne parliamo con la dottoressa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare.

Le fasi del gioco d’azzardo patologico

In letteratura sono descritte tre diverse fasi che il paziente attraversa nello sviluppo del gioco d’azzardo patologico (Lesieur & Rosenthal, 1991; Guerreschi et al., 2000; Ravizza et al., 2000):

1. Fase di vincite o fase vincente

Il paziente ha avuto una grossa vincita, è euforico, gioca per divertirsi più che per guadagnare. “Il soggetto sente che può controllare il gioco, che può influenzare il fato, che continuerà a vincere”.

2. Fase di perdite o perdente

La fase vincente è quasi sempre seguita da una serie di perdite al gioco: la persona cerca di recuperare soldi giocando somme di denaro sempre maggiori, inizia a contrarre debiti (spesso mentendo ai familiari), arrivando a compiere anche azioni illegali, manifestando tutti sintomi tipici della dipendenza:

  • sta male se non gioca
  • è irritabile
  • è ansiosa
  • è aggressiva
  • pensa solo al gioco smettendo di interessarsi a tutto il resto
  • contrae debiti
  • mente
  • deve giocare sempre di più e con somme sempre maggiori di denaro.

3. Fase della disperazione

La persona si rende conto che probabilmente non vincerà più, è consapevole dei disastri provocati dal gioco ma nonostante questo non riesce a smettere di giocare, e spesso, l’unica via di uscita sembra essere il suicidio.

Il giocatore d’azzardo, presenta delle “distorsioni cognitive”, pensa di avere un’influenza sul gioco d’azzardo, attribuendo le perdite e le vincite a fattori del tutto errati, senza tenere conto che il risultato del gioco è interamente determinato dal caso e non dall’abilità del giocatore.

Ci sono anche meccanismi comportamentali di condizionamento che facilitano la caduta dei pazienti nella dipendenza patologica, oltre ad alcuni aspetti di natura biologica, come impulsività, deficit di attenzione, antisocialità e ricerca di sensazioni emotive intense (accompagnate spesso da una scarsa tolleranza alle frustrazioni, tendenza al suicidio e abuso di alcool e droghe).

Ci sono differenze tra maschi e femmine?

I maschi sono spesso giocatori patologici o compulsivi, iniziano a giocare in tarda adolescenza (con una progressione verso un gioco patologico più lenta), tendono a prediligere blackjack e poker – o altri tipi di giochi con le carte – dadi e scommesse su eventi sportivi; le femmine, invece, tendono a cominciare a giocare in età adulta e spesso hanno un’evoluzione più rapida verso il gioco d’azzardo patologico, inoltre, sono più coinvolte in giochi non strategici (con minore coinvolgimento interpersonale), come lotterie o slot machines (Grant e Kim, 2001; Potenza et al., 2001; Grant e Kim, 2002). 

Come si cura il gioco d’azzardo patologico?

Le linee guida internazionali indicano di trattare il disturbo considerandolo come dipendenza da sostanze, con la necessità di utilizzare un approccio multidisciplinare e un percorso terapeutico personalizzato.

Il trattamento maggiormente utilizzato è la terapia cognitivo comportamentale che ha dimostrato una buona efficacia nel controllo del gioco patologico. L’obiettivo è quello di rimuovere gli stimoli condizionati al gioco (richiedendo di fatto l’astinenza assoluta dal gioco), per poi aiutare il paziente a capire quali schemi di intervento può attuare per riuscire a ripagare i debiti. 

Il trattamento prevede anche esercizi di mindfulness (per gestire ad esempio l’intolleranza delle frustrazioni), e quando necessario, la terapia farmacologica.

Fondamentali sono anche gli interventi a sostegno dei familiari, per aiutarli a comprendere le dinamiche del disturbo e migliorare quindi le relazioni con i pazienti.

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Il modo in cui vediamo e viviamo il mondo può rivelare molto sulla nostra personalità e influenzare profondamente la nostra vita. Un approccio ottimista, infatti, non solo facilita la gestione dello stress, ma ha effetti positivi su tutti gli aspetti della vita quotidiana: le persone con un pensiero positivo dimostrano maggiore perseveranza negli studi, raggiungono traguardi professionali più alti e vivono relazioni interpersonali più soddisfacenti. Essere positivi può trasformare il modo di affrontare le difficoltà quotidiane, portando a concreti benefici in termini di salute, benessere e successo personale.

Ne parliamo con il dottor Francesco Cuniberti, medico psichiatra, specialista in disturbi depressivi, d’ansia e di panico, presso Humanitas PsicoCare e Humanitas Principe Oddone a Torino

Cos’è il pensiero positivo?

Avere un pensiero positivo non significa ignorare i problemi della vita, ma affrontarli con un atteggiamento costruttivo e orientato a soluzioni. Si tratta di credere che, anche in situazioni difficili, il meglio possa ancora accadere.

Questo processo inizia spesso con un dialogo interiore, ovvero un flusso di pensieri che attraversa costantemente la mente. Questi possono essere positivi o negativi e influenzano il nostro approccio alle situazioni. Quando la mente è dominata da pensieri negativi, si tende ad adottare una visione pessimista della vita. Al contrario, chi coltiva pensieri positivi sviluppa un atteggiamento più ottimista. 

Benefici del pensiero positivo

Il pensiero positivo, che include la capacità di affrontare le sfide in modo costruttivo, non è solo il risultato del successo, ma spesso il suo punto di partenza. In particolare, favorisce lo sviluppo di comportamenti e qualità che contribuiscono al raggiungimento degli obiettivi in diversi ambiti della vita, tra cui:

  • Relazioni personali: le persone con un atteggiamento positivo tendono a creare relazioni più forti e soddisfacenti, che a loro volta migliorano il benessere generale.
  • Carriera e prestazioni lavorative: chi adotta un pensiero positivo è più produttivo, energico e meglio preparato ad affrontare le sfide professionali.
  • Salute fisica e mentale: gli effetti positivi del pensiero ottimistico sono collegati a una migliore salute fisica, a una maggiore resistenza allo stress e a un rischio inferiore di malattie. Inoltre, riduce la possibilità di sviluppare depressione e altre problematiche psichiatriche e psicologiche.

Tuttavia, il pensiero positivo non implica evitare le emozioni negative. Le persone con un atteggiamento positivo sono comunque in grado di riconoscere e gestire le emozioni negative quando necessario. Questo è cruciale per mantenere un equilibrio emotivo sano. La capacità di provare emozioni come la tristezza o la rabbia aiuta le persone a rispondere in modo adattivo a situazioni di stress o pericolo, favorendo reazioni come la cautela o l’autodifesa.

