Gli smartphone sono ormai parte integrante della quotidianità, ma il loro uso può, talvolta interferire con la vita di coppia. Le continue notifiche possono generare distrazione in chi le riceve e possono far sentire trascurato il partner creando tensioni. 

Per mantenere l’armonia nella relazione è essenziale gestire queste situazioni con una comunicazione attenta e assertiva.

Ne parliamo con il dottor Andrea Ronconi, sessuologo clinico psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare e presso Humanitas Medical Care De Angeli Milano

Quando le notifiche creano distanza

Il fastidio causato dalle notifiche dello smartphone del proprio partner può essere gestito in modo sano e costruttivo, seguendo alcuni accorgimenti. 

Il primo passo è parlarne apertamente, usando un tono tranquillo, gentile e non accusatorio. In questo modo si possono prevenire ulteriori tensioni e incomprensioni reciproche. È fondamentale che l’altro capisca che l’obiettivo non è limitare le sue comunicazioni, ma creare uno spazio in cui i partner possano sentirsi reciprocamente più presenti. 

Una comunicazione onesta e gentile è fondamentale: bisogna spiegare perché le notifiche infastidiscono e come ci si sente a riguardo. Successivamente si possono definire momenti e spazi esclusivi, senza dispositivi, come durante i pasti, nei momenti di condivisione o intimità oppure a letto prima di dormire. Si può proporre di mettere entrambi i telefoni in modalità silenziosa o “non disturbare” in questi momenti.

Se la ricezione di messaggi è importante per il lavoro o altre necessità familiari o personali, in genere si consiglia di proporre un compromesso come suggerire di abbassare il volume delle notifiche o usare una vibrazione più discreta, dopo aver valutato se, effettivamente, tutte le notifiche attivate sono davvero essenziali.

Creare un ambiente di coppia rilassante può essere utile a trasformare la casa in un luogo dove entrambi si sentano a proprio agio.

La vera causa del problema

A volte il fastidio provocato dalle notifiche non è tanto collegato alla distrazione di per sé, ma a fattori più profondi. Chiedersi cosa infastidisce davvero e individuare le cause alla base delle proprie fatiche è molto importante per affrontarle in modo costruttivo e corretto. Per esempio, potrebbero insorgere preoccupazione e gelosia se si pensa che alcune notifiche provengano da persone interessate al proprio partner; oppure la continua attenzione data alle notifiche del telefono potrebbe essere letta come un segno di disinteresse nei propri confronti o come mancanza di rispetto

Riflettere su eventuali motivi più profondi e, se necessario, affrontarli insieme, può essere una buona strategia, mantenendo una comunicazione funzionale alla soluzione di problemi e al miglioramento della qualità della vita di coppia.

Tuttavia, è importante sottolineare che alcune difficoltà relazionali possono non dipendere esclusivamente dalla coppia, ma anche da problematiche personali di uno dei partner, come stress, difficoltà nella gestione delle emozioni, gelosia patologica o traumi pregressi. In questi casi, un percorso di psicoterapia individuale può rivelarsi utile per comprendere e affrontare le proprie difficoltà, migliorando così anche la qualità della relazione.

Come fare se gli accorgimenti non funzionano?

Se queste soluzioni non fossero efficaci, può essere opportuno ricorrere a strategie “autoplastiche”, cercando cioè di adattarsi a un ambiente che non può essere cambiato, modificando l’approccio interiore per gestire e tollerare meglio la situazione. Ad esempio, il fastidio del suono può essere gestito utilizzando cuffie.

Riconoscere che questa è “solo” una piccola sfida della convivenza può aiutare ad affrontarla con maggior leggerezza, ironia e collaborazione. La comunicazione aperta e la capacità di trovare dei compromessi sono sempre fondamentali.

Infine dedicare momenti alla coppia senza smartphone è fondamentale per rafforzare la connessione e rendere il tempo trascorso insieme più autentico. Per favorire la complicità può essere utile concordare momenti o situazioni in cui il telefono resta spento, come durante i pasti, prima di dormire, in gite o incontri con amici e parenti.

Se non si ha una necessità lavorativa di reperibilità costante, si può anche stabilire un luogo specifico, come un cassetto “please, do not disturb”, dove riporre i dispositivi per evitare la tentazione di controllarli.

Un altro modo per riscoprire la connessione è favorire un dialogo autentico. Fare domande aperte sui desideri, sui progetti futuri o sui ricordi felici (evitando discussioni su problemi di coppia irrisolti) aiuta a ritrovare il piacere della conversazione. Raccontarsi aneddoti divertenti o emozionanti della giornata senza distrazioni può rafforzare l’intimità.

Anche condividere attività semplici può fare la differenza. Ad esempio:

  • Cucinare: scegliere e preparare una nuova ricetta in collaborazione.
  • Passeggiare senza telefoni: godersi il momento e la conversazione.
  • Guardare un film senza distrazioni: scegliere insieme cosa vedere e immergersi nell’esperienza.
  • Attività creative: dipingere, ballare, leggere ad alta voce un libro.
  • Fare sport insieme: yoga, bicicletta, escursioni e altro.

Infine, il contatto fisico è fondamentale per rafforzare il legame di coppia. Gesti come abbracciarsi più spesso, tenersi per mano o condividere momenti di intimità favoriscono lo sviluppo di una connessione emotiva tra i partner e consolidano la relazione.

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Anoressia, bulimia e binge eating sono disturbi del comportamento alimentare (DCA) che colpiscono una percentuale sempre più significativa della popolazione giovanile, con conseguenze molto serie sul corpo e sulla mente.

Secondo una mappatura dei centri del Servizio Sanitario Nazionale realizzata dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), l’utenza in carico è prevalentemente di genere femminile (90%), con il 59% degli utenti di età compresa tra i 13 e i 25 anni e il 6% con meno di 12 anni. Per quanto riguarda le diagnosi più frequenti, l’anoressia nervosa rappresenta il 42,3% dei casi, la bulimia nervosa il 18,2% e il disturbo da alimentazione incontrollata il 14,6%. 

Come si riconoscono i disturbi dell’alimentazione e cosa fare? 

Ne parliamo con il team di professionisti Humanitas PsicoCare

Cosa sono i disturbi del comportamento alimentare?

I disturbi del comportamento alimentare sono patologie complesse, il cui sviluppo è determinato da diversi fattori, biologici, psicologici e ambientali,  che interagiscono tra loro.

Sono caratterizzate da comportamenti alimentari definiti “disfunzionali” (restrizioni estreme o abbuffate), un’eccessiva preoccupazione per il peso e da un’alterata percezione dell’immagine corporea; tali aspetti inoltre sono spesso correlati e bassi livelli di autostima, elemento che può contribuire all’insorgenza e al mantenimento del disturbo.

I disturbi dell’alimentazione possono presentarsi in associazione ad altri disturbi psichici come per esempio disturbi d’ansia e disturbi dell’umore

Contrariamente a quanto si pensi, i disturbi del comportamento alimentare, possono colpire anche persone con un peso normale, sovrappeso e obesità.

Anoressia nervosa: i sintomi

L’anoressia nervosa è caratterizzata da un’eccessiva valutazione del peso e della forma corporea, con conseguente importante perdita di peso, dovuta alla diminuzione dell’assunzione di alimenti.

Colpisce prevalentemente il sesso femminile, soprattutto tra i 14 e i 18 anni, anche se i primi segnali, in genere, possono manifestarsi già durante la pre-adolescenza o l’inizio dell’adolescenza. 

I sintomi sono molteplici, sia fisici sia psicologici. Le problematiche associate all’anoressia nervosa sono piuttosto severe e con il tempo possono essere fatali. Spesso le persone con anoressia tendono a nascondere la propria magrezza e i problemi legati all’assunzione di cibo, negano la presenza della malattia e spesso rifiutano le cure, che quindi rischiano di essere messe in atto quando il disturbo è ormai cronicizzato.

Bulimia nervosa: cos’è e quali sono i sintomi 

La bulimia nervosa si manifesta attraverso episodi ricorrenti di abbuffate seguiti da comportamenti compensatori volti a limitare l’aumento di peso, come il vomito autoindotto, l’uso di lassativi o diuretici e un digiuno di compensazione e attività fisica.

