Quante volte ci è capitato di essere compassionevoli verso gli altri, prenderci cura di loro, trattarli con amore e cura quando ne avevano più bisogno per poi essere duri e critici con noi stessi magari nel momento in cui affrontavamo la stessa difficoltà? Perché proviamo compassione per gli altri e per noi no? Sono stati gli psicologi Kristin Neff e Chris Germer i primi a rispondere a questa domanda, creando un percorso per insegnare alle persone la gentilezza e la compassione verso sé stesse, intuendo quanto sia difficile farlo, specie in una società che ci vuole sempre più perfetti.
Ce ne parla il dott. Giacomo Calvi Parisetti, psicologo e psicoterapeuta di PsicoCare.
Cosa si intende per auto compassione?
Prima di parlare di self compassion è fondamentale comprendere che cos’è la compassione. Tante volte, nella nostra società, questo concetto assume una valenza sgradevole, specie se è indirizzato verso di noi. Questo accade perché molto frequentemente tendiamo a confondere la compassione con la pena.
La differenza essenziale risiede nel fatto che spesso la persona che prova pena viene avvertita un gradino sopra la persona che è invece oggetto di pena (che si trova quindi su un gradino più basso) con una “differenza di rango”. Al contrario, la compassione implica una posizione “paritaria”, “allo stesso livello” in cui il vissuto viene condiviso empaticamente e con una funzione di cura.
Possiamo riassumere la compassione con una semplice equazione:
Compassione = Empatia (capacità di riconoscere le emozioni e i vissuti altrui) + Desiderio di supportare o alleviare la sofferenza altrui o propria.
Tuttavia, Hayes (2012) definisce la compassione come “l’abilità di esperire in modo accettante emozioni difficili; di osservare in modo mindful i nostri pensieri giudicanti, senza permettere loro di dominare le nostre azioni e i nostri stati mentali; di impegnarci in modo pieno con gentilezza e autovalidazione verso direzioni di vita ricche di valore; e di cambiare in modo flessibile la nostra prospettiva verso un più ampio senso di sé” (Hayes, 2012; Dahl, e coll. 2009).
Kristin Neff, pioniera nella pratica e nello sviluppo delle abilità di compassione, ne ha invece, identificate tre componenti: gentilezza verso sé stessi (ovvero essere gentili con noi stessi quando soffriamo o sbagliamo, piuttosto che giudicarci duramente), umanità comune (ricordandoci che tutti a volte soffrono o sbagliano e che non siamo gli unici ad affrontare momenti così difficili) e consapevolezza (non dobbiamo farci sopraffare dai pensieri negativi: va bene riconoscerli come dolorosi, ma sono solo pensieri, non uno stato d’animo).
A cosa serve l’auto compassione?
L’auto compassione ci consente di alleviare il disagio mentale (e volerci più bene) e ci aiuta a sviluppare e accrescere le nostre capacità e il nostro benessere.
Contrariamente a quanto si possa pensare, l’auto compassione non ci priva della motivazione a migliorare (“Se non mi autocritico quando sbaglio, sarò comunque in grado di imparare dai miei errori?”). Lo conferma una ricerca condotta nell’Università della California a Berkeley, dove ad alcuni studenti è stato chiesto di sostenere un esame accademico estremamente impegnativo, che nessuno è riuscito a superare bene.
Gli studenti erano stati divisi in tre gruppi, ognuno dei quali aveva ricevuto un annuncio diverso dopo il test. Ad un gruppo è stato dato un messaggio di autocompassione: “Se hai avuto difficoltà con il test che hai appena sostenuto, non sei solo. È normale che gli studenti abbiano difficoltà con un esame come questo”. Un altro gruppo ha ricevuto una spinta all’autostima: “Devi essere intelligente se entri a Berkeley!”.
Quindi i ricercatori hanno dato a tutti gli studenti la possibilità di studiare per tutto il tempo che ritenevano necessario per sostenere un nuovo test. Il gruppo dell’auto-compassione ha studiato più a lungo, mostrando la maggiore motivazione a migliorare dopo un fallimento iniziale (e segnando anche un punteggio leggermente più alto).
Questa motivazione al miglioramento si estende anche all’ambito interpersonale.
Gli stessi ricercatori hanno scoperto che le persone più auto compassionevoli hanno maggiori probabilità di chiedere scusa e fare pace con gli altri quando sbagliano, riconoscendo più facilmente i propri errori, perché non si sentono così psicologicamente schiaccianti da quest’ultimi. Ciò gli consente di assumersi più responsabilità per le proprie azioni e la sicurezza di dire: “Ok, ho fallito. Mi sento così male. Bene, è umano. Le persone fanno errori. Come posso ripararlo?”.
La self compassion è utile anche per molti disturbi mentali o situazioni di sofferenza emotiva, spesso riconducibili alla presenza del cosiddetto “Giudice interiore”, che attraverso processi di pensiero e meta-pensiero, come il rimuginio o la ruminazione, favorisce l’instaurarsi di circoli viziosi e il cronicizzarsi di vissuti di ansia e depressione. La self-compassion, in quest’ottica, funge proprio da antidoto, configurandosi proprio come l’opposto benevolo del “Giudice interiore” .
A tal proposito, negli ultimi anni è stata sviluppata un nuovo approccio psicoterapeutico, che prende il nome di Compassion Focused Therapy (CFT) (Terapia basata sulla Compassione) e fa parte delle psicoterapie Cognitivo Comportamentali basate sulla Mindfulness.
Si tratta di una terapia messa a punto dal Prof. Paul Gilbert (2005), presso l’Università di Derby nel Regno Unito, psicologo e psicoterapeuta impegnato da molti anni nella ricerca clinica e scientifica sul senso di colpa, sulla vergogna e sull’autocritica, i quali sono elementi cardine di molti disturbi psicologici, dalla depressione alle psicosi.
Come fare self compassion?
È fondamentale allenare la propria consapevolezza: imparare a riconoscere il proprio giudice interiore, quella voce che ci dice “non sei stata abbastanza”, “potevi fare di più”, “ti sei visto così fai schifo”. Il semplice gesto di notare questa voce è il primo passo.
Anche la meditazione può essere un grande alleato; in particolare, la pratica mindfulness può aiutarci a sviluppare ed allenare la nostra consapevolezza. Allo stesso tempo, dobbiamo anche allenarci e sviluppare un dialogo compassionevole e comprensivo con noi stessi, allenando quella voce non giudicante, calda e accogliente che tiene conto dei nostri bisogni e delle nostre difficoltà (“Capisco e riconosco che questo sia molto faticoso per me”, “Posso concedermi di sbagliare”, “Cosa posso fare per prendermi cura di me stesso in questo momento?”).
Anche qui la meditazione è importante, offrendoci numerose pratiche di compassione e consapevolezza come, ad esempio, la Meditazione Metta e la Meditazione dell’auto-perdono.
Infine, in presenza di forte sofferenza fisica o del desiderio di approfondire maggiormente questo argomento, è sempre utile rivolgersi ad un esperto o ad una persona con esperienza nel campo, in questo caso può essere lo psicologo-psicoterapeuta con formazione specifica oppure una figura professionale (nutrizionisti, medici, istruttori di meditazione) che ha svolto una formazione in questo ambito.