In sintesi, il pensiero positivo non equivale a essere in uno stato di felicità costante, ma a trovare un equilibrio emotivo. Le persone positive sanno quando è appropriato esprimere emozioni negative e lo fanno in modo controllato e costruttivo. Questo le rende più resilienti, capaci di affrontare situazioni complesse senza esserne sopraffatte. La gestione delle emozioni negative, infatti, è un segno di maturità emotiva che contribuisce ulteriormente al successo personale.

L’ottimismo e il pessimismo influenzano direttamente il modo in cui le persone affrontano le sfide quotidiane. Di fronte a problemi, di qualunque intensità, le reazioni emotive possono variare dall’entusiasmo alla frustrazione, da stati d’ansia a tristezza. Non esistono emozioni che non si possono provare, né eliminare. Ma l’importante è riconoscerle e riuscire a gestirle nel modo corretto.

Che differenza c’è tra ottimismo e pessimismo?

Gli ottimisti sono coloro che si aspettano che accadano cose positive, mentre i pessimisti anticipano che le cose andranno male. Anticipare il meglio piuttosto che il peggio influisce profondamente sui processi comportamentali e sul modo in cui le persone affrontano la vita. Gli ottimisti e i pessimisti differiscono nel modo in cui gestiscono le difficoltà, lo stress, i conflitti e su come affrontano i problemi quotidiani e su come utilizzano le risorse sociali ed economiche che dispongono.

L’ottimismo si associa a una minore disperazione, che è un noto fattore di rischio per la depressione, e sembra aumentare la capacità di resistere agli eventi stressanti. Questa resilienza non solo riduce il rischio di malattie mentali, ma contribuisce anche a migliorare lo stato di salute generale. 

Come riconoscere il pensiero negativo?

Ecco alcuni segnali comuni di pensiero negativo:

  • Concentrarsi solo sugli aspetti negativi, ignorando quelli positivi
  • Incolparsi automaticamente quando qualcosa va storto
  • Prevedere sempre il peggio, anche senza prove
  • Attribuire sempre la responsabilità a qualcun altro per i propri problemi
  • Rimproverarsi per non aver fatto tutto ciò che sarebbe stato necessario fare
  • Far sembrare i problemi più grandi di quanto siano realmente
  • Imporsi standard irrealistici, predisponendosi al fallimento
  • Vedere tutto come bianco o nero, senza vie di mezzo.

Come sviluppare il pensiero positivo?

Imparare a trasformare il pensiero negativo in positivo richiede tempo e pratica, ma può migliorare notevolmente il benessere di una persona. Ecco alcuni consigli:

  • Concentrarsi su un aspetto della propria vita che viene recepito in modo negativo e provare a cambiarne l’approccio.
  • Prendersi un momento, durante la giornata, per riflettere sui propri pensieri. Se emerge negatività, cercare di trasformarla in una riflessione positiva. Una pratica utile è scrivere i propri pensieri analizzandoli e cercando spunti d’interpretazione diversi.
  • Imparare a sorridere anche nelle situazioni difficili. Ridere può aiutare a gestire meglio lo stress.
  • Accogliere le emozioni, qualunque esse siano, affrontandole e non spaventandosi.
  • Mantenere uno stile di vita sano. L’esercizio fisico, una dieta equilibrata e un sonno adeguato sono fondamentali per mantenere un buon equilibrio mentale.
  • Circondarsi di persone positive può aiutare a mantenere una visione ottimista e a gestire meglio lo stress.
  • Essere gentili e non dire nulla a se stessi che non si direbbe a un’altra persona. 

Di seguito alcuni esempi di dialogo interiore negativo trasformati in pensieri positivi:

Dialogo interiore negativo: Non l’ho mai fatto prima.

Pensiero positivo: È un’opportunità per imparare qualcosa di nuovo.

Dialogo interiore negativo: È troppo difficile.

Pensiero positivo: Affronterò la questione da una prospettiva diversa.

Dialogo interiore negativo: Non ho le risorse.

Pensiero positivo: Riuscirò a trovarle.

Dialogo interiore negativo: Sono troppo pigro per farlo.

Pensiero positivo: Non sono riuscito a inserirlo nei miei impegni, ma posso riesaminare alcune priorità.

Dialogo interiore negativo: Non c’è modo che funzioni.

Pensiero positivo: Posso provare a farlo funzionare.

Dialogo interiore negativo: È un cambiamento troppo radicale.

Pensiero positivo: Correrò il rischio.

Dialogo interiore negativo: Nessuno si preoccupa di comunicare con me.

Pensiero positivo: Vedrò se riesco ad aprire i canali di comunicazione.

Dialogo interiore negativo: Non migliorerò di molto in questo.

Pensiero positivo: Ci riproverò.

Quando la negatività e la difficoltà a gestire i pensieri negativi e il pessimismo diventano troppo intensi o impattanti sulla vita e sulle relazioni, è il momento di chiedere aiuto: tramite un percorso di psicoterapia come quello cognitivo comportamentale è possibile avere strumenti e tecniche per modificare il proprio modo di vivere il quotidiano, gestire le emozioni e i pensieri disfunzionali.

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Gli smartphone sono ormai parte integrante della quotidianità, ma il loro uso può, talvolta interferire con la vita di coppia. Le continue notifiche possono generare distrazione in chi le riceve e possono far sentire trascurato il partner creando tensioni. 

Per mantenere l’armonia nella relazione è essenziale gestire queste situazioni con una comunicazione attenta e assertiva.

Ne parliamo con il dottor Andrea Ronconi, sessuologo clinico psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare e presso Humanitas Medical Care De Angeli Milano

Quando le notifiche creano distanza

Il fastidio causato dalle notifiche dello smartphone del proprio partner può essere gestito in modo sano e costruttivo, seguendo alcuni accorgimenti. 

Il primo passo è parlarne apertamente, usando un tono tranquillo, gentile e non accusatorio. In questo modo si possono prevenire ulteriori tensioni e incomprensioni reciproche. È fondamentale che l’altro capisca che l’obiettivo non è limitare le sue comunicazioni, ma creare uno spazio in cui i partner possano sentirsi reciprocamente più presenti. 

Una comunicazione onesta e gentile è fondamentale: bisogna spiegare perché le notifiche infastidiscono e come ci si sente a riguardo. Successivamente si possono definire momenti e spazi esclusivi, senza dispositivi, come durante i pasti, nei momenti di condivisione o intimità oppure a letto prima di dormire. Si può proporre di mettere entrambi i telefoni in modalità silenziosa o “non disturbare” in questi momenti.

Se la ricezione di messaggi è importante per il lavoro o altre necessità familiari o personali, in genere si consiglia di proporre un compromesso come suggerire di abbassare il volume delle notifiche o usare una vibrazione più discreta, dopo aver valutato se, effettivamente, tutte le notifiche attivate sono davvero essenziali.