Le persone con bulimia nervosa spesso cercano di nasconderne i sintomi, le abbuffate vengono effettuate in solitudine e si caratterizzano per l’assunzione di diverse tipologie di cibo, con violenta voracità e senza alcun piacere. 

Binge eating: cos’è il disturbo da alimentazione incontrollata

Il disturbo da alimentazione incontrollata (Binge Eating Disorder) è caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate, durante i quali si consumano grandi quantità di cibo, in un tempo limitato, anche in assenza dello stimolo della fame e senza mettere in atto comportamenti compensatori. 

Questi episodi di perdita di controllo spesso si accompagnano a stati depressivi, disagi psicologici, senso di colpa e vergogna.

Disturbi del comportamento alimentare: le conseguenze per la salute

Queste condizioni possono avere gravi ripercussioni sulla salute fisica e mentale di chi ne soffre.

L’anoressia nervosa, per esempio, può causare malnutrizione, amenorrea (sospensione del ciclo mestruale), osteoporosi e altre complicanze mediche.

La bulimia nervosa, invece, può portare a disturbi dentali, problemi gastrointestinali e squilibri degli elettroliti, con possibile complicanze cardiache.

Il disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder) è associato all’obesità e alle sue relative complicanze per la salute, come Diabete di tipo 2, ipertensione e problemi cardiovascolari.

Come supportare una persona che ne soffre? 

Comunicare con una persona che soffre di disturbi del comportamento alimentare richiede particolare sensibilità ed empatia. In particolare è importante:

  • Non giudicare o commentare l’aspetto fisico: i commenti riguardanti l’aspetto fisico potrebbero aumentare l’ansia e la preoccupazione riguardo alla propria immagine corporea.
  • Non ignorare il problema o temporeggiare: intervenire tempestivamente è fondamentale per minimizzare le conseguenze fisiche e psicologiche.
  • Non forzare a mangiare (o non mangiare): forzare un cambiamento dei comportamenti alimentari può portare a resistenza e ostilità.
  • Evitare di minimizzare il disturbo: i disturbi del comportamento alimentare sono complessi, che richiedono un aiuto professionale multidisciplinare.
  • Non fare leva sul senso di colpa: i sensi di colpa possono peggiorare la situazione e non sono costruttivi. È importante mostrare invece empatia e sostegno non giudicante.

L’importanza di un trattamento precoce

Se non trattati in tempi e con metodi adeguati, i disturbi dell’alimentazione possono diventare cronici e compromettere seriamente la salute di vari organi e apparati del corpo (cardiovascolare, gastrointestinale, endocrino, ematologico, scheletrico, sistema nervoso centrale, dermatologico ecc.). All’anoressia nervosa è collegata una mortalità 5-10 volte maggiore di quella di persone sane della stessa età e sesso.

Il percorso di cura

Essendo patologie complesse, i disturbi del comportamento alimentare, richiedono una stretta e costante collaborazione tra figure professionali per garantire una diagnosi precoce e un trattamento personalizzato, adattato alle specifiche esigenze del paziente.

A seconda delle esigenze, la cura prevede l’utilizzo di terapie medico-nutrizionali, psicoterapia, gruppi educazionali, attività ricreative e/o occupazionali, il coinvolgimento dei genitori (in caso di minori).

  1. Comunicato Stampa N°05/2022- Disturbi alimentari la prima mappatura dei centri del SSN realizzata dall’ISS- Pubblicato il 24/01/2022- modificato 10/01/2022.

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Ultimo aggiornamento: Marzo 2025
Data online: Marzo 2024

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) è un disturbo mentale che colpisce circa il 2-3% della popolazione globale secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), con un impatto significativo sulla qualità della vita di chi ne soffre. Studi scientifici indicano che i sintomi del DOC si manifestano spesso in adolescenza o nella prima età adulta, e senza un trattamento adeguato, il disturbo tende a cronicizzarsi. 

Ma come si comporta una persona con disturbo ossessivo compulsivo? Ne parliamo con la dottoressa Silvia Negrin, psicologa presso Humanitas Psicocare

Come si comporta una persona con Disturbo Ossessivo Compulsivo?

Le persone con disturbo ossessivo compulsivo spesso sperimentano pensieri intrusivi e persistenti, noti come ossessioni, che generano ansia e disagio. Per cercare sollievo, mettono in atto comportamenti ripetitivi o rituali, detti compulsioni. Questi meccanismi non offrono una soluzione duratura, ma servono temporaneamente ad alleviare la tensione emotiva.

Esempi comuni includono:

  • Controllo eccessivo: verificare ripetutamente che porte e finestre siano chiuse.
  • Pulizia ossessiva: lavarsi le mani o pulire la casa in modo compulsivo per paura di contaminazioni.
  • Ordine e simmetria: organizzare oggetti in un ordine specifico, spesso accompagnato da un bisogno irrazionale di perfezione.

I meccanismi del Disturbo Ossessivo Compulsivo: ossessioni e compulsioni

Il DOC si basa su due elementi chiave:

  • Ossessioni: pensieri, immagini o impulsi ricorrenti e indesiderati che causano disagio. Le ossessioni comuni includono la paura di essere contaminati, dubbi eccessivi (es. “Ho spento il gas?”), pensieri aggressivi o tabù.
  • Compulsioni: azioni ripetitive o rituali mentali messi in atto per ridurre l’ansia causata dalle ossessioni. Possono essere comportamenti visibili (come lavarsi le mani) o rituali mentali (ripetere frasi o numeri nella mente).

Tipi di ossessioni e compulsioni

Esistono diverse forme di DOC, ognuna caratterizzata da tipi specifici di ossessioni e compulsioni:

  • DOC da contaminazione: paura eccessiva di sporco, germi o malattie.
  • DOC da controllo: bisogno di controllare più volte azioni quotidiane.
  • DOC di accumulo: difficoltà nel buttare oggetti, anche inutili.
  • DOC di ordine e simmetria: ossessione per l’ordine e il posizionamento perfetto.
  • DOC di natura aggressiva o tabù: pensieri intrusivi di tipo violento o moralmente inaccettabile.

Cosa causa il disturbo ossessivo compulsivo?

Le cause del disturbo non sono del tutto comprese, ma si ritiene che siano influenzate da molteplici fattori:

  • Fattori genetici: studi su gemelli e famiglie hanno evidenziato una componente ereditaria significativa nel DOC.
  • Squilibri neurochimici: alterazioni nella trasmissione della serotonina, un neurotrasmettitore cruciale per la regolazione dell’umore e dell’ansia, sono spesso riscontrate nelle persone con DOC.
  • Disfunzioni cerebrali: ricerche di neuroimaging mostrano iperattività in specifiche aree cerebrali, come la corteccia orbitofrontale e i gangli della base, implicate nei meccanismi di controllo e decisione.
  • Esperienze traumatiche o stressanti: eventi significativi, come abusi o perdite, possono innescare o peggiorare i sintomi del DOC in soggetti predisposti.
  • Tratto di personalità caratterizzato da perfezionismo, scrupolosità e cura eccessiva per i dettagli, tendenza al continuo controllo, coartazione dell’espressione emozionale e senso di inadeguatezza.
  • Fattori ambientali: infezioni pediatriche, come lo streptococco, sono state associate a un aumento del rischio di DOC in alcuni casi (sindrome PANDAS).

I trattamenti del disturbo ossessivo compulsivo

Il DOC è una condizione trattabile, e molte persone traggono beneficio da un intervento psicologico mirato. Tra i trattamenti più efficaci troviamo:

Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT): concentra sulla ristrutturazione dei pensieri disfunzionali e sull’esposizione graduale alle ossessioni senza ricorrere a compulsioni. Una tecnica fondamentale è l’esposizione con prevenzione della risposta (ERP), che consiste nell’esporsi progressivamente a situazioni che scatenano ansia (es. toccare oggetti considerati contaminati) senza mettere in atto rituali compulsivi. L’ERP aiuta a ridurre gradualmente l’ansia associata agli stimoli temuti e a rompere il ciclo ossessione-compulsione. Lesposizione comportamentale si verifica in maniera graduale e gerarchica, laddove gli stimoli che provocano meno paura vengono evocati per primi. Gli esercizi di esposizione possono essere messi in pratica durante una sessione (e assegnati al paziente come dei compiti per casa) attraverso una guida dal vivo o in immaginazione nella sala terapia. Durante l’esposizione dal vivo, il terapeuta porta realmente il paziente a confrontarsi con le sue paure e agli stimoli che ne sono causa. Ad esempio, a un paziente con la paura di contaminarsi potrebbe essere richiesto di toccare un oggetto sporco per qualche minuto senza potersi lavare le mani finchè diminuisce la sua ansia. Un’altra tecnica comune e diffusa è la desensibilizzazione sistematica. La desensibilizzazione sistematica implica l’esposizione graduale all’oggetto della fobia (per esempio, i ragni) e quello rilassante (ad esempio, il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson). In pratica, si tratta di individuare quelle caratteristiche che possono creare ansia in modo dettagliato dell’oggetto della fobia ad esempio: grandezza, forma, colore e altro ancora. Dopo aver individuato le caratteristiche dello stimolo e scelto su quale lavorare è importante ordinare da quello più facilmente tollerato a quello che crea più ansia. In seguito, quando la persona riesce ad immaginare nitidamente lo stimolo proposto, gli si chiede il livello di ansia provato immaginando o esponendosi finché la persona non comunica di aver provato un livello di ansia pari a zero. Successivamente, si ripete la stessa procedura aumentando l’intensità dello stimolo secondo la classifica precedentemente creata.

Infine, la ristrutturazione cognitiva: è un’altra componente importante della terapia cognitivo comportamentale per il DOC. Questa tecnica si concentra sul riconoscere e modificare i pensieri disfunzionali che alimentano l’ansia e le ossessioni. La terapia aiuta i pazienti a identificare i pensieri distorti o irrazionali e a sostituirli con pensieri più realistici e razionali. Ad esempio, una persona con disturbo ossessivo compulsivo potrebbe avere il pensiero ossessivo di aver causato un danno ad altri, anche quando non c’è evidenza di ciò. Con la ristrutturazione cognitiva, il terapeuta attraverso esercizi mirati, aiuta il paziente a riconoscere le distorsioni cognitive e a sostituirle con pensieri più equilibrati e razionali. Questo aiuta a ridurre la presa delle ossessioni e a migliorare la gestione emotiva.

La consapevolezza, o mindfulness, è un’altra componente chiave della terapia cognitivo comportamentale per il DOC (p.e., Cludius et al., 2020). Si rivela particolarmente utile per osservare i pensieri intrusivi senza giudicarli o reagire, riducendo il loro impatto emotivo ed essere più consapevoli nel presente. La mindfulness permette il distanziamento dai propri pensieri e la non azione quando arriva un pensiero o un impulso a mettere in atto uno specifico comportamento (Strauss et al., 2018). Nello studio di Key e collaboratori (2017) un gruppo di pazienti, che non avevano sperimentato una marcata riduzione dei sintomi dopo il trattamento di terapia cognitivo comportamentale, è stato inserito in un programma di Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT). I risultati hanno mostrato la presenza di significativi miglioramenti nei sintomi riportati da questi pazienti. 

ll DOC comporta molto stress e ansia, e tecniche di rilassamento  come la respirazione diaframmatica, il rilassamento muscolare (Jacobson) o il Training Autogeno (Schultz), aiutano a ridurre l’attivazione del sistema nervoso simpatico, favorendo uno stato di calma. È fondamentale per il paziente che riesca a trovare una tecnica di rilassamento che funzioni in base ai propri bisogni.

La terapia cognitivo comportamentale è un approccio altamente efficace per il disturbo ossessivo compulsivo. Attraverso tecniche come l’esposizione e prevenzione della risposta, la ristrutturazione cognitiva e la pratica della mindfulness, i pazienti possono imparare a gestire le loro ossessioni e compulsioni in modo più sano e funzionale. 

  • Abramowitz, J. S., Taylor, S., & McKay, D. (2023). The Nature and Treatment of Obsessive-Compulsive Disorder. Journal of Clinical Psychology, 79(2), 345-360. Disponibile su: https://doi.org/10.1002/jclp.23456.
  • Cludius B., Landmann S., Rose N., Heidenreich T., Hottenrott B., Schroder J. et al. (2020). Long-term effects of mindfulness-based cognitive therapy in patients with obsessivecompulsive disorder and residual symptoms after cognitive behavioral therapy: Twelve-month follow-up of a randomized controlled trial. Psychiatry Research, 291, 113–119.

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Essere genitori non è mai stato semplice, ma oggi più che mai, i cambiamenti sociali stanno trasformando radicalmente il modo in cui si interpreta questo ruolo. Oggi la genitorialità si trova di fronte a nuove e complesse dinamiche, frutto di una società in continuo mutamento. 

In questo articolo, con il contributo della dottoressa Marta Calascibetta, psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare, esploreremo come queste trasformazioni influenzano la relazione genitore-figlio e analizzeremo strategie per affrontare al meglio le sfide della genitorialità moderna.

I cambiamenti sociali e il ruolo del genitore

Il mondo è cambiato in modo profondo negli ultimi decenni e, con esso, anche le famiglie. Uno dei principali fattori che influenzano la genitorialità moderna è l’accelerazione dei ritmi di vita. Il lavoro richiede sempre più tempo ed energia, spesso portando i genitori a sacrificare il tempo da dedicare ai figli. Inoltre, la tecnologia è diventata un elemento dominante nella vita quotidiana, non solo per gli adulti ma anche per i bambini, alterando le modalità di comunicazione all’interno della famiglia.

In passato, i ruoli genitoriali erano più definiti: uno dei genitori si occupava della cura dei figli, mentre l’altro sosteneva economicamente la famiglia. Oggi, invece, assistiamo a un modello familiare più flessibile, dove entrambi i genitori lavorano e si dividono le responsabilità domestiche e genitoriali. Questa flessibilità, sebbene in molti casi sia positiva, porta con sé nuove pressioni e aspettative, soprattutto per quanto riguarda il tempo e la qualità dell’interazione con i figli.

Le principali sfide della genitorialità moderna

Rispetto al passato, i genitori di oggi devono affrontare sfide completamente nuove. Tra le più rilevanti c’è la disponibilità emotiva. Con il moltiplicarsi delle responsabilità lavorative e personali, i genitori si trovano a lottare per essere presenti, non solo fisicamente ma anche emotivamente, per i propri figli. È diventato comune sentirsi divisi tra il dovere di essere produttivi e l’esigenza di essere affettuosi e attenti, creando un forte senso di inadeguatezza.

Un’altra sfida significativa è rappresentata dall’influenza della tecnologia. Gli smartphone, i social media e i giochi elettronici spesso creano una distanza tra genitori e figli, interrompendo i momenti di vera connessione. Il tempo passato davanti agli schermi non solo riduce le opportunità di interazione, ma può anche avere effetti negativi sullo sviluppo emotivo e relazionale dei bambini.

Le conseguenze psicologiche per i genitori

Adattarsi a queste nuove realtà non è semplice, e molti genitori sperimentano un forte stress. Cercare di soddisfare le aspettative, mantenere un equilibrio tra lavoro e famiglia, e al contempo essere genitori “perfetti”, porta molti a sentirsi esausti e frustrati. Questo fenomeno, noto come “burnout genitoriale“, è in aumento. I genitori si sentono spesso isolati, incapaci di chiedere aiuto o di concedersi momenti di pausa per paura di essere giudicati.

La pressione del concetto di genitorialità perfetta, amplificata dai social media, contribuisce ad aumentare questo senso di inadeguatezza. La continua esposizione a immagini di famiglie apparentemente felici e impeccabili crea un confronto costante e irrealistico, che genera ansia e un senso di fallimento. Invece di accettare che la genitorialità è un percorso fatto di successi e fallimenti, molti genitori finiscono per inseguire un ideale irraggiungibile, con conseguenze negative sulla propria salute mentale.