Creare un ambiente di coppia rilassante può essere utile a trasformare la casa in un luogo dove entrambi si sentano a proprio agio.

La vera causa del problema

A volte il fastidio provocato dalle notifiche non è tanto collegato alla distrazione di per sé, ma a fattori più profondi. Chiedersi cosa infastidisce davvero e individuare le cause alla base delle proprie fatiche è molto importante per affrontarle in modo costruttivo e corretto. Per esempio, potrebbero insorgere preoccupazione e gelosia se si pensa che alcune notifiche provengano da persone interessate al proprio partner; oppure la continua attenzione data alle notifiche del telefono potrebbe essere letta come un segno di disinteresse nei propri confronti o come mancanza di rispetto

Riflettere su eventuali motivi più profondi e, se necessario, affrontarli insieme, può essere una buona strategia, mantenendo una comunicazione funzionale alla soluzione di problemi e al miglioramento della qualità della vita di coppia.

Tuttavia, è importante sottolineare che alcune difficoltà relazionali possono non dipendere esclusivamente dalla coppia, ma anche da problematiche personali di uno dei partner, come stress, difficoltà nella gestione delle emozioni, gelosia patologica o traumi pregressi. In questi casi, un percorso di psicoterapia individuale può rivelarsi utile per comprendere e affrontare le proprie difficoltà, migliorando così anche la qualità della relazione.

Come fare se gli accorgimenti non funzionano?

Se queste soluzioni non fossero efficaci, può essere opportuno ricorrere a strategie “autoplastiche”, cercando cioè di adattarsi a un ambiente che non può essere cambiato, modificando l’approccio interiore per gestire e tollerare meglio la situazione. Ad esempio, il fastidio del suono può essere gestito utilizzando cuffie.

Riconoscere che questa è “solo” una piccola sfida della convivenza può aiutare ad affrontarla con maggior leggerezza, ironia e collaborazione. La comunicazione aperta e la capacità di trovare dei compromessi sono sempre fondamentali.

Infine dedicare momenti alla coppia senza smartphone è fondamentale per rafforzare la connessione e rendere il tempo trascorso insieme più autentico. Per favorire la complicità può essere utile concordare momenti o situazioni in cui il telefono resta spento, come durante i pasti, prima di dormire, in gite o incontri con amici e parenti.

Se non si ha una necessità lavorativa di reperibilità costante, si può anche stabilire un luogo specifico, come un cassetto “please, do not disturb”, dove riporre i dispositivi per evitare la tentazione di controllarli.

Un altro modo per riscoprire la connessione è favorire un dialogo autentico. Fare domande aperte sui desideri, sui progetti futuri o sui ricordi felici (evitando discussioni su problemi di coppia irrisolti) aiuta a ritrovare il piacere della conversazione. Raccontarsi aneddoti divertenti o emozionanti della giornata senza distrazioni può rafforzare l’intimità.

Anche condividere attività semplici può fare la differenza. Ad esempio:

  • Cucinare: scegliere e preparare una nuova ricetta in collaborazione.
  • Passeggiare senza telefoni: godersi il momento e la conversazione.
  • Guardare un film senza distrazioni: scegliere insieme cosa vedere e immergersi nell’esperienza.
  • Attività creative: dipingere, ballare, leggere ad alta voce un libro.
  • Fare sport insieme: yoga, bicicletta, escursioni e altro.

Infine, il contatto fisico è fondamentale per rafforzare il legame di coppia. Gesti come abbracciarsi più spesso, tenersi per mano o condividere momenti di intimità favoriscono lo sviluppo di una connessione emotiva tra i partner e consolidano la relazione.

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Anoressia, bulimia e binge eating sono disturbi del comportamento alimentare (DCA) che colpiscono una percentuale sempre più significativa della popolazione giovanile, con conseguenze molto serie sul corpo e sulla mente.

Secondo una mappatura dei centri del Servizio Sanitario Nazionale realizzata dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), l’utenza in carico è prevalentemente di genere femminile (90%), con il 59% degli utenti di età compresa tra i 13 e i 25 anni e il 6% con meno di 12 anni. Per quanto riguarda le diagnosi più frequenti, l’anoressia nervosa rappresenta il 42,3% dei casi, la bulimia nervosa il 18,2% e il disturbo da alimentazione incontrollata il 14,6%. 

Come si riconoscono i disturbi dell’alimentazione e cosa fare? 

Ne parliamo con il team di professionisti Humanitas PsicoCare

Cosa sono i disturbi del comportamento alimentare?

I disturbi del comportamento alimentare sono patologie complesse, il cui sviluppo è determinato da diversi fattori, biologici, psicologici e ambientali,  che interagiscono tra loro.

Sono caratterizzate da comportamenti alimentari definiti “disfunzionali” (restrizioni estreme o abbuffate), un’eccessiva preoccupazione per il peso e da un’alterata percezione dell’immagine corporea; tali aspetti inoltre sono spesso correlati e bassi livelli di autostima, elemento che può contribuire all’insorgenza e al mantenimento del disturbo.

I disturbi dell’alimentazione possono presentarsi in associazione ad altri disturbi psichici come per esempio disturbi d’ansia e disturbi dell’umore

Contrariamente a quanto si pensi, i disturbi del comportamento alimentare, possono colpire anche persone con un peso normale, sovrappeso e obesità.

Anoressia nervosa: i sintomi

L’anoressia nervosa è caratterizzata da un’eccessiva valutazione del peso e della forma corporea, con conseguente importante perdita di peso, dovuta alla diminuzione dell’assunzione di alimenti.

Colpisce prevalentemente il sesso femminile, soprattutto tra i 14 e i 18 anni, anche se i primi segnali, in genere, possono manifestarsi già durante la pre-adolescenza o l’inizio dell’adolescenza. 

I sintomi sono molteplici, sia fisici sia psicologici. Le problematiche associate all’anoressia nervosa sono piuttosto severe e con il tempo possono essere fatali. Spesso le persone con anoressia tendono a nascondere la propria magrezza e i problemi legati all’assunzione di cibo, negano la presenza della malattia e spesso rifiutano le cure, che quindi rischiano di essere messe in atto quando il disturbo è ormai cronicizzato.

Bulimia nervosa: cos’è e quali sono i sintomi

La bulimia nervosa si manifesta attraverso episodi ricorrenti di abbuffate seguiti da comportamenti compensatori volti a limitare l’aumento di peso, come il vomito autoindotto, l’uso di lassativi o diuretici e un digiuno di compensazione e attività fisica.

Le persone con bulimia nervosa spesso cercano di nasconderne i sintomi, le abbuffate vengono effettuate in solitudine e si caratterizzano per l’assunzione di diverse tipologie di cibo, con violenta voracità e senza alcun piacere. 