Come affrontare le pressioni della genitorialità moderna

Esistono però delle strategie efficaci che i genitori possono adottare per affrontare queste sfide in modo più sereno e consapevole. In primo luogo, è fondamentale riconoscere i propri limiti. Nessuno può fare tutto alla perfezione, e imparare a delegare o a dire “no” quando necessario è una forma di cura verso se stessi e la propria famiglia.

Un’altra strategia è stabilire delle regole sull’uso della tecnologia all’interno della famiglia. Creare spazi e momenti di disconnessione, come i pasti senza telefoni o un tempo dedicato al gioco o al dialogo, può favorire una maggiore connessione emotiva con i figli.

Inoltre, è utile promuovere una genitorialità consapevole. Questo significa mettere da parte l’idea di essere sempre genitori impeccabili e abbracciare la realtà che la genitorialità è un viaggio di crescita continua, sia per gli adulti che per i bambini. Sviluppare un approccio basato sull’ascolto attivo e sulla gestione delle emozioni, sia proprie che dei figli, è un passo fondamentale per creare un ambiente familiare più equilibrato e sereno.

L’impatto sui figli

I cambiamenti nei ruoli genitoriali non influenzano solo gli adulti, ma anche i bambini o gli adolescenti. L’assenza di tempo di qualità può portare a una mancanza di sicurezza emotiva nei figli, che hanno bisogno di stabilità e di un riferimento sicuro per crescere in modo sano. Inoltre, la sovraesposizione alla tecnologia può limitare lo sviluppo delle abilità sociali e relazionali, rendendo più difficile per i bambini imparare a comunicare e a gestire le proprie emozioni.

D’altra parte, una genitorialità consapevole, basata sulla presenza emotiva e sul dialogo aperto, può offrire ai figli un modello di equilibrio e flessibilità, elementi essenziali per affrontare con resilienza le sfide della vita moderna.

La genitorialità nel mondo moderno è indubbiamente più complessa rispetto al passato, ma non è priva di risorse. Riconoscere che le difficoltà fanno parte del percorso e che nessuno è un genitore perfetto è il primo passo verso una maggiore serenità. Imparare a gestire lo stress, stabilire dei limiti e dare priorità al tempo di qualità con i propri figli sono strategie chiave per affrontare le pressioni della vita quotidiana.

Consigli pratici per affrontare le sfide della genitorialità moderna

  1. Riconoscere i propri limiti: non cercare di fare tutto da soli, ma chiedere aiuto quando se ne ha bisogno.
  2. Creare momenti di connessione: stabilire dei momenti durante la giornata in cui tutta la famiglia si disconnette dai dispositivi e si dedica al dialogo o al gioco.
  3. Accettare l’imperfezione: non esiste la genitorialità perfetta, ma è importante accettare i propri errori come opportunità di crescita.
  4. Praticare l’ascolto attivo: dedicare tempo ad ascoltare i propri figli, cercando di comprendere i loro bisogni emotivi.
  5. Prendersi cura di se stessi: la propria salute mentale è importante tanto quanto quella dei figli, il tempo per sé è prezioso.

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La disgrafia (ICD 10 – F 81.8) rientra tra i disturbi evolutivi delle abilità scolastiche, un gruppo di disturbi del neurosviluppo che riguarda la componente motoria della scrittura; in particolare: “la difficoltà o l’incapacità di comunicare in modo chiaro e corretto tramite il linguaggio scritto”. La disgrafia può manifestarsi in vari modi, rendendo difficile la formazione delle lettere, la coerenza del testo e l’organizzazione delle idee scritte ed è strettamente collegata alle capacità fino-motorie, ovvero l’uso coordinato dei piccoli muscoli delle mani e delle dita fondamentali per la scrittura.

Secondo gli studi di Borean e colleghe (2012), la capacità di scrivere in modo fluente e leggibile dipende da una combinazione di competenze visuo-percettive, abilità fino-motorie, consapevolezza propriocettiva e pianificazione motoria.

Ce ne parla la dottoressa Silvia Aurilio, terapista della neuropsicomotricità dell’età evolutiva presso Humanitas Psico Care.

Perché le competenze motorie sono importanti?

Le competenze motorie sono fondamentali per lo sviluppo del bambino poiché coinvolgono ogni aspetto del suo comportamento fin dai primi giorni di vita: che si tratti di mantenere la postura, muoversi nello spazio, usare le mani per manipolare oggetti, esplorare l’ambiente o interagire socialmente, le abilità motorie giocano un ruolo essenziale. In effetti, lo sviluppo motorio rappresenta un pilastro chiave dello sviluppo comportamentale.

Ad esempio, il controllo posturale permette al bambino di esplorare nuovi elementi dell’ambiente circostante, migliorando la sua capacità di osservare e interagire con il mondo. La locomozione consente di accedere a spazi più ampi, aprendo nuove opportunità di apprendimento e scoperta. Le abilità manuali invece favoriscono una maggiore interazione con oggetti e strumenti, migliorando la capacità del bambino di manipolare e sperimentare.

Oltre agli aspetti fisici, le capacità motorie sono strettamente legate allo sviluppo sociale. Grazie a queste abilità, i bambini hanno nuove opportunità di interazione sociale, migliorando la loro comunicazione e connessione con gli altri. Queste, infatti, non influenzano solo il corpo, ma stimolano anche lo sviluppo di altre aree come la percezione, la cognizione, il linguaggio, la regolazione emotiva e persino la salute fisica.

Infine, man mano che i bambini acquisiscono nuove capacità motorie, il loro comportamento diventa sempre più flessibile e funzionale: imparano ad adattare le proprie azioni in base ai cambiamenti del corpo e dell’ambiente sviluppando soluzioni creative per raggiungere i loro obiettivi.

Che legame c’è tra disgrafia e capacità fino-motorie?

La disgrafia è un disturbo delle abilità scolastiche che influisce sulla scrittura. La scrittura, intesa come l’insieme dei movimenti dell’arto superiore per produrre segni grafici, è un’abilità fino-motoria e di integrazione oculo manuale. Le capacità fino-motorie si riferiscono quindi alla coordinazione dei muscoli piccoli, come quelli delle mani e delle dita, necessarie per differenti attività, tra cui la scrittura. Nei soggetti con una diagnosi di disgrafia, le difficoltà nelle capacità fino-motorie possono manifestarsi:

  • Nel controllo dello strumento grafico (penna, pastello, matita, pennello): riguarda la difficoltà a mantenere una presa adeguata e a controllare che il movimento della penna avvenga a carico delle dita e non del polso o della spalla.
  • Nella formazione delle lettere: riguarda la difficoltà nel tracciare lettere in modo chiaro, continuo e leggibile.
  • Nella velocità di scrittura: scrivere per questi soggetti può richiedere più tempo e fatica rispetto ai coetanei.

Quali sono le cause della disgrafia?

Le cause della disgrafia sono varie, queste includono:

  • Fattori neurologici: alterazioni nel funzionamento del cervello, in particolare nelle aree coinvolte nell’elaborazione visiva e motoria.
  • Fattori genetici: la disgrafia può presentarsi in soggetti che hanno una familiarità, suggerendo un possibile legame ereditario.
  • Fattori ambientali: esperienze di apprendimento e l’accesso a risorse educative possono influenzare lo sviluppo delle abilità di scrittura.

Quali sono i sintomi della disgrafia?

La disgrafia può manifestarsi in modi diversi a seconda dell’età del bambino e della richiesta accademica a cui è sottoposto. I sintomi variano in base allo stadio dello sviluppo e possono coinvolgere uno o più aspetti del processo di scrittura. La disgrafia è diagnosticabile unicamente nel bambino sottoposto a scolarizzazione ed a partire dalla seconda elementare, proprio per garantire un tempo di apprendimento che esuli dalle diverse tipologie di metodo di insegnamento della stessa. Tuttavia, è possibile osservare alcuni segnali prima di questo momento.