Binge eating: cos’è il disturbo da alimentazione incontrollata

Il disturbo da alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder) è caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate, durante i quali si consumano grandi quantità di cibo, in un tempo limitato, anche in assenza dello stimolo della fame e senza mettere in atto comportamenti compensatori. 

Questi episodi di perdita di controllo spesso si accompagnano a stati depressivi, disagi psicologici, senso di colpa e vergogna.

Disturbi del comportamento alimentare: le conseguenze per la salute

Queste condizioni possono avere gravi ripercussioni sulla salute fisica e mentale di chi ne soffre.

L’anoressia nervosa, per esempio, può causare malnutrizione, amenorrea (sospensione del ciclo mestruale), osteoporosi e altre complicanze mediche.

La bulimia nervosa, invece, può portare a disturbi dentali, problemi gastrointestinali e squilibri degli elettroliti, con possibile complicanze cardiache.

Il disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder) è associato all’obesità e alle sue relative complicanze per la salute, come Diabete di tipo 2, ipertensione e problemi cardiovascolari.

Come supportare una persona che ne soffre?

Comunicare con una persona che soffre di disturbi del comportamento alimentare richiede particolare sensibilità ed empatia. In particolare è importante:

  • Non giudicare o commentare l’aspetto fisico: i commenti riguardanti l’aspetto fisico potrebbero aumentare l’ansia e la preoccupazione riguardo alla propria immagine corporea.
  • Non ignorare il problema o temporeggiare: intervenire tempestivamente è fondamentale per minimizzare le conseguenze fisiche e psicologiche.
  • Non forzare a mangiare (o non mangiare): forzare un cambiamento dei comportamenti alimentari può portare a resistenza e ostilità.
  • Evitare di minimizzare il disturbo: i disturbi del comportamento alimentare sono complessi, che richiedono un aiuto professionale multidisciplinare.
  • Non fare leva sul senso di colpa: i sensi di colpa possono peggiorare la situazione e non sono costruttivi. È importante mostrare invece empatia e sostegno non giudicante.

L’importanza di un trattamento precoce

Se non trattati in tempi e con metodi adeguati, i disturbi dell’alimentazione possono diventare cronici e compromettere seriamente la salute di vari organi e apparati del corpo (cardiovascolare, gastrointestinale, endocrino, ematologico, scheletrico, sistema nervoso centrale, dermatologico ecc.). All’anoressia nervosa è collegata una mortalità 5-10 volte maggiore di quella di persone sane della stessa età e sesso.

Il percorso di cura

Essendo patologie complesse, i disturbi del comportamento alimentare, richiedono una stretta e costante collaborazione tra figure professionali per garantire una diagnosi precoce e un trattamento personalizzato, adattato alle specifiche esigenze del paziente.

A seconda delle esigenze, la cura prevede l’utilizzo di terapie medico-nutrizionali, psicoterapia, gruppi educazionali, attività ricreative e/o occupazionali, il coinvolgimento dei genitori (in caso di minori).

  1. Comunicato Stampa N°05/2022- Disturbi alimentari la prima mappatura dei centri del SSN realizzata dall’ISS- Pubblicato il 24/01/2022- modificato 10/01/2022.

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Ultimo aggiornamento: Marzo 2025
Data online: Marzo 2024

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) è un disturbo mentale che colpisce circa il 2-3% della popolazione globale secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), con un impatto significativo sulla qualità della vita di chi ne soffre. Studi scientifici indicano che i sintomi del DOC si manifestano spesso in adolescenza o nella prima età adulta, e senza un trattamento adeguato, il disturbo tende a cronicizzarsi. 

Ma come si comporta una persona con disturbo ossessivo compulsivo? Ne parliamo con la dottoressa Silvia Negrin, psicologa presso Humanitas Psicocare

Come si comporta una persona con Disturbo Ossessivo Compulsivo?

Le persone con disturbo ossessivo compulsivo spesso sperimentano pensieri intrusivi e persistenti, noti come ossessioni, che generano ansia e disagio. Per cercare sollievo, mettono in atto comportamenti ripetitivi o rituali, detti compulsioni. Questi meccanismi non offrono una soluzione duratura, ma servono temporaneamente ad alleviare la tensione emotiva.

Esempi comuni includono:

  • Controllo eccessivo: verificare ripetutamente che porte e finestre siano chiuse.
  • Pulizia ossessiva: lavarsi le mani o pulire la casa in modo compulsivo per paura di contaminazioni.
  • Ordine e simmetria: organizzare oggetti in un ordine specifico, spesso accompagnato da un bisogno irrazionale di perfezione.

I meccanismi del Disturbo Ossessivo Compulsivo: ossessioni e compulsioni

Il DOC si basa su due elementi chiave:

  • Ossessioni: pensieri, immagini o impulsi ricorrenti e indesiderati che causano disagio. Le ossessioni comuni includono la paura di essere contaminati, dubbi eccessivi (es. “Ho spento il gas?”), pensieri aggressivi o tabù.
  • Compulsioni: azioni ripetitive o rituali mentali messi in atto per ridurre l’ansia causata dalle ossessioni. Possono essere comportamenti visibili (come lavarsi le mani) o rituali mentali (ripetere frasi o numeri nella mente).

Tipi di ossessioni e compulsioni

Esistono diverse forme di DOC, ognuna caratterizzata da tipi specifici di ossessioni e compulsioni:

  • DOC da contaminazione: paura eccessiva di sporco, germi o malattie.
  • DOC da controllo: bisogno di controllare più volte azioni quotidiane.
  • DOC di accumulo: difficoltà nel buttare oggetti, anche inutili.
  • DOC di ordine e simmetria: ossessione per l’ordine e il posizionamento perfetto.
  • DOC di natura aggressiva o tabù: pensieri intrusivi di tipo violento o moralmente inaccettabile.

Cosa causa il disturbo ossessivo compulsivo?

Le cause del disturbo non sono del tutto comprese, ma si ritiene che siano influenzate da molteplici fattori:

  • Fattori genetici: studi su gemelli e famiglie hanno evidenziato una componente ereditaria significativa nel DOC.
  • Squilibri neurochimici: alterazioni nella trasmissione della serotonina, un neurotrasmettitore cruciale per la regolazione dell’umore e dell’ansia, sono spesso riscontrate nelle persone con DOC.
  • Disfunzioni cerebrali: ricerche di neuroimaging mostrano iperattività in specifiche aree cerebrali, come la corteccia orbitofrontale e i gangli della base, implicate nei meccanismi di controllo e decisione.
  • Esperienze traumatiche o stressanti: eventi significativi, come abusi o perdite, possono innescare o peggiorare i sintomi del DOC in soggetti predisposti.
  • Tratto di personalità caratterizzato da perfezionismo, scrupolosità e cura eccessiva per i dettagli, tendenza al continuo controllo, coartazione dell’espressione emozionale e senso di inadeguatezza.
  • Fattori ambientali: infezioni pediatriche, come lo streptococco, sono state associate a un aumento del rischio di DOC in alcuni casi (sindrome PANDAS).