Secondo il Centro Nazionale Statunitense per i disturbi dell’apprendimento i segnali della disgrafia comprendono:

  • Nei bambini in età prescolare (3-5 anni): presa scorretta dello strumento grafico che non consente il controllo visivo durante l’esecuzione; postura inadeguata che crea alterazioni del campo visivo o irrigidimenti muscolari; stanchezza precoce e manifestazioni dolorose durante le attività di scrittura e grafiche; evitamento di compiti di scrittura e disegno; lettere malformate, invertite o disposte in modo incoerente; tracciamento irregolare delle linee e difficoltà a rimanere entro i margini.
  • Nei bambini in età scolare (6 -12 anni): scrittura illeggibile, lenta e faticosa; alternanza tra corsivo e stampatello; difficoltà nel trovare le parole, di ortografia frequenti, legati al carico esecutivo, non presenti in assenza di esso; difficoltà nel mantenere la dimensione e la forma delle lettere, traccia instabile o tremolante.
  • Negli adolescenti e giovani adulti (>13 anni): difficoltà a organizzare i pensieri in forma scritta; difficoltà con la sintassi e la grammatica scritta che non viene riprodotta nei compiti orali; difficoltà a prendere appunti velocemente; scrittura spesso disordinata e difficile da leggere.

A qualsiasi età, la difficoltà nella scrittura può portare a frustrazione, bassa autostima e ansia, specialmente in contesti scolastici o lavorativi.

Come viene diagnosticata la disgrafia?

La disgrafia può presentarsi in comorbidità con altri DSA (disturbi specifici di apprendimento), insieme alla dislessia, disortografia e discalculia o al disturbo di coordinazione motoria. Per una diagnosi accurata è necessario un percorso valutativo condotto da un’equipe multidisciplinare composta da specialisti come logopedisti, neuropsichiatri infantili, psicologi e neuropsicomotricisti. La diagnosi della disgrafia coinvolge diversi passaggi e strumenti. La valutazione inizia con un colloquio con i genitori (ed eventualmente con gli insegnanti) per raccogliere informazioni sui comportamenti di scrittura del bambino e la visione di quaderni scolastici di diverse discipline per valutare l’impatto che il carico esecutivo ha nelle differenti materie.

Durante il processo di diagnosi, attraverso test standardizzati, vengono valutate sia le abilità cognitive che quelle motorie, escludendo la presenza di altri disturbi neurologici o deficit che potrebbero interferire con l’apprendimento.

Successivamente, viene svolta un’osservazione diretta per valutare la postura, la prensione dell’attrezzo grafico e la qualità della scrittura (in termini di leggibilità, velocità e fluenza). Anche tali parametri sono valutabili attraverso test di scrittura standardizzati, i quali consentono di confrontare la scrittura del soggetto con quella media attesa per l’età. Il criterio primo di diagnosi della disgrafia resta la leggibilità e la capacità di interpretazione dei segni grafici anche se estrapolati dal contesto, sia da terzi sia dall’individuo esecutore del compito (spesso i soggetti con disgrafia, non riescono a rileggere ciò che scrivono se decontestualizzato o se proposto a distanza di tempo). Queste valutazioni sono cruciali per definire il grado di disgrafia e pianificare un percorso di intervento personalizzato.

La riabilitazione della disgrafia

È importante che il programma di riabilitazione sia personalizzato in base alle esigenze specifiche dell’individuo. La riabilitazione della disgrafia coinvolge un approccio multidisciplinare, che può includere:

  • Interventi neuropsicomotori intensivi, specifici e mirati, volti in primo luogo alla riabilitazione delle competenze motorie fini, delle abilità visuo-percettive e visuo-motorie, e successivamente a una riabilitazione del gesto grafico.
  • Supporto educativo che riguarda strategie per facilitare l’apprendimento. In alcuni casi, infatti, può essere utile introdurre, già a partire dalla scuola primaria, misure compensative e dispensative. Le misure compensative riguardano l’introduzione di strumenti di supporto che riducano l’affaticamento esecutivo a favore di valutazioni delle specifiche aree di insegnamento, cartine mute da completare, mappe concettuali vuote già strutturate spazialmente nel foglio per diminuire l’affollamento visivo e la difficoltà di organizzazione spaziale, etc. Le misure dispensative prevedono invece limitazioni nelle richieste come: un tempo maggiore per svolgere il compito e valutazione di aree limitate dell’elaborato tarate sullo sviluppo specifico del bambino, elidendo le zone in cui il carico motorio esecutivo impatta maggiormente. La limitazione di scrittura veloce sotto dettatura va fornita come strumento compensativo solo se tale misura non impatta emotivamente sul soggetto che potrebbe sentirsi diverso e incapace di svolgere un compito collettivo come il dettato. Tutti gli strumenti compensativi e dispensativi hanno l’obiettivo di mettere il bambino in una condizione di miglior apprendimento possibile, non solo tutelando la performance ma soprattutto tutelando le implicazioni emotive che la diversità dal resto della classe può far scaturire.
  • Terapia logopedica (non sempre necessaria) per migliorare le abilità di espressione scritta e organizzazione del pensiero.

Si sottolinea, inoltre, che affrontare la disgrafia non solo come un disturbo di apprendimento, ma come una difficoltà che influenza l’autopercezione dell’individuo è essenziale per il suo sviluppo globale. Per tale motivo, nella presa in carico della disgrafia, risulta fondamentale che scuola, famiglia e professionisti tengano conto del benessere emotivo del bambino, promuovendo un ascolto attivo, un supporto emotivo ed un ambiente circostante positivo.

In che modo i genitori possono supportare le capacità fino-motorie?

Sviluppare le capacità fino-motorie nella vita quotidiana può avvenire attraverso diverse attività:

  • Giochi con le mani: attività come il modellismo con la plastilina, costruire collane infilando perline, giocare con le costruzioni o i puzzle.
  • Giochi di coordinazione: attività come il lancio di palline in contenitori o il gioco con le biglie.
  • Attività artistiche: disegnare, colorare, ritagliare e incollare.
  • Strumenti musicali: suonare strumenti come il pianoforte, la chitarra o il flauto.
  • Attività quotidiane: coinvolgere i bambini in compiti come vestirsi, allacciare le scarpe o appendere i panni con le mollette.
  • Attività di cucina: preparare cibi semplici, mescolare o tagliare ingredienti.

Incorporando queste attività nella routine quotidiana, si possono sviluppare le capacità di coordinazione oculo-manuale e fino-motoria, lavorando sulla destrezza manuale e i movimenti selettivi delle dita in modo efficace e divertente.

In conclusione, si può affermare che la disgrafia è un disturbo che può influenzare significativamente la vita di chi ne è affetto, ma con l’intervento adeguato è possibile migliorare le competenze di scrittura e la qualità della vita complessiva.

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L’inizio di un nuovo anno può rappresentare un’occasione per guardare alla propria vita e darsi nuovi obiettivi.

I buoni propositi sono spesso un modo per sentirsi più motivati e pronti a iniziare l’anno con il piede giusto, soprattutto quando quello appena trascorso non è stato all’altezza delle aspettative o quando si avverte il desiderio di migliorare alcuni aspetti della propria vita.

Talvolta questi riguardano lo stile di vita e la salute: fare regolare attività fisica, mangiare meglio, smettere di fumare, dedicare più tempo alle proprie passioni.

Tuttavia, molto spesso, i buoni propositi non riescono a concretizzarsi in impegno quotidiano. 

Perché questo accade e come fare? Ne parliamo con la dottoressa Paola Mosini, psicologa e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare.

Buoni propositi: importanti utilità e motivazione

Nel definire i buoni propositi, è sempre importante partire dalla motivazione, proprio come accade per qualsiasi progetto, che sia legato al lavoro, allo studio o alla vita privata.

Quando non si riesce a portare avanti qualcosa che ci si era prefissati (come per esempio il proposito di iscriversi in palestra o di frequentarla con più regolarità) facilmente si attribuisce la responsabilità alla pigrizia. Questa in realtà è un costrutto della mente e quando c’è una vera motivazione alla base di un progetto, non bastano un po’ di stanchezza o di noia a impedirne lo sviluppo.