I trattamenti del disturbo ossessivo compulsivo

Il DOC è una condizione trattabile, e molte persone traggono beneficio da un intervento psicologico mirato. Tra i trattamenti più efficaci troviamo:

Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT): concentra sulla ristrutturazione dei pensieri disfunzionali e sull’esposizione graduale alle ossessioni senza ricorrere a compulsioni. Una tecnica fondamentale è l’esposizione con prevenzione della risposta (ERP), che consiste nell’esporsi progressivamente a situazioni che scatenano ansia (es. toccare oggetti considerati contaminati) senza mettere in atto rituali compulsivi. L’ERP aiuta a ridurre gradualmente l’ansia associata agli stimoli temuti e a rompere il ciclo ossessione-compulsione. Lesposizione comportamentale si verifica in maniera graduale e gerarchica, laddove gli stimoli che provocano meno paura vengono evocati per primi. Gli esercizi di esposizione possono essere messi in pratica durante una sessione (e assegnati al paziente come dei compiti per casa) attraverso una guida dal vivo o in immaginazione nella sala terapia. Durante l’esposizione dal vivo, il terapeuta porta realmente il paziente a confrontarsi con le sue paure e agli stimoli che ne sono causa. Ad esempio, a un paziente con la paura di contaminarsi potrebbe essere richiesto di toccare un oggetto sporco per qualche minuto senza potersi lavare le mani finchè diminuisce la sua ansia. Un’altra tecnica comune e diffusa è la desensibilizzazione sistematica. La desensibilizzazione sistematica implica l’esposizione graduale all’oggetto della fobia (per esempio, i ragni) e quello rilassante (ad esempio, il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson). In pratica, si tratta di individuare quelle caratteristiche che possono creare ansia in modo dettagliato dell’oggetto della fobia ad esempio: grandezza, forma, colore e altro ancora. Dopo aver individuato le caratteristiche dello stimolo e scelto su quale lavorare è importante ordinare da quello più facilmente tollerato a quello che crea più ansia. In seguito, quando la persona riesce ad immaginare nitidamente lo stimolo proposto, gli si chiede il livello di ansia provato immaginando o esponendosi finché la persona non comunica di aver provato un livello di ansia pari a zero. Successivamente, si ripete la stessa procedura aumentando l’intensità dello stimolo secondo la classifica precedentemente creata.

Infine, la ristrutturazione cognitiva: è un’altra componente importante della terapia cognitivo comportamentale per il DOC. Questa tecnica si concentra sul riconoscere e modificare i pensieri disfunzionali che alimentano l’ansia e le ossessioni. La terapia aiuta i pazienti a identificare i pensieri distorti o irrazionali e a sostituirli con pensieri più realistici e razionali. Ad esempio, una persona con disturbo ossessivo compulsivo potrebbe avere il pensiero ossessivo di aver causato un danno ad altri, anche quando non c’è evidenza di ciò. Con la ristrutturazione cognitiva, il terapeuta attraverso esercizi mirati, aiuta il paziente a riconoscere le distorsioni cognitive e a sostituirle con pensieri più equilibrati e razionali. Questo aiuta a ridurre la presa delle ossessioni e a migliorare la gestione emotiva.

La consapevolezza, o mindfulness, è un’altra componente chiave della terapia cognitivo comportamentale per il DOC (p.e., Cludius et al., 2020). Si rivela particolarmente utile per osservare i pensieri intrusivi senza giudicarli o reagire, riducendo il loro impatto emotivo ed essere più consapevoli nel presente. La mindfulness permette il distanziamento dai propri pensieri e la non azione quando arriva un pensiero o un impulso a mettere in atto uno specifico comportamento (Strauss et al., 2018). Nello studio di Key e collaboratori (2017) un gruppo di pazienti, che non avevano sperimentato una marcata riduzione dei sintomi dopo il trattamento di terapia cognitivo comportamentale, è stato inserito in un programma di Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT). I risultati hanno mostrato la presenza di significativi miglioramenti nei sintomi riportati da questi pazienti. 

ll DOC comporta molto stress e ansia, e tecniche di rilassamento  come la respirazione diaframmatica, il rilassamento muscolare (Jacobson) o il Training Autogeno (Schultz), aiutano a ridurre l’attivazione del sistema nervoso simpatico, favorendo uno stato di calma. È fondamentale per il paziente che riesca a trovare una tecnica di rilassamento che funzioni in base ai propri bisogni.

La terapia cognitivo comportamentale è un approccio altamente efficace per il disturbo ossessivo compulsivo. Attraverso tecniche come l’esposizione e prevenzione della risposta, la ristrutturazione cognitiva e la pratica della mindfulness, i pazienti possono imparare a gestire le loro ossessioni e compulsioni in modo più sano e funzionale. 

  • Abramowitz, J. S., Taylor, S., & McKay, D. (2023). The Nature and Treatment of Obsessive-Compulsive Disorder. Journal of Clinical Psychology, 79(2), 345-360. Disponibile su: https://doi.org/10.1002/jclp.23456.
  • Cludius B., Landmann S., Rose N., Heidenreich T., Hottenrott B., Schroder J. et al. (2020). Long-term effects of mindfulness-based cognitive therapy in patients with obsessivecompulsive disorder and residual symptoms after cognitive behavioral therapy: Twelve-month follow-up of a randomized controlled trial. Psychiatry Research, 291, 113–119.

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Essere genitori non è mai stato semplice, ma oggi più che mai, i cambiamenti sociali stanno trasformando radicalmente il modo in cui si interpreta questo ruolo. Oggi la genitorialità si trova di fronte a nuove e complesse dinamiche, frutto di una società in continuo mutamento. 

In questo articolo, con il contributo della dottoressa Marta Calascibetta, psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare, esploreremo come queste trasformazioni influenzano la relazione genitore-figlio e analizzeremo strategie per affrontare al meglio le sfide della genitorialità moderna.

I cambiamenti sociali e il ruolo del genitore

Il mondo è cambiato in modo profondo negli ultimi decenni e, con esso, anche le famiglie. Uno dei principali fattori che influenzano la genitorialità moderna è l’accelerazione dei ritmi di vita. Il lavoro richiede sempre più tempo ed energia, spesso portando i genitori a sacrificare il tempo da dedicare ai figli. Inoltre, la tecnologia è diventata un elemento dominante nella vita quotidiana, non solo per gli adulti ma anche per i bambini, alterando le modalità di comunicazione all’interno della famiglia.