Per questo, quando si lavora sui buoni propositi occorre provare a inserire gli obiettivi di cui effettivamente si avverte l’utilità e per i quali quindi la motivazione è maggiore.

L’onestà nei confronti di se stessi può essere un primo passo per una lista di propositi che si possono, effettivamente, portare a termine.

Perché è importante avere buoni propositi realistici

Creare una lista di buoni propositi realistici, in linea con le proprie attitudini e che non siano eccessivamente punitivi nei confronti dei lati del proprio carattere che sono percepiti come faticosi, può essere un buon punto partenza.

Non è necessario raggiungere tutti gli obiettivi in fretta: è bene provare a valutare il tempo che si ha a disposizione nella quotidianità, cercando di capire – con un po’ di impegno ma senza stravolgere le proprie abitudini – dove inserire dei momenti in cui prendersi cura di se stessi, mettendo al centro il benessere (con passioni, sport, riposo o uno stile di vita più salutare).

Raggiungere gli obiettivi stabiliti, aiuta l’autostima e rinforza la propria visione di sé.

Infine, è molto importante anche accettare di non essere riusciti a portare a termine uno dei propositi che ci si era prefissati, senza per questo sentirsi mortificati o sviliti (per quanto ci sia impegnati nella realizzazione di un progetto, bisogna anche saper comprendere quando non si è in grado di realizzarlo).

Imparare ad avere gentilezza nei confronti di se stessi di fronte a situazioni percepite erroneamente come un fallimento, può essere il primo tra i buoni propositi per l’anno nuovo.

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Rousseau sosteneva che il piacere derivante dall’osservare le disgrazie altrui fosse collegato a un senso di “distacco sicuro”, una condizione che nasce dal fatto di non essere direttamente coinvolti nella sofferenza osservata. Questo fenomeno si manifesta, ad esempio, quando assistiamo a incidenti o catastrofi attraverso i media: il dolore viene vissuto indirettamente, senza il rischio di un coinvolgimento personale nella sofferenza reale, assecondando un impulso voyeuristico senza mettere a rischio la propria sicurezza.

Ce ne parla il dottor Pietro Ramella, psicologo e psicoterapeuta di Humanitas PsicoCare.

Cosa spinge alla curiosità morbosa?

La ricerca suggerisce che la curiosità umana verso gli stimoli negativi, come scene di morte o sofferenza, permette di acquisire una conoscenza più profonda del mondo. Gli esseri umani, infatti, tendono a esplorare ciò che appare nuovo o sconosciuto e gli stimoli negativi possono rappresentare una fonte di informazioni particolarmente rilevante.

Christian Unkelbach e colleghi hanno suggerito che le informazioni negative spesso vengono percepite come uniche, mentre le informazioni positive tendono a essere più simili tra loro. Gli eventi che ritraggono morte, violenza o disastri si discostano dalla norma e, per questo, risultano essere fonti di informazioni relativamente più rare. Questo contribuisce a un maggiore “guadagno informativo”, poiché questa rarità delle informazioni le rende più interessanti e degne di approfondimento.

Le scene che evocano emozioni negative stimolano domande spontanee, come: “Cos’è successo?”, “Quali sono le relazioni tra le persone?”, “Cosa succederà dopo?”. Questo impulso a colmare il divario informativo spinge le persone a trovare risposte a domande sempre più complesse.

Tuttavia, la curiosità verso stimoli negativi non è motivata esclusivamente dal desiderio di ottenere informazioni. In alcuni casi, può essere spinta anche dalla volontà di provare empatia o simpatia per le persone coinvolte[1].

Per meglio comprendere questo processo bisognerebbe chiaramente contestualizzarlo e personalizzarlo: “Chi è la persona che sta osservando lo stimolo negativo se così possiamo chiamarlo? In che fase di vita si trova? Che tipo di personalità la caratterizza?”.

Rispondendo a ognuna di queste domande potremmo sicuramente avere una comprensione più approfondita. 

Vi sono alcune abilità che vengono insegnate in alcuni percorsi psicoterapici dove anche solo l’immaginare eventi negativi accaduti in passato o ad altri potrebbe permetterci di comprendere meglio lo stato di benessere in cui ci troviamo oggi. 

Sicuramente parlare di curiosità sadica sarebbe troppo superficiale. È comunque probabile che a seconda di come la persona si sente quando si trova di fronte a certe notizie, il suo stato d’animo e il suo umore in quel momento incrementino o meno l’interesse nell’osservare/approfondire questi stimoli.

Se una persona ha vissuto un lutto o un evento catastrofico potrebbe essere “attratta” da un certo tipo di notizie per vari motivi, come per esempio l’essere più portata a empatizzare e a comprendere le dinamiche emotive che possono far parte di quell’evento. In caso contrario potrebbe invece essere spinta a “cambiare canale” proprio per evitare quel tipo di stimolo. Anche l’evitamento emotivo è un meccanismo di difesa, sebbene la società odierna abbia incrementato in modo esponenziale i canali attraverso i quali siamo costantemente bombardati da notizie di ogni genere. Per cui un’altra ipotesi potrebbe essere quella dell’abituazione allo stimolo: in sintesi siamo così “abituati” a vedere/ascoltare scene cruenti, catastrofiche, dolorose che potremmo aver innalzato la nostra soglia di sopportazione arrivando quindi quasi a un evitamento emotivo, proteggendoci da quelle immagini con il distacco. 

Che ruolo ha lo streaming live nell’osservazione degli eventi significativi?

Negli ultimi anni l’aumento della frequenza e della gravità degli eventi meteorologici estremi ha catturato l’attenzione di tutto il mondo. Il pubblico è sempre più attratto dalle riprese drammatiche trasmesse in diretta su piattaforme social. Uno studio dell’Università di Plymouth,  prendendo in esame tre eventi significativi (l’uragano Irma nel 2017, l’uragano Ian nel 2022 e le tempeste Dudley, Eunice e Franklin del 2022) ha evidenziato che molte persone nelle aree colpite utilizzavano questi flussi per discutere i consigli ufficiali del governo riguardanti l’evacuazione e altre misure di sicurezza. Sebbene il desiderio di seguire lo streaming live di eventi estremi possa essere dettato anche dalla spettacolarità dell’evento e dal legame che la persona può avere con le aree colpite, lo studio ha dimostrato che gli spettatori utilizzavano questi streaming soprattutto per capire meglio le dinamiche dei pericoli e valutare l’affidabilità delle fonti di informazione (sebbene la comunicazione dei rischi da parte degli scienziati sia diventata ormai accessibile a tutti, molte persone preferiscono discutere delle dinamiche del pericolo in contesti più informali).

In questo contesto, i flussi rappresentano quindi una nuova forma di testimonianza collettiva che favorisce l’apprendimento, la solidarietà e la costruzione di comunità.

In che modo i disastri facilitano la connessione tra le persone?

I disastri mettono le persone in una situazione di sofferenza condivisa, rendendo più facile comunicare e condividere le proprie emozioni. Questo può portare a una connessione più profonda tra le persone, favorendo l’aiuto reciproco e creando un senso di comunità. Condividere la sofferenza aumenta la probabilità che le persone si sostengano a vicenda, proteggendo anche se stesse dagli effetti negativi dello stress[2].

Come si può promuovere la compassione e l’altruismo anche in assenza di catastrofi?

Per far crescere la compassione anche fuori dai momenti di emergenza, è utile mostrare gli effetti positivi del sostegno agli altri anche in tempi normali. Ad esempio, si possono creare occasioni per far vedere come le azioni di aiuto abbiano un impatto positivo su chi le riceve, mostrando i risultati ottenuti. Questo può spingere le persone a essere più motivate ad aiutare, anche senza una situazione di crisi. Far vedere concretamente l’effetto delle azioni di solidarietà aiuta a rafforzare la voglia di essere d’aiuto, a prescindere dalla presenza di un disastro[3].

Dark tourism perché le persone vogliono andare nei luoghi dei disastri?