In passato, i ruoli genitoriali erano più definiti: uno dei genitori si occupava della cura dei figli, mentre l’altro sosteneva economicamente la famiglia. Oggi, invece, assistiamo a un modello familiare più flessibile, dove entrambi i genitori lavorano e si dividono le responsabilità domestiche e genitoriali. Questa flessibilità, sebbene in molti casi sia positiva, porta con sé nuove pressioni e aspettative, soprattutto per quanto riguarda il tempo e la qualità dell’interazione con i figli.

Le principali sfide della genitorialità moderna

Rispetto al passato, i genitori di oggi devono affrontare sfide completamente nuove. Tra le più rilevanti c’è la disponibilità emotiva. Con il moltiplicarsi delle responsabilità lavorative e personali, i genitori si trovano a lottare per essere presenti, non solo fisicamente ma anche emotivamente, per i propri figli. È diventato comune sentirsi divisi tra il dovere di essere produttivi e l’esigenza di essere affettuosi e attenti, creando un forte senso di inadeguatezza.

Un’altra sfida significativa è rappresentata dall’influenza della tecnologia. Gli smartphone, i social media e i giochi elettronici spesso creano una distanza tra genitori e figli, interrompendo i momenti di vera connessione. Il tempo passato davanti agli schermi non solo riduce le opportunità di interazione, ma può anche avere effetti negativi sullo sviluppo emotivo e relazionale dei bambini.

Le conseguenze psicologiche per i genitori

Adattarsi a queste nuove realtà non è semplice, e molti genitori sperimentano un forte stress. Cercare di soddisfare le aspettative, mantenere un equilibrio tra lavoro e famiglia, e al contempo essere genitori “perfetti”, porta molti a sentirsi esausti e frustrati. Questo fenomeno, noto come “burnout genitoriale“, è in aumento. I genitori si sentono spesso isolati, incapaci di chiedere aiuto o di concedersi momenti di pausa per paura di essere giudicati.

La pressione del concetto di genitorialità perfetta, amplificata dai social media, contribuisce ad aumentare questo senso di inadeguatezza. La continua esposizione a immagini di famiglie apparentemente felici e impeccabili crea un confronto costante e irrealistico, che genera ansia e un senso di fallimento. Invece di accettare che la genitorialità è un percorso fatto di successi e fallimenti, molti genitori finiscono per inseguire un ideale irraggiungibile, con conseguenze negative sulla propria salute mentale.

Come affrontare le pressioni della genitorialità moderna

Esistono però delle strategie efficaci che i genitori possono adottare per affrontare queste sfide in modo più sereno e consapevole. In primo luogo, è fondamentale riconoscere i propri limiti. Nessuno può fare tutto alla perfezione, e imparare a delegare o a dire “no” quando necessario è una forma di cura verso se stessi e la propria famiglia.

Un’altra strategia è stabilire delle regole sull’uso della tecnologia all’interno della famiglia. Creare spazi e momenti di disconnessione, come i pasti senza telefoni o un tempo dedicato al gioco o al dialogo, può favorire una maggiore connessione emotiva con i figli.

Inoltre, è utile promuovere una genitorialità consapevole. Questo significa mettere da parte l’idea di essere sempre genitori impeccabili e abbracciare la realtà che la genitorialità è un viaggio di crescita continua, sia per gli adulti che per i bambini. Sviluppare un approccio basato sull’ascolto attivo e sulla gestione delle emozioni, sia proprie che dei figli, è un passo fondamentale per creare un ambiente familiare più equilibrato e sereno.

L’impatto sui figli

I cambiamenti nei ruoli genitoriali non influenzano solo gli adulti, ma anche i bambini o gli adolescenti. L’assenza di tempo di qualità può portare a una mancanza di sicurezza emotiva nei figli, che hanno bisogno di stabilità e di un riferimento sicuro per crescere in modo sano. Inoltre, la sovraesposizione alla tecnologia può limitare lo sviluppo delle abilità sociali e relazionali, rendendo più difficile per i bambini imparare a comunicare e a gestire le proprie emozioni.

D’altra parte, una genitorialità consapevole, basata sulla presenza emotiva e sul dialogo aperto, può offrire ai figli un modello di equilibrio e flessibilità, elementi essenziali per affrontare con resilienza le sfide della vita moderna.

La genitorialità nel mondo moderno è indubbiamente più complessa rispetto al passato, ma non è priva di risorse. Riconoscere che le difficoltà fanno parte del percorso e che nessuno è un genitore perfetto è il primo passo verso una maggiore serenità. Imparare a gestire lo stress, stabilire dei limiti e dare priorità al tempo di qualità con i propri figli sono strategie chiave per affrontare le pressioni della vita quotidiana.

Consigli pratici per affrontare le sfide della genitorialità moderna

  1. Riconoscere i propri limiti: non cercare di fare tutto da soli, ma chiedere aiuto quando se ne ha bisogno.
  2. Creare momenti di connessione: stabilire dei momenti durante la giornata in cui tutta la famiglia si disconnette dai dispositivi e si dedica al dialogo o al gioco.
  3. Accettare l’imperfezione: non esiste la genitorialità perfetta, ma è importante accettare i propri errori come opportunità di crescita.
  4. Praticare l’ascolto attivo: dedicare tempo ad ascoltare i propri figli, cercando di comprendere i loro bisogni emotivi.
  5. Prendersi cura di se stessi: la propria salute mentale è importante tanto quanto quella dei figli, il tempo per sé è prezioso.

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La disgrafia (ICD 10 – F 81.8) rientra tra i disturbi evolutivi delle abilità scolastiche, un gruppo di disturbi del neurosviluppo che riguarda la componente motoria della scrittura; in particolare: “la difficoltà o l’incapacità di comunicare in modo chiaro e corretto tramite il linguaggio scritto”. La disgrafia può manifestarsi in vari modi, rendendo difficile la formazione delle lettere, la coerenza del testo e l’organizzazione delle idee scritte ed è strettamente collegata alle capacità fino-motorie, ovvero l’uso coordinato dei piccoli muscoli delle mani e delle dita fondamentali per la scrittura.

Secondo gli studi di Borean e colleghe (2012), la capacità di scrivere in modo fluente e leggibile dipende da una combinazione di competenze visuo-percettive, abilità fino-motorie, consapevolezza propriocettiva e pianificazione motoria.

Ce ne parla la dottoressa Silvia Aurilio, terapista della neuropsicomotricità dell’età evolutiva presso Humanitas Psico Care.

Perché le competenze motorie sono importanti?

Le competenze motorie sono fondamentali per lo sviluppo del bambino poiché coinvolgono ogni aspetto del suo comportamento fin dai primi giorni di vita: che si tratti di mantenere la postura, muoversi nello spazio, usare le mani per manipolare oggetti, esplorare l’ambiente o interagire socialmente, le abilità motorie giocano un ruolo essenziale. In effetti, lo sviluppo motorio rappresenta un pilastro chiave dello sviluppo comportamentale.

Ad esempio, il controllo posturale permette al bambino di esplorare nuovi elementi dell’ambiente circostante, migliorando la sua capacità di osservare e interagire con il mondo. La locomozione consente di accedere a spazi più ampi, aprendo nuove opportunità di apprendimento e scoperta. Le abilità manuali invece favoriscono una maggiore interazione con oggetti e strumenti, migliorando la capacità del bambino di manipolare e sperimentare.

Oltre agli aspetti fisici, le capacità motorie sono strettamente legate allo sviluppo sociale. Grazie a queste abilità, i bambini hanno nuove opportunità di interazione sociale, migliorando la loro comunicazione e connessione con gli altri. Queste, infatti, non influenzano solo il corpo, ma stimolano anche lo sviluppo di altre aree come la percezione, la cognizione, il linguaggio, la regolazione emotiva e persino la salute fisica.

Infine, man mano che i bambini acquisiscono nuove capacità motorie, il loro comportamento diventa sempre più flessibile e funzionale: imparano ad adattare le proprie azioni in base ai cambiamenti del corpo e dell’ambiente sviluppando soluzioni creative per raggiungere i loro obiettivi.

Che legame c’è tra disgrafia e capacità fino-motorie?

La disgrafia è un disturbo delle abilità scolastiche che influisce sulla scrittura. La scrittura, intesa come l’insieme dei movimenti dell’arto superiore per produrre segni grafici, è un’abilità fino-motoria e di integrazione oculo manuale. Le capacità fino-motorie si riferiscono quindi alla coordinazione dei muscoli piccoli, come quelli delle mani e delle dita, necessarie per differenti attività, tra cui la scrittura. Nei soggetti con una diagnosi di disgrafia, le difficoltà nelle capacità fino-motorie possono manifestarsi:

  • Nel controllo dello strumento grafico (penna, pastello, matita, pennello): riguarda la difficoltà a mantenere una presa adeguata e a controllare che il movimento della penna avvenga a carico delle dita e non del polso o della spalla.
  • Nella formazione delle lettere: riguarda la difficoltà nel tracciare lettere in modo chiaro, continuo e leggibile.
  • Nella velocità di scrittura: scrivere per questi soggetti può richiedere più tempo e fatica rispetto ai coetanei.

Quali sono le cause della disgrafia?

Le cause della disgrafia sono varie, queste includono:

  • Fattori neurologici: alterazioni nel funzionamento del cervello, in particolare nelle aree coinvolte nell’elaborazione visiva e motoria.
  • Fattori genetici: la disgrafia può presentarsi in soggetti che hanno una familiarità, suggerendo un possibile legame ereditario.
  • Fattori ambientali: esperienze di apprendimento e l’accesso a risorse educative possono influenzare lo sviluppo delle abilità di scrittura.

Quali sono i sintomi della disgrafia?

La disgrafia può manifestarsi in modi diversi a seconda dell’età del bambino e della richiesta accademica a cui è sottoposto. I sintomi variano in base allo stadio dello sviluppo e possono coinvolgere uno o più aspetti del processo di scrittura. La disgrafia è diagnosticabile unicamente nel bambino sottoposto a scolarizzazione ed a partire dalla seconda elementare, proprio per garantire un tempo di apprendimento che esuli dalle diverse tipologie di metodo di insegnamento della stessa. Tuttavia, è possibile osservare alcuni segnali prima di questo momento.

Secondo il Centro Nazionale Statunitense per i disturbi dell’apprendimento i segnali della disgrafia comprendono:

  • Nei bambini in età prescolare (3-5 anni): presa scorretta dello strumento grafico che non consente il controllo visivo durante l’esecuzione; postura inadeguata che crea alterazioni del campo visivo o irrigidimenti muscolari; stanchezza precoce e manifestazioni dolorose durante le attività di scrittura e grafiche; evitamento di compiti di scrittura e disegno; lettere malformate, invertite o disposte in modo incoerente; tracciamento irregolare delle linee e difficoltà a rimanere entro i margini.
  • Nei bambini in età scolare (6 -12 anni): scrittura illeggibile, lenta e faticosa; alternanza tra corsivo e stampatello; difficoltà nel trovare le parole, di ortografia frequenti, legati al carico esecutivo, non presenti in assenza di esso; difficoltà nel mantenere la dimensione e la forma delle lettere, traccia instabile o tremolante.
  • Negli adolescenti e giovani adulti (>13 anni): difficoltà a organizzare i pensieri in forma scritta; difficoltà con la sintassi e la grammatica scritta che non viene riprodotta nei compiti orali; difficoltà a prendere appunti velocemente; scrittura spesso disordinata e difficile da leggere.

A qualsiasi età, la difficoltà nella scrittura può portare a frustrazione, bassa autostima e ansia, specialmente in contesti scolastici o lavorativi.

Come viene diagnosticata la disgrafia?

La disgrafia può presentarsi in comorbidità con altri DSA (disturbi specifici di apprendimento), insieme alla dislessia, disortografia e discalculia o al disturbo di coordinazione motoria. Per una diagnosi accurata è necessario un percorso valutativo condotto da un’equipe multidisciplinare composta da specialisti come logopedisti, neuropsichiatri infantili, psicologi e neuropsicomotricisti. La diagnosi della disgrafia coinvolge diversi passaggi e strumenti. La valutazione inizia con un colloquio con i genitori (ed eventualmente con gli insegnanti) per raccogliere informazioni sui comportamenti di scrittura del bambino e la visione di quaderni scolastici di diverse discipline per valutare l’impatto che il carico esecutivo ha nelle differenti materie.

Durante il processo di diagnosi, attraverso test standardizzati, vengono valutate sia le abilità cognitive che quelle motorie, escludendo la presenza di altri disturbi neurologici o deficit che potrebbero interferire con l’apprendimento.

Successivamente, viene svolta un’osservazione diretta per valutare la postura, la prensione dell’attrezzo grafico e la qualità della scrittura (in termini di leggibilità, velocità e fluenza). Anche tali parametri sono valutabili attraverso test di scrittura standardizzati, i quali consentono di confrontare la scrittura del soggetto con quella media attesa per l’età. Il criterio primo di diagnosi della disgrafia resta la leggibilità e la capacità di interpretazione dei segni grafici anche se estrapolati dal contesto, sia da terzi sia dall’individuo esecutore del compito (spesso i soggetti con disgrafia, non riescono a rileggere ciò che scrivono se decontestualizzato o se proposto a distanza di tempo). Queste valutazioni sono cruciali per definire il grado di disgrafia e pianificare un percorso di intervento personalizzato.