Il turismo dei disastri naturali rappresenta una forma singolare di esplorazione turistica, dove la principale motivazione è osservare i fenomeni naturali estremi e i loro effetti: i turisti sono attratti dal rischio e dall’esperienza diretta di eventi catastrofici.

Le principali motivazioni che spingono i turisti a visitare luoghi di disastri naturali possono essere suddivise in tre categorie principali:

  • L’attrazione per la bellezza selvaggia e indomita delle aree colpite da eventi estremi.
  • L’unicità e la natura temporanea di questi fenomeni, che li rendono particolarmente affascinanti.
  • La possibilità di vivere sensazioni forti osservando il potere distruttivo della natura[4].

Il turismo dei disastri naturali può essere suddiviso in due periodi principali, ciascuno caratterizzato da diversi livelli di rischio e interesse turistico: durante o subito dopo l’evento estremo e nel periodo successivo all’evento. Tuttavia, l’interesse per il turismo dei disastri tende a diminuire drasticamente entro poco tempo dall’evento[5].

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Come affrontano i bambini la perdita di una persona amata? Come dirgli che un loro caro, un parente o un amico a cui volevano bene non c’è più? Non possiamo proteggerli dal dolore di una perdita (soffriranno esattamente come noi) ma possiamo aiutarli ad elaborare il lutto nel modo giusto. Come? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Ylenia Canavesio, neuropsicologa e psicoterapeuta di PsicoCare.

Come dire ad un bambino che una persona a cui volevano bene non c’è più?

Non possiamo sapere come un bambino potrà reagire all’annuncio di una morte perché ognuno è diverso dall’altro. Tuttavia, sappiamo che cosa dobbiamo dirgli, ovvero, la verità. Utilizzando parole semplici e dirette, come: “Ho una notizia triste da darti, la nonna oggi è morta”. Non “la nonna si è addormentata”, perché non sarebbe vero.

Per i più piccoli, il concetto del “per sempre” non è facile da capire (pensano che prima o poi la persona tornerà); mentre i bambini più grandi (tra i 6 e i 9 anni) iniziano a comprendere il concetto di irreversibilità della morte ma, allo stesso tempo, vivono con estrema paura e ansia l’abbandono delle figure amate e

potrebbero avere tante domande da fare. Il compito dell’adulto sarà quello di rispondere in modo chiaro e onesto.

Come può reagire un bambino di fronte al lutto?

Generalmente, lo stadio dopo la morte di una persona amata è caratterizzato da un sentimento di confusione e incredulità, accompagnato dalla negazione della situazione (“Vedrò di nuovo il mio papà, verrà a prendermi a scuola”) e del per sempre (“Il mio papà se ne è andato solo per un po’”); dalla sensazione che la persona sia ancora viva e dalla convinzione di vederla ancora o, per esempio, di sentire la sua voce, vedere la sua macchina. La rabbia, la tristezza e senso di solitudine sono vissuti predominanti in questa fase.

Queste emozioni intense portano spesso il bambino a pensare alla perdita, cercando di trovare il senso di quanto è accaduto interferendo nel suo quotidiano. 

Per i bambini, tuttavia, può essere difficile esternare questo dolore attraverso le parole, ed è più facile che reagiscano manifestando alcuni disagi nel comportamento con sintomi fisici, collegati allo shock della perdita: crisi frequenti di rabbia e aggressività; regressioni a fasi precedenti dello sviluppo; disturbi del sonno con incubi e risvegli notturni; perdita dell’appetito; pianti disperati; forti grida e tremori, seguiti dal momento della nostalgia, mancanza o ricerca della persona amata.

Come aiutare un bambino a superare un lutto?

Non possiamo proteggere i bambini da un lutto e anche loro, come gli adulti, hanno il diritto di soffrire per la perdita di una persona cara. Tuttavia, ci sono alcune strategie che possiamo adottare per aiutarli a elaborare meglio la morte di una persona cara, come:

1. Dire sempre la verità

2. Non nascondere le nostre emozioni

3. Rispondere alle domande

4. Per i bambini più grandi può essere utile partecipare al funerale

5. Creare dei ricordi con delle foto di momenti belli trascorsi insieme

6. Fargli scrivere una lettera o un biglietto, oppure fare un disegno per la persona morta, per permettergli di esprimere quelle emozioni difficili da dire a voce

7. Ricordare al bambino che quella persona avrà sempre un posto speciale nel suo cuore

8. Raccontare cosa cambierà (per esempio, “Verrà la zia a prenderti a scuola perché io dovrò passare qualche giorno con il nonno”).

Come spiegare a un bambino dov’è andata la persona morta?

Spesso i genitori non sanno cosa rispondere quando un bambino gli chiede dove va una persona dopo la morte. In realtà non c’è una risposta sola. Dipende molto dai propri valori, dalla fede e dal credo della famiglia. La cosa importante è fargli capire che anche se una persona cara non c’è più, continuerà a vivere nel cuore di chi gli ha voluto bene.

Dire: “Sai che non lo so?” quando non ci sentiamo sufficientemente pronti a rispondere a certe domande, va bene. Ci è consentito prenderci del tempo per rifletterci su e prepararci, l’importante però è tornare sulla domanda appena possibile e dare una risposta.

Quando è necessario rivolgersi a uno specialista?

Ogni bambino è diverso e può affrontare la morte di una persona importante con tempi e reazioni differenti. Non ci sono comportamenti e tempistiche giuste o sbagliate. La cosa importante è che i genitori continuino a monitorare il comportamento del bambino, osservando il suo umore e valutando il modo in cui sta affrontando la situazione, sapendo che in qualsiasi momento, possono chiedere un confronto a un terapeuta dell’età evolutiva.

Quando sentiamo di non poter dare il giusto supporto al piccolo perché siamo troppo coinvolti dal dolore della perdita, possiamo chiedere un aiuto a figure adulte vicine al bambino. Alcuni bambini, quando percepiscono che il genitore è sopraffatto dal dolore, pensano che non vi sia spazio per il proprio.

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La festa di Halloween porta con sé zucche, fantasmi, zombie e ragni, elementi che ormai fanno parte della tradizione anche in Italia. Tuttavia, se per molti rappresenta un’occasione di festa, per alcuni può diventare motivo di ansia e stress, soprattutto per chi soffre di fobie. Questo “panico da Halloween”, può essere legato a paure specifiche, causando reazioni psicofisiche come ansia e malessere.

La dottoressa Elena Catenacci, psicologa di Humanitas PsicoCare, ci spiega come superare la paura durante la notte di Halloween.

Perché Halloween può suscitare paura?

Halloween tende a esaltare alcune fobie, ovvero paure patologiche e irrazionali che generano reazioni eccessive come attacchi di panico. Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), esistono quattro sottotipi specifici di fobia:

1. Fobie degli animali: come paura di cani, ragni, serpenti

2. Fobie di eventi ambientali o naturali: come timore di altezza, temporali, acqua

3. Fobie di sangue, lesioni e ferite

4. Fobie situazionali: legate a trasporti pubblici, tunnel, luoghi chiusi o volare.

Qual è la differenza tra paura e fobia?

La paura è una risposta fisiologica al pericolo o alle minacce percepite. Svolge una funzione “protettiva”, aiutando le persone a rispondere prontamente a situazioni pericolose o sconosciute. Questa reazione può variare d’intensità in base alla gravità dell’evento e tende a scomparire una volta gestito o eliminato lo stimolo. Ad esempio, sentirsi spaventati di fronte a un cane aggressivo per strada è una risposta normale e istintiva, che ci aiuta a preservare la nostra sicurezza.

Al contrario, la fobia rappresenta una paura intensa, irrazionale e persistente verso un oggetto, una situazione o un’attività specifica, spesso priva di reale pericolo. Le fobie non sono semplici reazioni di paura, ma vere e proprie condizioni di ansia che spingono chi ne soffre a evitare situazioni, anche se innocue, che potrebbero provocare stress o angoscia. Ad esempio, una persona con una fobia dei cani potrebbe sperimentare un’ansia estrema anche solo vedendo un cane a distanza o immaginandolo, pur sapendo che l’animale è innocuo.

In sintesi, mentre la paura è una risposta normale e adattiva a un pericolo, la fobia è una reazione sproporzionata e spesso incontrollabile, che può compromettere la qualità della vita.

Quali sono le fobie più frequenti durante Halloween?

Tra le fobie più comuni troviamo la claustrofobia (paura degli spazi chiusi) e l’agorafobia (paura dei luoghi aperti), ma Halloween porta alla ribalta altre paure legate all’immaginario collettivo. Tra queste:

  • Aracnofobia: paura di ragni e di alcuni insetti
  • Brontofobia: paura di tuoni e fulmini
  • Coulrofobia: paura irrazionale dei pagliacci
  • Emetofobia: paura di vomitare
  • Nictofobia: paura del buio
  • Ofidiofobia: paura dei serpenti.

Come si possono affrontare queste fobie?

Le fobie possono essere trattate efficacemente con la terapia cognitivo-comportamentale e altre tecniche di supporto, come:

  • Bio feedback: tecnica di allenamento che aiuta a controllare le risposte fisiche, come il battito cardiaco, per gestire meglio le proprie emozioni.
  • Esposizione graduale: consiste nell’affrontare la paura con esposizioni graduali e frequenti, per abituare il corpo e la mente a non reagire in modo eccessivo.

Consigli pratici per superare la paura di Halloween

Ecco alcuni suggerimenti utili per vivere Halloween senza ansie o stress:

  • Gestione delle emozioni con il supporto di un esperto: l’aiuto di un professionista può rendere più facile apprendere il controllo delle emozioni attraverso tecniche come il biofeedback.
  • Razionalizzare le paure: riconoscere che persone, animali o oggetti legati Halloween non rappresentano una vera minaccia. Affrontare gradualmente ciò che causa disagio aiuta a ridurre l’ansia nel tempo.
  • Evitare di catastrofizzare: imparare a gestire le emozioni in modo calmo e razionale, ricordando che la paura può essere controllata.
  • Rilassarsi con il training autogeno: questa tecnica di rilassamento psicofisico, usata anche in ambito clinico, è molto efficace per gestire lo stress e l’ansia.

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La derealizzazione e la depersonalizzazione sono sintomi dissociativi spesso presenti nei disturbi d’ansia, caratterizzati rispettivamente da una percezione alterata della realtà e da un distacco dal proprio sé. Comprendere i meccanismi sottostanti può aiutare a gestirli e a ridurre il loro impatto sulla vita quotidiana.

Ce ne parla il dottor Alessandro Spiti, psichiatra di Humanitas PsicoCare.

Cosa sono la derealizzazione e la depersonalizzazione nei disturbi d’ansia?

La derealizzazione e la depersonalizzazione sono fenomeni dissociativi che possono insorgere in condizioni di forte stress o ansia. La derealizzazione si manifesta con una percezione alterata dell’ambiente circostante, che appare estraneo o privo di vividezza. Al contrario, la depersonalizzazione, provoca un senso di distacco dalla propria identità (ovvero il senso di sé che ciascuno sviluppa e percepisce nel corso della vita, influenzato da fattori personali, culturali, sociali e relazionali) o dal proprio corpo. Questi fenomeni sono spesso legati all’iperattivazione dell’amigdala, una struttura cerebrale coinvolta nella risposta alla paura (quando il cervello attiva meccanismi di difesa per proteggersi da un sovraccarico emotivo).

Quali sono i sintomi della derealizzazione e della depersonalizzazione?

I sintomi della derealizzazione includono la sensazione che il mondo appaia distorto, irreale o avvolto in una nebbia. Chi soffre di depersonalizzazione, invece, descrive una sensazione di distacco dal proprio corpo o dai propri processi mentali, come se si fosse spettatori della propria vita. Questi sintomi possono generare paura e disorientamento, intensificando il ciclo ansioso.

Quali sono le cause della derealizzazione e depersonalizzazione nei disturbi d’ansia?

Le cause di derealizzazione e depersonalizzazione sono complesse e spesso coinvolgono una combinazione di fattori biologici, psicologici e ambientali. L’ansia intensa e lo stress cronico sono tra i principali fattori scatenanti, in quanto mettono il cervello in uno stato di allerta continua.

Qual è la relazione tra derealizzazione, depersonalizzazione e agorafobia?

La derealizzazione e depersonalizzazione sono strettamente legate all’agorafobia. I pazienti che soffrono di disturbo di panico, in particolare con sintomi psicosensoriali (come la derealizzazione e la depersonalizzazione) sono più predisposti a sviluppare agorafobia, ovvero la paura degli spazi aperti. Questi sintomi intensificano la percezione di vulnerabilità, portando a evitare le situazioni percepite come pericolose. Anche quando i sintomi di panico si riducono, l’agorafobia può persistere a causa della continua presenza di sintomi di derealizzazione e depersonalizzazione.

Quali sono gli effetti della derealizzazione e della depersonalizzazione sulla vita quotidiana?

I sintomi di derealizzazione e depersonalizzazione possono influire notevolmente sulla qualità di vita. Le persone che ne soffrono possono avere difficoltà di concentrazione, a prendere decisioni e a mantenere relazioni sociali. La sensazione di disconnessione dall’ambiente o dal proprio corpo può incrementare il senso di isolamento e peggiorare l’ansia, innescando un circolo vizioso difficile da spezzare.

Come si trattano derealizzazione e depersonalizzazione nei disturbi d’ansia?

Il trattamento per la derealizzazione e la depersonalizzazione mira principalmente a ridurre l’ansia e gestire i fenomeni dissociativi. La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è spesso utilizzata per aiutare i pazienti a riconoscere e modificare i pensieri che alimentano l’ansia e la dissociazione. Inoltre,  tecniche di rilassamento come la respirazione diaframmatica possono essere utili per ridurre l’attivazione del sistema nervoso simpatico. Nei casi più gravi, è possibile ricorrere a un trattamento farmacologico con antidepressivi serotoninergici e/o ansiolitici, sempre sotto la supervisione di uno specialista.

Esistono strategie preventive che possono aiutare a ridurre questi sintomi?

Prevenire la derealizzazione e la depersonalizzazione nei disturbi d’ansia richiede una gestione efficace dell’ansia e dello stress. Adottare uno stile di vita sano, con esercizio fisico regolare, una dieta equilibrata e un buon ritmo sonno-veglia può aiutare a ridurre il rischio di episodi dissociativi. È essenziale, inoltre, che chi soffre di questi sintomi collabori con un professionista della salute mentale per sviluppare strategie di coping personalizzate (ovvero, metodi e comportamenti per gestire lo stress, affrontare difficoltà emotive e superare situazioni problematiche, grazie alla capacità di “far fronte” o “adattarsi” a situazioni sfidanti). Con il giusto supporto e trattamento, è possibile ridurre significativamente l’impatto di questi fenomeni e migliorare la qualità della vita.

Bibliografia

  1. Sierra, M., & David, A. S. (2011). Depersonalization: A selective impairment of self-awareness. Consciousness and Cognition, 20(1), 99-108.
  2. Hunter, E. C., Sierra, M., & David, A. S. (2004). The epidemiology of depersonalization and derealization: A systematic review. Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology, 39(1), 9-18.
  3. American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5).
  4. Medford, N., & Sierra, M. (2009). Dissociation and the self in neuropsychiatric disorders. Nature Reviews Neuroscience, 10(1), 23-38.
  5. Phillips, M. L., & Sierra, M. (2003). Depersonalization disorder: A functional neuroanatomical perspective. Cognitive Neuropsychiatry, 8(3), 295-309.
  6. Simeon, D., & Abugel, J. (2006). Feeling Unreal: Depersonalization Disorder and the Loss of the Self. Oxford University Press.
  7. Michal, M., et al. (2011). Prevalence and psychosocial correlates of depersonalization in the German general population. Journal of Nervous and Mental Disease, 199(5), 361-366.
  8. Lanius, R. A., et al. (2015). Restoring large-scale brain networks in PTSD and related disorders: A proposal for neuroscientifically-informed treatment interventions. European Journal of Psychotraumatology, 6(1), 27313.

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