La riabilitazione della disgrafia

È importante che il programma di riabilitazione sia personalizzato in base alle esigenze specifiche dell’individuo. La riabilitazione della disgrafia coinvolge un approccio multidisciplinare, che può includere:

  • Interventi neuropsicomotori intensivi, specifici e mirati, volti in primo luogo alla riabilitazione delle competenze motorie fini, delle abilità visuo-percettive e visuo-motorie, e successivamente a una riabilitazione del gesto grafico.
  • Supporto educativo che riguarda strategie per facilitare l’apprendimento. In alcuni casi, infatti, può essere utile introdurre, già a partire dalla scuola primaria, misure compensative e dispensative. Le misure compensative riguardano l’introduzione di strumenti di supporto che riducano l’affaticamento esecutivo a favore di valutazioni delle specifiche aree di insegnamento, cartine mute da completare, mappe concettuali vuote già strutturate spazialmente nel foglio per diminuire l’affollamento visivo e la difficoltà di organizzazione spaziale, etc. Le misure dispensative prevedono invece limitazioni nelle richieste come: un tempo maggiore per svolgere il compito e valutazione di aree limitate dell’elaborato tarate sullo sviluppo specifico del bambino, elidendo le zone in cui il carico motorio esecutivo impatta maggiormente. La limitazione di scrittura veloce sotto dettatura va fornita come strumento compensativo solo se tale misura non impatta emotivamente sul soggetto che potrebbe sentirsi diverso e incapace di svolgere un compito collettivo come il dettato. Tutti gli strumenti compensativi e dispensativi hanno l’obiettivo di mettere il bambino in una condizione di miglior apprendimento possibile, non solo tutelando la performance ma soprattutto tutelando le implicazioni emotive che la diversità dal resto della classe può far scaturire.
  • Terapia logopedica (non sempre necessaria) per migliorare le abilità di espressione scritta e organizzazione del pensiero.

Si sottolinea, inoltre, che affrontare la disgrafia non solo come un disturbo di apprendimento, ma come una difficoltà che influenza l’autopercezione dell’individuo è essenziale per il suo sviluppo globale. Per tale motivo, nella presa in carico della disgrafia, risulta fondamentale che scuola, famiglia e professionisti tengano conto del benessere emotivo del bambino, promuovendo un ascolto attivo, un supporto emotivo ed un ambiente circostante positivo.

In che modo i genitori possono supportare le capacità fino-motorie?

Sviluppare le capacità fino-motorie nella vita quotidiana può avvenire attraverso diverse attività:

  • Giochi con le mani: attività come il modellismo con la plastilina, costruire collane infilando perline, giocare con le costruzioni o i puzzle.
  • Giochi di coordinazione: attività come il lancio di palline in contenitori o il gioco con le biglie.
  • Attività artistiche: disegnare, colorare, ritagliare e incollare.
  • Strumenti musicali: suonare strumenti come il pianoforte, la chitarra o il flauto.
  • Attività quotidiane: coinvolgere i bambini in compiti come vestirsi, allacciare le scarpe o appendere i panni con le mollette.
  • Attività di cucina: preparare cibi semplici, mescolare o tagliare ingredienti.

Incorporando queste attività nella routine quotidiana, si possono sviluppare le capacità di coordinazione oculo-manuale e fino-motoria, lavorando sulla destrezza manuale e i movimenti selettivi delle dita in modo efficace e divertente.

In conclusione, si può affermare che la disgrafia è un disturbo che può influenzare significativamente la vita di chi ne è affetto, ma con l’intervento adeguato è possibile migliorare le competenze di scrittura e la qualità della vita complessiva.

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L’inizio di un nuovo anno può rappresentare un’occasione per guardare alla propria vita e darsi nuovi obiettivi.

I buoni propositi sono spesso un modo per sentirsi più motivati e pronti a iniziare l’anno con il piede giusto, soprattutto quando quello appena trascorso non è stato all’altezza delle aspettative o quando si avverte il desiderio di migliorare alcuni aspetti della propria vita.

Talvolta questi riguardano lo stile di vita e la salute: fare regolare attività fisica, mangiare meglio, smettere di fumare, dedicare più tempo alle proprie passioni.

Tuttavia, molto spesso, i buoni propositi non riescono a concretizzarsi in impegno quotidiano. 

Perché questo accade e come fare? Ne parliamo con la dottoressa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare.

Buoni propositi: importanti utilità e motivazione

Nel definire i buoni propositi, è sempre importante partire dalla motivazione, proprio come accade per qualsiasi progetto, che sia legato al lavoro, allo studio o alla vita privata.

Quando non si riesce a portare avanti qualcosa che ci si era prefissati (come per esempio il proposito di iscriversi in palestra o di frequentarla con più regolarità) facilmente si attribuisce la responsabilità alla pigrizia. Questa in realtà è un costrutto della mente e quando c’è una vera motivazione alla base di un progetto, non bastano un po’ di stanchezza o di noia a impedirne lo sviluppo.

Per questo, quando si lavora sui buoni propositi occorre provare a inserire gli obiettivi di cui effettivamente si avverte l’utilità e per i quali quindi la motivazione è maggiore.

L’onestà nei confronti di se stessi può essere un primo passo per una lista di propositi che si possono, effettivamente, portare a termine.

Perché è importante avere buoni propositi realistici

Creare una lista di buoni propositi realistici, in linea con le proprie attitudini e che non siano eccessivamente punitivi nei confronti dei lati del proprio carattere che sono percepiti come faticosi, può essere un buon punto partenza.

Non è necessario raggiungere tutti gli obiettivi in fretta: è bene provare a valutare il tempo che si ha a disposizione nella quotidianità, cercando di capire – con un po’ di impegno ma senza stravolgere le proprie abitudini – dove inserire dei momenti in cui prendersi cura di se stessi, mettendo al centro il benessere (con passioni, sport, riposo o uno stile di vita più salutare).

Raggiungere gli obiettivi stabiliti, aiuta l’autostima e rinforza la propria visione di sé.

Infine, è molto importante anche accettare di non essere riusciti a portare a termine uno dei propositi che ci si era prefissati, senza per questo sentirsi mortificati o sviliti (per quanto ci sia impegnati nella realizzazione di un progetto, bisogna anche saper comprendere quando non si è in grado di realizzarlo).

Imparare ad avere gentilezza nei confronti di se stessi di fronte a situazioni percepite erroneamente come un fallimento, può essere il primo tra i buoni propositi per l’anno nuovo.

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